Nota storica sulla  di percezione

di Michele Laurenzano

Riferendosi agli studi di Democrito, Alcmeone di Crotone, medico della Scuola di Pitagora, pervenne alla convinzione che la percezione delle cose fosse una conseguenza di simulacri provenienti dall’ambiente e che colpivano l’occhio. A questo punto Aristotele (384-322 a.C.) accettando la definizione di occhio come trappola dei simulacri, sostenne che il cervello essendo composto di acqua risultava freddo e quindi non poteva trasmettere sensazioni, a differenza di quanto poteva verificasi con il sangue che in seguito a circolazione, essendo caldo, consentiva di comunicare sentimenti e pensieri. Nel periodo magno-greco lo studioso Epicureo (342-270 a.C.), diversamente da quanto sosteneva Aristotele, considerò l’occhio come strumento che irradiava l’anima (faro dell’anima) consentendo di esplorare l’ambiente e implementarne la conoscenza. Di conseguenza si assunse un concetto di percezione tendente a far vedere solo ciò che si vuol vedere e ciò che è legato alle logiche della sopravvivenza.

La controversia tra il concetto di occhio come “trappola di luce” e di occhio come “faro dell’anima” portò alla definizione del termine come strumento di mediazione tra il mondo esterno e quello interiore la cui funzione era quella di tradurre l’informazione luminosa, comprenderla e associarla a quella elaborata dal cervello. Di conseguenza l’azione prodotta è monodirezionale dell’informazione, a differenza di quanto sosteneva Platone dichiarando l’effetto bidirezionale dell’informazione perchè il calore esterno e quello interiore prodotto dal cervello scuotevano l’occhio definendo la percezione visiva degli oggetti.

A differenza degli studiosi su citati, Galileo Galilei (1564-1642) pose il problema della separazione tra le quantità primarie e le qualità secondarie. L’ oggettività della disciplina  verrà garantita separando il soggetto dall’oggetto della conoscenza. Questa visione di separare oggetto e soggetto, quindi quantità e qualità, non fu accettato dagli alchimisti perché consideravano le intenzioni mentali e le forze naturali come parte integrante di un processo che permetteva di trasformare la realtà in un’unità indivisibile.

La scienza moderna, basandosi sul concetto quantitativo, parla di approccio riduzionista della realtà perchè esclude non solo il soggetto e le sue sensazioni qualitative, ma anche il cervello non riconoscendogli il ruolo  di chiarimento a cui si dovrebbe far riferimento.

Descartes pur considerando l’importanza funzionale del cervello tende a precisare come l’informazione trasmessa dalla luce si rendeva tale attraverso la «ghiandola pineale» che univa la struttura fisica all’anima. Il cervello si presentava come struttura materiale comprendente le res extensa, cioè quello che il cervello poteva esprimere (sentimento, pensiero, coscienza) e le res cogitans cioè le  concezioni spirituali non studiabili con metodi scientifici.

Facendo riferimento agli studi di Descartes, la scienze classica considera i raggi di luce come una struttura fisico-matematica della percezione, per cui il soggetto che osserva non vede attraverso le sollecitazioni biologiche che caratterizzano il funzionamento del cervello umano.

Chiaramente il cervello correggerà nel giusto verso le immagini definite sulla retina dell’occhio; infatti, la retina si presenta come uno specchio e l’occhio come camera oscura con una fenditura che consente l’entrata dei raggi di luce: questo per  evidenziare la separazione tra soggetto ed oggetto dell’osservazione. Oggi, si ritiene che queste considerazioni non sono valide.

La luce produce nei coni e bastoncelli della retina una reazione fotochimica rispondendo alle trasformazioni che le peculiarità fisiche del campo elettromagnetico della luce detengono; si tratta, appunto, delle variazioni di intensità (bastoncelli) e di intensità e frequenza (coni). Sulla base di questa ipotesi risulta chiaro che sulla retina dell’occhio non si realizza la descrizione del mondo esterno.

Sarà il cervello ad analizzare le variazioni di intensità e frequenza tradotte in segnali chimici ed impulsi nervosi, trasformandoli in strutture mentali che, attraverso il funzionamento delle aree cerebrali, arricchiscono l’informazione ricevuta dall’esterno con l’informazione memorizzata precedentemente per effetto ereditario genetico: ci riferiamo allo stesso effetto che consente di definire, attraverso le strutture mentali, le rappresentazioni visive. E come dimenticare gli  studi del fisiologo inglese Thomas Young (1733 1829), considerato il fondatore dell’ottica fisiologica seguito da Von Helmholtz (1821-1894), i quali contribuirono a costruire il modello tricronomatico del colore, determinato dalla presenza di tre tipologie di coni, sensibili alla corta, media e lunga frequenza della radiazione visibile. Si è passati dai sette colori dell’Ottica di Newton alla combinazione di tre soli colori che garantiscono la stimolazione della percezione umana di tutti gli altri colori.

Una teoria questa utilizzata dalla stampa, dalla televisione, dalla fotografia a colori e dalle nuove tecnologie, basti pensare ai computer nei quali si adoperano tre tipi di fosfori che producono parimenti combinazioni di frequenze per ogni punto dello schermo in grado di stimolare la percezione visiva.

La neurofisiologia, per ciò che concerne la percezione del colore, tende verso modelli scientifici in grado di interpretare il funzionamento cerebrale.

Molti studiosi della materia sono convinti che, attraverso l’uso sperimentale di Tac o Pet,  aumentando la quantità di sangue dell’area compresa tra la sezione temporale e quella occipitale del cervello umano si definisce il colore. Gli impulsi trasmessi nelle zone parallele dei due emisferi cerebrali comportano l’apertura o la chiusura dei canali proteici delle sinapsi, consentendo l’entrata dei trasmettitori nei neuroni.

L’area compresa tra la sfera occipitale e quella temporale si pensa sia divisa in quattro sezioni (due per emisfero): se attivate tutte si percepisce luce bianca, se disattivate si percepisce il buio (quindi colore nero). Se al contrario abbiamo la presenza di differenti colori, tali sezioni saranno in parte attivate o inibite dagli stimoli risultanti dall’analisi fatta dai coni della retina sulle frequenze; in linee generali, l’attivazione e/o inibizione neuronale produce la risposta per determinare i colori, proprio, in corrispondenza alle coppie complementari rosso-verde e giallo-blu. Variando  l’irrorazione sanguigna delle aree cerebrali si producono danneggiamenti per il riconoscimento dei colori, anche se vi sono altre aree che contribuiscono a questo compito come quella del linguaggio o quella subcorticale talamica: la prima utile per associare colori e nomi, la seconda per percezione dei colori e sensazioni emotive.

Complessivamente, le immagini si realizzano per effetto del ruolo svolto dal cervello, sotto il controllo della memoria e pensiamo attraverso la regolamentazione dei fattori genetici. Ciò che vediamo non è la copia conforme alla realtà, ma solo immagini frutto dell’interazione organismo-ambiente, interazione prodotta dal cervello per prevenire le azioni mentali e garantire la sopravvivenza dell’individuo.

 

 

La percezione per la scienza moderna

 

In psicologia per concetto di percezione s’intende un processo mediante il quale l’uomo, grazie agli organi di senso e all’elaborazione cognitiva di quanto percepisce, rileva informazioni dal mondo circostante. La scuola della Gestalt parte dalla connessione soggetto-oggetto analizzata nell’atto psichico più complicato, cioè la percezione. La stessa individua le strutture sia nel mondo fisico che mentale cercando l’interpretazione più omogenea; infatti, è proprio qui che si introduce il concetto di isomorfismo, ossia la  correlazione di strutture tra mondo fisico (fisiologico) e mondo psichico (mentale) usufruendo del modello analogico. I gestalisti fanno coincidere i loro postulati con la legge della formazione non additiva della totalità e la legge della pregnanza: le due leggi rappresentano la sintesi del riconoscimento non del risultato di una somma o di semplici addendi, bensì  fattori riconosciuti proprio perchè appartenenti al Tutto. Capite come gli elementi facenti parte della sensazione rappresentano non solo il contenuto,  ma concorrono  alla formazione della struttura, essendo strutturati e strutturanti. Alcuni studiosi del cosiddetto “New Look”, in alcune loro ricerche, hanno dimostrato come il soggetto invitato a descrivere gli stimoli somministrati in condizioni particolari (es. illuminazione crepuscolare …) offrivano una descrizione personale dello stimolo percepito. Di conseguenza anche la risposta poteva essere condizionata dai bisogni organici del soggetto e dal valore soggettivo attribuito agli oggetti. Bisogna fare attenzione, soprattutto quando si parla di espressività degli oggetti percepiti, di ciò che può cogliere qualitativamente, e, a tal proposito Metzger (1966) così le classifica:

1) Qualità sensoriali. Intervengono anche se riduciamo lo stimolo e riguardano un preciso organo di senso.  Esempi: il caldo, il freddo, ecc.

2) Qualità globali. Riguardano l’unità globale e  si colgono attraverso un’ispezione generale. Le qualità globali riguardano:

  1. a) qualità strutturali: caratterizzano la forma e il disegno dell’oggetto. Si tratta di qualità che cogliamo con immediatezza nelle configurazioni visive, nei ritmi, nelle melodie. Gli aggettivi di riferimento sono rettilineo, rotondo, aperto, snello, tozzo…;
  2. b) qualità costitutive: si riferiscono agli aggettivi liscio-ruvido, trasparente-torbido, ecc.;
  3. c) qualità espressive: si riferiscono agli aggettivi allegro, triste, aggressivo, frettoloso …

La stessa qualità espressiva, come la calorosità, può manifestarsi oltre che in qualità semplici, vedi la sensazione termica di caldo, anche nella struttura comportamentale della tenerezza umana. C’è una correlazione espressiva fra determinate forme e qualità semplici, nello stesso ambito sensoriale. L’espressività è una qualità globale, mentre la percezione delle emozioni è una particolarità dell’espressività stessa. Impadronirsi delle espressioni significherà far riferimento non a forme empatiche di associazioni, ma a correlazioni di capacità discriminative.

 

 

Le capacità discriminatorie dell’individuo vengono spiegati attraverso l’esperimento di Kanizsa (1955) consistente nel presentare una figura dove cui era anche riportata, in un quadrato chiuso, una figura stimolo. La figura veniva percepita dai soggetti come somma di due triangoli isosceli sovrapposti, anche se nella realtà non vi era raffigurato nessun triangolo. La percezione diventa una rappresentazione interna dell’osservatore rispetto alla realtà ambientale, e alla stessa contribuiscono sia le proprietà degli stimoli che le attività autoctone dell’organismo (capacità discriminatorie degli organi di senso, elaborazione cognitiva degli oggetti ecc..). E così che potremmo riflettere sul concetto di allucinazioni, proprio perché si tratta di episodi percettivi (acustici, tattili, olfattivi) privi dell’oggetto stimolo.

A questo punto bisogna distinguere l’esperienza sensoriale da quella olfattiva. La prima (visiva, uditiva ecc.) nasce dalla reazione agli stimoli interni ed esterni (fisici e fisiologici) che vengono man mano recepiti dagli organi di senso. La seconda è rappresentata dal processo di elaborazione che si realizza nel soggetto sulla base soggettiva dei dati offerti dagli organi di senso. Quest’ultima assume validità oggettiva solo se rappresentabile scientificamente.

Proviamo a fare un esempio:

  1. A) se ingeriamo dei funghi apprendiamo che alcuni possono essere velenosi e altri no;
  2. B) oppure senza ingerirli, ma già all’atto della raccolta, è possibile identificare quelli velenosi da quelli non velenosi.

A tal riguardo, le sensazioni per trasformarsi in percezioni hanno bisogno di integrarsi con esperienze passate (il ricordo del mal di pancia per aver assaggiato funghi velenosi), sulla base di interessi eminenti (continuare a mangiare funghi), in funzione di un’azione da compiere (raccolta di funghi non velenosi).

E’ impossibile distinguere il momento esatto in cui si vivono le esperienze di cui sopra, perchè il soggetto nel mentre “sente” può servirsi delle “percezioni”; ecco perchè la psicologia tende ad inglobare nelle percezioni le sensazioni.

 

Come si percepisce lo spazio?

 

Normalmente il soggetto tende a percepire la realtà spaziale in modo tridimensionale (lunghezza, altezza e profondità). Lo spazio assume un ruolo importante nell’attività percettiva del soggetto, infatti, rappresenta la costante di riferimento della correlazione tra lui e gli oggetti circostanti.

Quando si percepisce un oggetto di interesse si tiene conto dello spazio che questi occupa nell’ambiente e del suo effetto direzionale verso il soggetto rispetto ad altri oggetti (destra/sinistra, avanti/indietro): tendiamo così a percepire lo spazio solo percependo le forme delle cose.

Ma come si garantisce l’elaborazione dei dati percepiti? E se gli stimoli luminosi producono sulla retina delle immagini bidimensionali, la percezione tridimensionale dello spazio dipende da fattori innati oppure è frutto di esperienze acquisite? Sicuramente lo stimolo offerto dalla percezione dell’oggetto, grazie all’esperienza passata, presenta le caratteristiche della forma e della distanza.

Per esempio, la grandezza familiare si riferisce alla grandezza di oggetti che ci sono familiari e di conseguenza facendo riferimento all’esperienza passata ne risulta un indice di distanza (per es. vedere da lontano una moto significa percepirla non come una moto in miniatura, ma come normale). O ancora, l’interposizione, come se l’immagine dell’oggetto che copre in parte l’immagine di un altro oggetto, comporta che il primo viene percepito come più vicino del secondo. E ancora,  la prospettiva lineare grazie alla quale si tende a percepire come più distanti gli oggetti il cui angolo è più piccolo (es. in un viale gli ultimi alberi rispetto ai primi).

Oppure l’effetto della luce, dell’ombra e del colore, la cui intensità luminosa fornisce dei parametri di distanza. Il soggetto oltre allo spazio percepisce anche il tempo: di solito il tempo presente, poiché il passato (assegnato alla memoria) e il futuro (all’immaginazione) si traducono in rappresentazioni che si ricavano per analogia e che sono connesse con il tempo presente (es. è impossibile immaginarsi un futuro completamente diverso dal presente).

Un valore determinante sulla percezione del tempo è l’età e l’esperienza. Poniamo l’esempio del bambino che al sesto anno di vita distingue la “mattina” dalla “sera”, al settimo “ieri” da “domani”, al decimo è cosciente che gli eventi trascorsi sono irreversibili e non ritornano più.

Questo è uno dei motivi perché si pensa che per un adolescente il tempo scorre in fretta (tende al raggiungimento della maggiore età per l’indipendenza), mentre per l’adulto lentamente (la percezione che la vita sta per finire).

Il soggetto normalmente non percepisce singoli stimoli, ma li percepisce nella sua globalità, distinguendoli  dagli oggetti circostanti.

Molte volte il mondo fisico degli oggetti non coincide con quello che percepiamo (mondo fenomenico). E’ chiaro che un fenomeno può essere percepito senza esserci fisicamente o anche essendoci oppure vederlo in maniera diversa da quello che realmente è (es. le illusioni ottiche, i miraggi ecc.): l’unico strumento a disposizione per interpretare la realtà è l’esperienza.

Per richiamarci alle illusioni ottiche è chiaro che queste sono di natura interna, psichica, soggettiva. Pensiamo al cucchiaino immerso in un bicchiere d’acqua che offre l’illusione di essere spezzato, nonostante si tratta solo di una sensazione visiva trasmessa alla retina quasi per deviazione. Molte altre volte l’illusione è dovuta allo stato emotivo (es. l’aver paura quando si è soli al minimo rumore). Queste affermazioni inducono a sostenere che la percezione non è una fotografia della realtà esterna, bensì un’attività psichica di elaborazione dati forniti dai ricettori sensoriali, sottomettendo le sensazioni al tutto e riconsiderando i particolari con aspetto diverso a seconda del tutto al quale appartengono. Il percepire la configurazione significa percepirla prima delle singole parti. La scomposizione delle relazioni esistenti tra le singole parti avviene in un momento successivo e da qui la ricomposizione del significato all’oggetto. Ciò che stupisce è quella che gli psicologici chiamano costanza percettiva, ossia la qualità percettiva di riuscire a conservare caratteristiche costanti nel tempo e nello spazio, anche al variare degli stimoli.

Di certo la corrispondenza tra oggetto fisico e oggetto fenomenico che non è sempre possibile perché si rischia di cadere nell’illusione, ma nel caso della costanza percettiva può esistere corrispondenza anche se varia il grado di stimolazione. E chiaro che la capacita costante della percezione è applicabile alle reali caratteristiche degli oggetti e dell’ambiente, indipendentemente dalle variazioni degli oggetti.

Le costanze percettive riguardano grandezza, forma, colore e chiarezza. Malgrado la distanza che intercorre tra l’oggetto e l’ambiente, nonostante l’inclinazione dello stesso oggetto, del suo grado di luminosità e della chiarezza l’oggetto costantemente verrà percepito per quello che realmente è e con le qualità che realmente lo contraddistinguono.

 

Bibliografia

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