UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BOLOGNA


FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in Filosofia

 

TITOLO DELLA TESI

 

“Piccolo mondo criminale”
L’esperimento della Colonia libera
di Giulio Cesare Ferrari

Tesi di laurea in Storia della Psicologia

 

Relatore                                                Presentata da

Prof. Valeria P. Babini                          Rosita Menghi

 

Cinque parole chiave: Ferrari, Delinquenza minorile, Educazione,
Colonia libera e Subconscio

 

Sessione I


anno accademico 2002-2003

 

 

 

Indice

 

Introduzione

1. La formazione scientifica la vita e le opere di G. C. Ferrari
L’incontro con Binet: studio e applicazione dei Mentaltests
La scoperta de i Principles
Le idee di Ferrari in campo psichiatrico
Manualetto per l’educazione di una volontà …«libera , diritta e sana»
Ferrari e il Pragmatismo
L’esperienza all’istituto di Bertalia e la fondazione
La nascita delle prime cattedre e la battaglia per L’autonomia della Psicologia

2. Il bambino al centro della scena.
Dall’infanzia normale, all’anormale, alla delinquenziale
La nascita della scienza dell’infanzia
I primi istituti per frenastenici in Italia
Le prime classificazioni
La criminalità minorile tra ‘800 e ‘900

Il Codice penale e i minori: la procedura, il grado di punibilità e la nozione di responsabilità
L’assistenza dei minorenni traviati e delinquenti in Italia.
Gli istituti di correzione per i minorenni. Dalle case di correzione a sistema repressivo alle case di educazione
Le prime classificazioni nel campo della Delinquenza minorile
Le cause della delinquenza nei minorenni
Fattori biologici
Fattori sociali
Fattori psicologici

3. Giulio Cesare Ferrari e l’esperimento Della colonia dei deficienti gravi e dei giovani criminali.
La fondazione della Colonia dei deficienti gravi e dei giovani criminali
La genesi dei comportamenti criminali: il senso morale, l’ambiente e le tendenze naturali dei fanciulli.
Il subcosciente e il concetto di personalità
Il metodo della colonizzazione libera
L’educazione morale
Il lavoro come mezzo curativo
L’educazione intellettuale attraverso la vita Sentimentale

Conclusioni

Bibliografia

Appendice

 

Introduzione

Nel primo capitolo ho cercato di ricostruire le tappe fondamentali della formazione scientifica e delle numerose attività svolte da G. C. Ferrari nell’arco delle sua vita.
Analizzando quella che è stata la vita di G. C. Ferrari e, dovendo riassumerne la caratteristica principale in una parola, la definirei come una vita fatta di “incontri”voluti e casuali. Da questo punto di vista ho scelto il suo ingresso al manicomio di Reggio Emilia per la grande importanza che questa esperienza ebbe nella formazione scientifica dello psichiatra reggiano, mettendo particolarmente in risalto gli “incontri” che in maniera significativa hanno poi influenzato gli studi e le attività in cui i contribuiti di Ferrari furono più significativi: la scoperta, lo studio e l’applicazione del metodo sperimentale, lo studio dei mentaltests presso lo studio di Binet a Parigi e la successiva apertura di un laboratorio simile a quello dello studioso francese presso il manicomio di Reggio Emilia in cui Ferrari per la prima volta applicò i test agli alienati.
La ricerca mi ha poi portato a delineare gli effetti di un altro grande “incontro”, avvenuto sempre a Parigi, con i Principles di W. James. Effetti che in questo caso andarono ad influenzare profondamente la visione di Ferrari a livello sia psicologico sia filosofico.Con la scoperta della filosofia e della psicologia jamesiana la formazione scientifica di Ferrari si può considerare praticamente conclusa ma non altrettanto si può dire per le conseguenze che le influenze sopra descritte determinarono nel campo pratico e nello sviluppo di teorie elaborate grazie allo studio in fieri. Infatti uno degli aspetti più interessanti della attività svolta dallo psichiatra reggiano è proprio quella nel campo delle applicazioni pratiche dove diede vita ad opere innovative e a cambiamenti notevoli soprattutto in ambito psichiatrico, frenastenico e dell’infanzia anormale. Da qui la mia scelta di analizzare la “ricetta” di Ferrari per la riforma dei manicomi e le innovazioni da lui apportate all’istituto medico pedagogico di Bertalia. Ripercorrere la vita di Ferrari, significa, però, soprattutto ricucire i fili del suo rapporto con la psicologia. Un interesse quello per la psicologia quasi innato in lui, stando all’Autobiografia, e che è mutato profondamente grazie alle influenze di Binnet e James. Nel primo capito partendo dal manicomio di Reggio Emilia, passando dalle influenze di Binet e James all’esperimento di Bertalia e alla fondazione della «Rivista di Psicologia» fino alle battaglie svolte da Ferrari per difendere e inserire lo studio della psicologia nelle Università e nelle Scuole Medie, si delinea la concezione e l’idea applicativa che Ferrari aveva per la psicologia stessa.
Nella prima parte del secondo capitolo ho tracciato il percorso che ha portato alla nascita della scienza dell’infanzia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con un particolare occhio di riguardo per la situazione italiana dove a dare l’impulso allo studio dell’infanzia erano state l’igiene e l’antropologia. Da qui ho poi ripercorso le tappe fondamentali che hanno successivamente portato la scienza dell’infanzia ad interessarsi dell’infanzia anormale e come la sua diffusione in Italia sia avvenuta grazie al profondo legame di “amicizia” con un nutrito numero di alienisti che in quegli anni si interessavano della infanzia anormale. In questa parte mi sono avvalsa del lavoro di studiosi che negli ultimi anni si sono dedicati allo studio della nascita della psicologia dell’infanzia in Italia, soprattutto quelli di V.P. Babini. La scelta di riproporre questi studi ha una doppia motivazione: da un lato ho ritenuto opportuno farlo sia per proporre il percorso che ha portato Ferrari allo studio dei giovanetti criminali sia perché la Colonia libera è stata un esperimento per la rieducazione oltre che dei giovanetti criminali anche dei deficienti; dall’altro proprio quegli studi sono stati l’ispirazione di questo lavoro. Infatti le ricerche effettuate sottolineano un crescente interesse da parte della psicologia dell’età evolutiva e dei suoi fautori per la questione della delinquenza minorile ma li si arrestano. Da qui la mia decisione di approfondire l’argomento studiando uno degli esperimenti più innovativi dei primi del Novecento in Italia.
Nella seconda parte del capitolo ho cercato invece di ricostruire: la complessità della questione della criminalità minorile e le ragioni del grande interesse che tale tema riscuoteva da parte di avvocati, pedagogisti, psichiatri e psicologi dando particolare rilievo a quei temi che direttamente o indirettamente andavano ad influenzare la questione della criminalità minorile, della sua prevenzione e soprattutto della sua educazione, quali: i minori e il Codice penale, le cause, le problematiche e la necessità di una classificazione e i Riformatori e le varie forme di assistenza dei delinquenti.
Nel terzo capitolo sono entrata direttamente nel merito di quello che Ferrari nell’Autobiografia definiva la sua migliore e più felice applicazione pratica della psicologia: l’esperimento della Colonia libera dei deficienti gravi e dei giovani criminali. Un’ampia e dettagliata descrizione di tale esperimento e del metodo terapeutico adottato è il fulcro attorno al quale ruota tutto il terzo capitolo secondo una scelta che ho ritenuto necessaria al fine di evidenziare le peculiarità che hanno reso l’esperimento di Ferrari unico e assai innovativo per quel periodo. Descrizione che, riprendendo la divisione scelta dalla Francia nel suo articolo sulla Colonia libera, è suddivisa in tre parti nelle quali vengono descritte e presentate le esperienze e i risultati più interessanti ottenuti nella villa: l’educazione morale, il lavoro come mezzo curativo e l’educazione intellettuale attraverso la vita sentimentale.
La colonia era nata dal desiderio di Ferrari di poter conoscere e studiare la psicologia dei giovanetti criminali e di poter verificare in maniera empirica la validità della sua tesi secondo la quale vi era un parallelismo sociale e biologico fra i frenastenici e i giovanetti criminali, ma era anche il frutto degli studi e delle convinzioni che aveva maturato nel corso degli anni riguardo alle cause, alle classificazioni, alle carceri alle leggi e ai metodi di assistenza applicati nel campo della delinquenza minorile. Una visione completa dell’esperimento richiedeva a mio avviso un approfondimento di questi temi che ho esposto come arricchimento della descrizione dell’esperimento vero e proprio.
Per il ruolo centrale giocato nel metodo terapeutico, per l’innovazione che rappresentava e anche per la definizione non molto chiara che lo stesso Ferrari ne forniva nei suoi scritti, un’attenzione particolare e un ulteriore approfondimento meritava il concetto di inconscio.

La formazione scientifica, la vita e le opere.

Giulio Cesare Ferrari nacque a Reggio Emilia il 27 ottobre 1867. Si iscrisse alla facoltà di medicina «in seguito ad una osservazione corrente in quell’epoca materialistica: che i medici avevano sostituito i preti nella direzione delle coscienze .» Terminati gli studi presso l’Università di Bologna nel 1892 entrò come assistente nell’istituto S. Lazzaro di Reggio Emilia diretto da Augusto Tamburini. Alla luce dell’attività svolta dal Ferrari in seguito si può considerare l’esperienza presso il manicomio di Reggio Emilia come il punto di svolta per la sua formazione. Arrivando al S.Lazzaro considerandosi digiuno di ogni nozione psichiatrica – «non sapevo niente di psichiatria», scriverà poi nell’Autobiografia, – ebbe possibilità di lavorare in un ambiente scientifico all’avanguardia e molto stimolante che gli diede gli strumenti e l’opportunità di approfondire e sviluppare i propri interessi. Qui infatti incontrò il metodo sperimentale a cui si improntavano le indagini all’interno del Frenocomio, la ‹‹Rivista sperimentale di freniatria›› attraverso la quale venne in contatto con gli studi scientifici internazionali e l’immensa biblioteca da cui attinse un gran numero di libri per approfondire le proprie conoscenze. Lo stesso Ferrari riconosceva proprio al manicomio di Reggio Emilia di essere stato, nel 1880,la culla della nascente psicologia sperimentale italiana grazie agli studi cronometrici effettuati da Buccola e portati avanti, inseguito, soprattutto da Guicciardini .
La ‹‹Rivista sperimentale di frenatria›› era stata fondata nel 1875 da Tamburini, Morselli e Livi Giulio Cesare Ferrari ne diventa redattore capo nel 1894 e lo rimarrà fino al 1907. La «Rivista sperimentale di frenatria», facendosi testimone della convinzione dei suoi fondatori secondo la quale la psichiatria doveva aprirsi alle nuove scoperte effettuate in campo biologico ed antropologico, era una delle poche in Italia ad ospitare i primi lavori di psicologia a carattere sperimentale. Ferrari, grazie anche alla padronanza delle lingue (conosceva inglese, francese e tedesco), cogliendo quello che era lo spirito della rivista, cercò, con le sue recensioni, di colmare il divario esistente tra l’Italia e gli altri paesi europei soprattutto in campo scientifico . La strada da percorrere per raggiungere tale intento era quella di pubblicare dibattiti, esperimenti e tutto quello che poteva essere utile per venire a conoscenza di ciò che accadeva nelle aree più avanzate. Questa sua attenzione per tutto quello che avveniva all’estero era probabilmente anche dovuta ad una ricerca personale. Pur interessato da sempre alla psicologia e «allo studio scientifico della psiche umana » si sentiva lontano dall’impostazione metodologica e da”la psicologia di Wundt e di molti altri.” così lontani da”gli elementi di quella cosa misteriosa che mi colmava di entusiasmo» . Grazie alla lettura del primo volume di «Année psychologique» finalmente tutte le nozioni acquisite precedentemente da Ferrari assumevano un valore ed un senso «Egli non poteva certo immaginare di aver saputo ordinare il caos di nozioni disparate e confuse che avevo immagazzinato nel mio cervello.»

L’incontro con Binet: studio e applicazione dei mentaltest.

Nel 1896 grazie ad una borsa di studio, Ferrari si recò a Parigi dove ebbe l’opportunità di lavorare nel laboratorio di Binet. Qui ebbe la possibilità di studiare i “mentaltests.” I test elaborati da Binet consistevano in una serie di quesiti e compiti atti a misurare. Binet in queste sue ricerche era mosso da un fine pratico: individuare le differenze individuali per evidenziare la normalità o l’anormalità e poter poi intervenire sull’anormale. Queste ricerche rispondevano ad un vuoto lasciato dagli studi effettuati nel laboratorio di psico-fisiologia di Wundt nel quale l’accento era posto sull’uniformità del comportamento piuttosto che sulle differenze individuali e dove la ricerca non aveva un fine applicativo. Wundt inoltre non si era dedicato allo studio della psiche superiore. Ferrari si sentì subito in sintonia con questo nuovo modo di fare psicologia tant’ è che al suo rientro in Italia, nel 1896, grazie anche all’appoggio di Tamburini, istituì, presso il manicomio di Reggio Emilia, un laboratorio di Psicologia «figliazione diretta del più moderno e del più pratico fra i Laboratori esistenti, quello di Binet di Parigi.» Ferrari teneva a sottolineare che fosse il primo in Italia dedicato esclusivamente a ricerche di Psicologia sperimentale. In realtà tale laboratorio nasceva dalle ceneri di quello in cui Buccola aveva compiuto i suoi primi esperimenti di cronometria i cui risultati vennero pubblicati nel volume La legge del tempo nei fenomeni del pensiero poi abbandonato dopo la partenza dello stesso Buccola. Buccola era stato l’unico in Italia a condurre ricerche di carattere sperimentale in laboratorio apprezzate anche all’estero. Il laboratorio allestito a Reggio Emilia non differiva molto da quello di Lipsia per i mezzi ma molto diversi erano gli intenti: Wundt studiava le menti degli adulti normali con attenzione alle generalizzazioni, Buccola studiava gli alienati ponendo in evidenza le eccezioni.

E’ una gloria italiana, meglio ancora, è nella storia di questo nostro Istituto psichiatrico il primo accenno all’applicazione metodica dei sistemi della Psicofisica ai malati di mente. Poco dopo il 1879,- l’anno famoso in cui Guglielmo Wundt fondò in una modesta camera del Convitto di Lipsia, il suo primo laboratorio di Psicologia sperimentale,- Gabriele Buccola, qui da noi, cercò di completare questa filologia dell’anima, che s’andava formando ed evolvendo, con tutta la luce che poteva dare lo studio attento della Psicopatologia.

Queste sono le parole con cui Ferrari apriva l’articolo I testi mentali per l’esame degli alienati pubblicato insieme a Guicciardini sulla «Rivista sperimentale di Freniatria» nel 1896 poco dopo il suo rientro da Parigi. Innanzitutto sottolineava che nello stesso periodo in cui il “padre” della psicologia sperimentale fondava il suo laboratorio a Lipsia, anche in Italia, all’interno di un manicomio, veniva fatta una psicologia scientifica, sperimentale non filosofica ma medica . Il sottolineare che la psicologia fosse medica e non filosofica era di grande importanza in un momento in cui era aperta la discussione sullo statuto epistemologico della psicologia essendo in atto una critica e un superamento della filosofia e dei modi di pensare dei positivisti. Il problema era molto sentito e non era solo italiano. Tant’è che Ferrari, di ritorno dal 3° Congresso di Psicologia, sottolineava nella sua relazione come, sebbene i partecipanti studiassero l’animo umano seguendo le vie più diverse, tutti erano consapevoli che per salvaguardare l’indipendenza della ricerca psicologica occorreva renderla indipendente sia dalla filosofia sia dalla fisiologia . L’idea guida di Ferrari era quella di contribuire a dotare la psicologia sperimentale di uno statuto scientifico . Per fare questo occorreva andare oltre sia al “modello ardigoghiano”, poiché se da un lato proponeva una psicologia “positiva” allontanandola in questo modo dalla tradizione spiritualistica italiana dall’altro considerava la psicologia come parte della filosofia, sia al modello proposto dal Sergi in cui la psicologia veniva assimilata alle scienze biologiche ed antropologiche. Quindi una psicologia né filosofica né biologica – meccanicistica. Il metodo doveva essere quello sperimentale tenendo però sempre presente che la psicologia è soprattutto una scienza di osservazione in quanto in laboratorio è possibile riprodurre solo una minima parte dei fenomeni psichici . Il laboratorio aveva svolto e svolgeva un ruolo determinante per lo sviluppo della psicologia sperimentale:

Ma poi è soltanto il lavoro assiduo dei Laboratori che rende facile e pronto sotto la mano di chi studia il materiale di esperimento ed è solo con successive variazioni sistematiche delle condizioni di esperimento che si riesce a stabilire delle leggi generali, finalità suprema d’ogni opera veramente scientifica. Per questo appunto il fiorire della Psicologia sperimentale è intimamente collegato al moltiplicarsi dei relativi Laboratori .

Nello stesso articolo Ferrari illustrava come fosse la vita in un laboratorio e in particolare in quello di Reggio Emilia.
In laboratorio la maggior parte degli studi erano focalizzati a misurare grazie agli esperimenti di psicofisica l’intensità dell’eccitamento e grazie a quelli di psicometria la velocità e la durata di un fenomeno di coscienza. A questi metodi di indagine che si servivano dell’ausilio di varie apparecchiature tra cui il cronoscopio di Hipp e l’ergografo di Mosso veniva affiancato l’uso dei “mentaltest”. La possibilità di studiare i fenomeni psicologici più complessi come la memoria, l’attenzione e la volontà sondando le differenze individuali attraverso prove uniformi era la grande innovazione apportata dai mentaltest.
A chi dovevano essere sottoposti i test? «A tutte o al meno alla maggior parte delle persone per cui è stato fatto[…]; così sebbene più difficile, deve essere praticabile la stessa cosa sugli alienati, sui delinquenti, sugli anomali in genere .» Ferrari era stato il primo ad applicare i “mentaltests” agli alienati in questo forse stimolato o influenzato dall’esperienza di Buccola al quale non mancava di riconoscere il merito di aver capito i grandi vantaggi che la psicologia poteva trarre dalla sua applicazione alla Psicopatologia.
Infatti lo studio degli alienati permetteva di sondare quei fenomeni complessi della mente umana che per altre vie non era possibile:

Ma quello che la morale e la legge impedirebbero a noi di fare, la Natura, la Grande Madre, troppo spesso matrigna, lo fa ogni giorno, e popola i nostri manicomi di infelici, che scontando forse qualche colpa dei progenitori, ci presentano delle manchevolezze, talvolta assolute, di date facoltà, della memoria in generale o di qualche sua parte, per esempio, o dell’attenzione, o della volontà, o della sensibilità o della motilità, ecc .

Inoltre Ferrari era fermamente convinto che l’applicazione dei test ai malati di mente avrebbe gettato luce non solo sulle manifestazioni psicotiche ma anche sulla psicologia normale. «perché la pazzia non è che una deviazione più o meno profonda, più o meno permanente, della personalità primitiva .»
L’innovazione era soprattutto metodologica: la Psicologia individuale forniva alla Psichiatria dei mezzi di indagine obbiettivi da affiancare al metodo soggettivo allora in uso nei manicomi. L’uso di un metodo non escludeva l’altro anzi i due erano complementari in quanto «Anche quando i metodi obbiettivi si saranno sviluppati e resi più completi, sarà sempre necessaria una mente sintetica che coordini e dia il loro valore a ciascuno dei sintomi che il metodo individuale mette in luce .» Ferrari era molto critico nei riguardi di quanti, non avendo capito l’innovazione, continuavano ad applicare solo la pura osservazione che nella maggior parte dei casi finiva con l’essere niente altro che uno «sfoggio delle nozioni dell’osservatore .» Un modello di indagine in cui il malato era visto alla luce della malattia a lui diagnosticata senza tener conto delle sue caratteristiche individuali. Soprattutto «nessuno parve accorgersi che, stabilito un certo numero di ricerche, se ne sarebbe ricavato un metodo di indagine non certo inferiore a quello che presenta l’esame obbiettivo per la diagnosi delle malattie fisiche .»
Quello che Ferrari metteva in discussione con le sue teorie era l’idea di cura e di malattia mentale così come veniva proposta dal modello positivista e al quale si rifaceva la psichiatria dell’epoca. Un modello la cui ricerca era orientata a cercare la causa generale della manifestazioni psicopatologiche al quale Ferrari opponeva un modello che doveva tenere conto delle differenze individuali e di una molteplicità di sintomi ai quali, al lato pratico, corrispondevano interventi terapeutici mirati . Questa probabilmente la causa del poco seguito che ebbe l’uso dei test per lo studio degli alienati mentali nonostante l’opera di divulgazione e i risultati ottenuti dallo stesso Ferrari.

La scoperta de I Principles e del Pragmatismo: Ferrari e William James

Se l’incontro con Binet aveva fornito allo psichiatra reggiano un nuovo metodo di ricerca fu grazie alla lettura dei Principi di psicologia di James che Ferrari ebbe la possibilità di conoscere una psicologia diversa da quella di stampo positivistico. Per caso Ferrari ebbe l’occasione di leggere qualche pagina dei Priciples of Psycology nel 1898 a casa del filosofo Mariller. Subito fu attratto dalla personalità dell’autore e dall’importanza scientifica dell’opera. Meravigliato che in Europa il libro non fosse maggiormente conosciuto, decise di tradurlo in italiano nella speranza che «un’opera così bella avrebbe potuto fare il miracolo di risvegliare da noi l’interesse per la psicologia scientifica .» Prese subito contatto con lo stesso James ed iniziò a lavorare alla traduzione del monumentale libro dell’autore americano. Il successo di pubblico che ottenne il libro alla sua prima uscita nel 1901 in Italia dava di certo ragione a Ferrari: in soli tre anni vennero vendute più di duemila copie. In questa edizione, che era stata preceduta da dispense pubblicate a puntate nel 1899-1900, lo psichiatra reggiano utilizzava alcune parti de Briefer course of psychology pubblicato da James nel 1892. La traduzione integrale usciva nel 1909 . Ma che cosa aveva fatto si che i Principles diventassero uno dei libri più venduti in Italia? Parte del merito va attribuito al lavoro svolto da Ferrari come traduttore al quale Vailati riconosceva il grande pregio di «far sì che chi conosce lo stile di James non si accorga quasi nemmeno di leggerlo tradotto .» Ferrari non si era però limitato alla semplice traduzione ma, ottenuto dallo stesso James il permesso di intervenire sul testo in qualunque modo, fatta eccezione per l’ultimo capitolo , aveva cercato di aggiornare il testo integrandolo con i risultati che la ricerca aveva ottenuto dopo la stesura dei Principles . Alla fine di ogni capitolo venivano citate le ricerche e i lavori scientifici degli ultimi dieci anni con particolare attenzione a quelli italiani (Sergi, Luciani, Seppilli, Buccola, Tamburini e soprattutto Morselli). A questa integrazione puramente bibliografica se ne aggiungeva una più ampia e sostanziale in cui Ferrari mostrava la sua preparazione sia in campi a lui più vicini come la psicopatologia e la neurofisiologia ma anche in campi a lui più lontani come la filosofia(citava soprattutto Ardigò).
Ferrari aveva trovato nei Principles una psicologia a cui veniva finalmente riconosciuto lo statuto di scienza naturale e lontana da ogni ingerenza filosofica. Una psicologia che rifiutava ogni determinismo o riduzionismo biologico. Al centro dei suoi studi vi era l’uomo nel concreto di una complessa situazione evolutiva il cui pensiero «nessun schema, nessun diagramma poteva rappresentare» in quanto vive di movimento.
“Stream of consciousness” è la metafora usata da James per descriverne il flusso continuo e l’impossibilità sia di separala in pezzi sia di darne una definizione definitiva. Una psicologia attenta allo studio di ogni manifestazione della psiche: dai fenomeni paranormali all’anormale, dal patologico all’ipnosi. Una psicologia che aveva attirato l’attenzione di Ferrari, anche per i cambiamenti che introduceva a livello applicativo sia in psicologia sia in psichiatria. Ad interessarlo, da questo punto di vista, erano soprattutto i capitoli dedicati all’attenzione, all’emozione e alla volontà ai quali lo psichiatra emiliano si rifaceva per l’elaborazione di quelli che vengono considerati fra i suoi contributi più originali in campo psicologico-psichiatrico. Ferrari riprendeva la teoria delle emozioni di James nello studio sulla loro influenza sulla genesi dei deliri e delle psicosi . Tale teoria dava sostegno ad un concetto che era stato condiviso da insigni alienisti ma espresso in modo chiaro ed esplicito dal solo Morselli nel suo Trattato di semiotica dove sosteneva che le diverse sindromi psicopatiche altro non fossero che puri semplici effetti della variabilità psichica individuale. Tale definizione non aveva mai trovato, però, la sua base naturale in una serie di osservazioni cliniche ed era quello che Ferrari si apprestava a fare animato dalla convinzione che il concetto fosse soprattutto interessante per le conseguenze teoriche e pratiche che poteva apportare sia alla psicologia generale sia alla psicopatologia. I casi studiati evidenziavano come alla base dell’evoluzione normale dei deliri vi fosse l’interpretazione di una condizione organica che si elaborava progressivamente secondo le condizioni psichiche individuali dei soggetti, soprattutto secondo il loro modo di reazione sentimentale. Se questo fatto accomunava le paranoie alle forme psicotiche senza substrato anatomico nelle quali si ha a che fare con una esagerazione di uno stato emotivo allora poteva valere anche per queste la teoria delle emozioni jamesiana secondo la quale le emozioni consistono nel senso che abbiamo delle modificazioni fisiche che seguono alla percezione del fatto eccitante .
Dimostrare che ciò che prima si altera, nel caso dei malati, non era, come voleva il pregiudizio intellettualista, “l’intelletto”, ma ciò che si trovava nell’ambito delle loro tendenze, della loro affettività, nella parte più profonda e meno differenziale della loro personalità intima, significava anche ristabilire l’intima continuità del malato con il sano di mente in quanto le prime modificazioni della personalità alienata hanno origine dal fondamento che genera anche l’attività psichica normale. Concetto questo carico di conseguenze pratiche che Ferrarri riassumeva in uno dei suoi articoli più significativi:

Per un lato dovremmo vedere e giudicare gli atti degli uomini in funzione delle loro determinanti individuali, per così dire, e non come se appartenessero ad una immaginaria, ipotetica individualità tipo; e d’altra parte dovremmo sapere scorgere questo elemento individuale, personale, singolare, quasi in ciascuno dei malati di mente con cui ci avvenga di dover trattare. Allo stesso modo, cioè, in cui non possiamo (meglio non dovremmo) trattare un malato come un “paranoico”, come “un melanconico”, come, cioè, un prototipo o un paradigma di una data “malattia”, ma la nostra azione deve dirigersi peculiarmente a quel tanto di uomo razionale che trasluce ,deformato dalla paranoia o dalla malinconia, allo stesso modo in ogni uomo noi dovremmo cercare di vedere ciò che egli è realmente, quale è stato fatto e ridotto dall’ambiente, dalle circostanze, ecc senza ricorrere (come invece ordinariamente noi facciamo) a quel canone di homo sapiens che solo la convinzione ha creato e che la realtà non ci presenta quasi mai[…] .

Le idee di Ferrari in campo psichiatrico

Alle classificazioni astratte di malattie proprie della tradizione positivista Ferrarri contrapponeva uno studio dell’individuo considerato nella sua complessità. Complessità che non poteva più essere studiata tenendo solo in considerazione le esigenze metodologiche di rigore e di controllo sperimentale ma a queste doveva essere affiancato un approccio globale e multidisciplinare della persona e degli stessi fatti psichici. I malati non erano più considerati come pure astrazioni nosografiche ma come persone da curare. Da curare, secondo lo psichiatra reggiano, agendo soprattutto sull’inconscio considerato dallo stesso Ferrai il centro propulsore della personalità individuale. Solo attraverso relazioni concrete e personali fra un medico ed un malato era possibile, per Ferrari, venire a contatto con il mondo dell’altro, andando oltre le superficiali apparenze per scoprire la causa profonda degli atteggiamenti altrui .
Questa posizione pose Ferrari in netto contrasto con la psichiatria dell’epoca ancora arroccata dietro un punto di vista organicista Alla quale per altro Ferrari non risparmiava di certo critiche accusandola di aver trasformato i manicomi in ricoveri per cronici e di aver fatto si che si diffondesse l’idea della incurabilità dei pazzi. Conseguenze queste della chiusura mentale di quei medici che basandosi solo su osservazioni di disturbi fisici avevano completamente tralasciato i vantaggi che l’approccio psicologico portava alla cura degli alienati.
La cura e il miglioramento delle condizioni dell’alienato dovevano essere gli obbiettivi principi della psichiatria. Occorreva innanzitutto riformare il sistema manicomiale in modo tale che ritornasse a svolgere la sua vera funzione di cura. Il primo passo da fare era quello di porre rimedio alla situazione di sovraffollamento che caratterizzava i manicomi dell’epoca paralizzando in questo modo ogni intervento terapeutico. L’idea di Ferrari era quella di lasciare in manicomio solo coloro che potevano ancora essere curati e raccogliere in strutture extra – manicomiali tutti gli altri. Ferrari fu un convinto sostenitore delle colonie e della assistenza famigliare sia per i vantaggi economici, tema che stava molto a cuore alla psichiatria dei primi del novecento, sia per gli effetti benefici che la libertà e la strutturazione della vita all’interno della colonia avevano sulla rieducazione dell’alienato alla vita sociale. Per agevolare il passaggio dalla reclusione manicomiale alla vita libera Ferrari aveva anche fondato La “Casa del Patronato”, in cui viveva un piccolo numero di degenti non ancora dimessi e non ancora guariti ai quali il manicomio passava vitto e alloggio ma «per ottenere quel tanto di diversivo nella vita, senza di che non val mai la pena di vivere[…]essi devono lavorare fuori del Manicomio, nella libera competenza della vita .»
Alle relazioni con il personale medico e paramedico era invece legato l’esito della cura dei degenti del Manicomio. A loro era assegnato il compito di aiutare la rinascita e l’affermazione della dignità personale degli alienati facendo leva sul loro subcosciente. Da qui la battaglia combattuta da Ferrari per la formazione del personale curante soprattutto degli infermieri ai quali riconosceva una grande importanza a livello terapeutico in quanto, «essendo tutto il giorno a contatto con gli ammalati possono più direttamente influenzarli.» Una volta scelte gli affidava incarichi di responsabilità lasciandogli ampia libertà d’azione.
Ferrari non si poneva in questo modo solo nei confronti delle infermiere, ma tale atteggiamento faceva capo ad un’idea di organizzazione del lavoro manicomiale basata: sul decentramento, sull’autonomia, sulla responsabilizzazione degli operatori, e sul riconoscimento delle capacità tecniche e emozionali dei singoli .
Una buona riorganizzazione del sistema manicomiale non poteva di certo tralasciare di recuperare il valore curativo della terapia del lavoro che col passare degli anni era andato perduto. Ferrari puntava, anche in questo caso, sulla validità del suo metodo psicologico.
A dimostrazione del valore delle sue idee, nel 1932, pubblicava i risultati ottenuti nell’atélier per malate agitate da lui fondato presso il manicomio di Bologna. Le numerose dimissioni stavano a testimoniare come un lavoro in grado di occupare i degenti in un’attività che impegnasse sia la loro volontà sia la loro intelligenza, che li responsabilizzasse e che fosse in grado di far sorgere nel loro subconscio delle impressioni positive e inibire quelle negative, fosse l’elemento base della ricostituzione delle malate.

Manualetto per l’educazione di una volontà “libera, diritta e sana”

Era ancora James ad ispirare Ferrari nella stesura del suo Manuale pratico di educazione della volontà. Preoccupato degli effetti nefandi che la suggestione avrebbe potuto causare in campo sia pedagogico che sociale Ferrari aveva sentito l’urgenza di scrivere un Manuale pratico di educazione della volontà . La volontà, lo aveva affermato già nella premessa, era una reale forza psicologica non un principio metafisico come voleva Shopenhauer. Si poteva parlare di volontà, per Ferrari, solo quando le volizione si traducevano in atti pratici, fin a quando erano solo un intenzione nella nostra mente non vi era volontà.
L’atto volontario si differenziava dagli altri atti perché vi era sempre un fiat che, interrompendo la vita delle abitudini, liberava una situazione di stallo creata dal conflitto fra i vari elementi che continuamente lavoravano all’interno del nostro animo. La scelta ricadeva su quella che in quel dato momento sembrava essere la soluzione più utile per l’individuo. Il “meccanismo” non era così semplice ammoniva Ferrari poiché le leggi che regolano la volontà, avendo la loro origine nel fondo organico, sfuggono in realtà al controllo della nostra ragione. L’educazione della volontà, dunque, se vuole riuscire nel suo intento deve rivolgersi alla costituzione psicologica dell’individuo. Ma quale era allora il punto da cui si doveva partire per riuscire a modificare la volontà degli individui? Ferrari indicava le contrazioni muscolari come punto di partenza per poter agire sulle manifestazioni volontarie. Questa sua convinzione era il frutto di studi che lo avevano portato ad osservare come le volizioni fossero sempre accompagnate da contrazioni muscolari e che queste ultime, oltre ad essere un fatto esterno, visibile e misurabile, erano dunque anche il punto sul quale poter agire sulle manifestazioni volontarie. Il metodo proposto da Ferrari, che, come notava Santucci, non differiva molto dalle teorie moderne della rieducazione psicomotoria , consisteva nel ripercorrere a ritroso le sequenze degli automatismi che sottostavano all’esecuzione dell’atto volontario. Il punto di partenza era sentire e distinguere i movimenti muscolari dell’azione tramite la loro esecuzione. La divisione in parti della sequenza permetteva all’attenzione di concentrarsi su ognuna di esse e di renderle quindi consapevoli. Una volta pensate in successione le azioni passavano dalla sfera cosciente alla subcosciente e quindi potevano essere compiute automaticamente. L’atto diventava così volontario. «Si vede allora l’effetto dinamico di una idea chiara prepotente, in quanto determina sollecitamente l’azione, perché entra in giuoco quel legame misterioso che passa fra il pensiero e i centri motori: e gli organi fisici obbediscono naturalmente.» Era dunque possibile far sorgere nuove abitudini. Il pericolo del riduzionismo era così scongiurato. La strada da battere era, allora, quella indicata anche Da Lotze nel suo Medizinische Psychologie e nel quarto capitolo dei Principles: aiutare a migliore la conoscenza delle possibilità personali che la natura di ognuno di noi nasconde nel suo seno.
La pratica aveva dimostrato l’efficacia della teoria e del metodo e questo era quello che contava. Ferrari non aveva dubbi si poteva non solo educare la volontà ma si poteva educare una volontà «libera diritta e sana.»

I Principles e l’incontro di Ferrari con la filosofia “pragmatica”

La sola che gli fosse veramente congeniale, libera da tradizioni ingombranti e da formulari di scuola: il pragmatismo era attento al significato delle asserzioni e teorie e lo indicava nei loro effetti sperimentali, si proponeva come un metodo o un insieme di metodi e mai come un sistema, reagiva alle soluzioni verbali e alle cattive ragioni a priori. Chi lavorava in laboratorio, sul campo, non poteva che condividere quel atteggiamento e venire spinto a chiarire la sua posizione epistemologica, la sua critica dei vari assolutismi .

Pur essendo Ferrari più vicino all’aspetto psicologico che a quello filosofico dell’opera jamesiana, i Principles, attraverso la psicologia, erano riusciti a risvegliare, in Italia, l’interesse per un nuovo pensiero: il pragmatismo, e per le altre opere di James: Will to believe e Varietes , come affermava lo stesso Papini in una lettera indirizzata a Ferrari. Il seguire linee diverse, Vailati e Caderoni si rifacevano al primo Peirce mentre Papini e Prezzolini agli idoli della tradizione e in un sapere capace di dominare l’universo, non ostacolò la fondazione del «Leonardo». Lo stesso James aveva avuto del «Cenacolo del Leonardo» un ottima impressione quando aveva avuto occasione di incontrarli a Roma, tanto che, venuto a conoscenza della morte di Vailati e della probabile malattia di Papini, in una lettera al Ferrari, scriveva «It is evident that some eclipse has come over the most meteoric and brillant of all contemporary intellectual careers .»
Se le parole con le quali Ferrari si riferiva ai “pragmatici” nella Autobiografia «Inoltre, era più necessario, secondo me, alimentare l’esuberante giovinezza dei Prezzolini, Papini, Galletti, Vailati, Calderoni, ecc. » sembrino avvalorare una battuta ironica di Prezzolini:

Più tardi ho saputo che il dott. Ferrari aveva “addomesticato” parecchi dei Suoi ospiti del manicomio assumendoli al servizio della propria casa, considerando che questa prova di fiducia sarebbe stata la migliore medicina per curarli. Quando seppi questo, mi venne in mente che forse anche l’ospitalità offertaci dalla rivista di psicologia era stata un po’ dello stesso genere, e che il dottore Ferrari ci aveva considerato un po’ come dei “picchiatelli” e aveva voluto provare una cura di fiducia, lasciandoci scrivere quello che volevamo nella sua rivista .

Subito dopo aggiungeva «O forse mi sbaglio e fu la comune ammirazione che avevamo per James […]che gli fece aprire la porta della sua Rivista .» In realtà, l’ampio carteggio, soprattutto con Vailati, Calderoni e Papini, stava a dimostrare come alla base del loro legame intellettuale con Ferrari vi fosse proprio il pragmatismo di James come aveva indicato Prezzolini.

L’esperienza all’istituto di Bertalia e la fondazione della Rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia

Fu un momento felice, essendo l’interesse pei deficienti nella sua fase ascendente, fondai, incitato dagli amici (Vailati, Papini, Calderoni), la mia rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia, […]Questa Rivista, vivendo soltanto del mio desiderio di creare delle simpatie alla psicologia […] .

Se il momento era felice per i deficienti, a Ferrari di certo non era sfuggito quanto il momento fosse critico e importante per la psicologia italiana. Roma, non senza qualche perplessità, era stata designata come la sede del V Congresso Internazionale di Psicologia e era stato bandito, per la fine di ottobre, dal ministro della pubblica istruzione Bianchi, il concorso per l’assegnazione delle prime cattedre di Psicologia in Italia. I tempi sembravano maturi per la pubblicazione della prima rivista dedicata interamente alla psicologia.
Il primo numero della ‹‹Rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia›› usciva nel febbraio del 1905, bimestrale in fascicoli di circa 60 pagine . Ferrari ne era il direttore, lo sarebbe rimasto fino alla sua morte avvenuta nel 1932, e Morpurgo, aiuto presso la clinica psichiatrica di Padova, il caporedattore. La «Rivista» si dichiarava senza preconcetti e senza pregiudizi aperta a tutti senza esclusioni come si conviene ad una «Rivista» osservante dell’empiricismo più radicale.
Era ai giovani e alle loro ipotesi che Ferrari si affidava per sviluppare la psicologia in un momento in cui, come faceva dire a James, «l’unica cosa sicura fosse ormai l’insufficienza delle varie interpretazioni che oggi reggono il campo» al quale si affiancava «un interesse vivace per tutte le nuove ipotesi, per quanto mal definite ed incerte .» Il compito della ‹‹Rivista›› era allora quello «di coordinare il lavoro dei singoli, ponendolo a confronto coll’esperienza di quanti lavorano e studiano animati da uno stesso ideale .»
A questo fine generale se ne aggiungeva un altro altrettanto importante affidato alle numerosissime rassegne che avrebbero avuto il compito di informare i lettori sulla «possibilità di applicare alla vita i principi della scienza». Il richiamo alla realtà concreta, tanto cara a Ferrari, veniva rafforzato dal fatto che la ‹‹Rivista›› si presentava anche come il giornale dell’Istituto di Bertalia «lo specchio per così dire di una sperimentazione in vivo .»
Ferrari era stato nominato direttore dell’istituto di Bertalia nell’ottobre del 1903. Per lo psichiatra reggiano non era la prima esperienza nel campo della rieducazione dei deficienti. Ancora una volta era stato il manicomio di Reggio a fargli da “nave scuola”, infatti, anche se per un breve periodo (1901-1902), era al S. Lazzaro che aveva potuto studiare gli effetti che la psicologia sperimentale e la neuropsichiatria infantile potevano avere sulla rieducazione dei così detti fanciulli anormali. Una passione, quella per l’infanzia anormale, che condividerà con De Sanctis, Maria Montessori e Motesano e che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita.
Ad attirare Ferrari, a livello scientifico, era stata, probabilmente, la possibilità di poter applicare concretamente i principi della psicologia jamesiana all’infanzia anormale, convinto che il loro apporto sarebbe stato notevole a livello sia conoscitivo sia rieducativo.
Applicare la psicologia Jamesiana voleva dire, innanzitutto, abbandonare il riduzionismo, tanto caro all’antropologia di stampo positivista, e dedicarsi allo studio della vita psichica dei frenastenici nella sua complessità e nel suo divenire. Era, allora, l’osservazione attenta e continua dei medici, degli infermieri e soprattutto degli insegnanti che permetteva di gettare luce su degli aspetti della personalità dei frenastenici che le prove di laboratorio non avrebbero mai evidenziato. L’istituto assumeva così le sembianze di un grande laboratorio in cui era possibile studiare i giovani frenastenici in funzione. Nuovi strumenti scientifici, attrezzature migliori nelle officine, maggior igiene, corsi di formazione per gli infermieri, valorizzazione e riconoscimento dell’importanza del lavoro svolto dagli insegnanti, il coinvolgimento dei degenti nei lavori da svolgere all’interno dell’istituto erano la traduzione in atti delle idee di Ferrari. Idee che avevano portato Bertalia al livello dei migliori strutture europee. Proprio questa esperienza sarà la base da cui decollerà la fondazione della Colonia libera dei deficenti gravi e dei giovani criminali di Imola .
Dell’Istituto di Bertalia la ‹‹Rivista›› era il quotidiano e in quanto tale importante fu il contributo dato dagli articoli dei maestri e della maestre dell’istituto soprattutto nei primi anni di pubblicazione del periodico. Importanza non solo numerica, il maggior numero degli interventi riguardava la psicologia applicata e la pedagogia, ma anche qualitativa (conoscitiva). I loro articoli, basati su un osservazione attenta e diretta, testimoniavano la scoperta di un nuovo mondo mentale quello dei frenastenici.
Ampio spazio fu lasciato anche ai pragmatisti che in questo modo ebbero la possibilità di rendere note le proprie idee. Ma nella ‹‹Rivista››, mantenendo fede alla premessa, trovava ospitalità chiunque «avesse qualche cosa da dire di interessante.» Se da una parte questo ha reso possibile non solo la presenza di molti giovani ma anche, per esempio, la comparsa del primo articolo sulla psicanalisi, dall’altra ha fatto sì che, non escludendo nessuno, il quadro generale non fosse particolarmente armonico e sia l’approccio sia il linguaggio non propriamente tecnici. Quest’ultimo aspetto, congiunto alla professata fede per il pragmatismo jamesiano, ponevano la «Rivista» in una posizione anti-accademica e in contrasto con la cultura dominante .

La nascita delle prime cattedre e la battaglia per la difesa dell’autonomia della Psicologia.

Come osserva Babini, se contrastanti erano le opinioni sulla fisionomia della rivista e sul suo carattere composito di certo non si può negare che la sua fondazione sia stata un’altra lancia spuntata a favore dell’autonomia della Psicologia. In difesa di tale autonomia Ferrari combatté una lunga battaglia affinché l’ insegnamento della Psicologia fosse inserito nel sistema scolastico italiano a partire dalle Scuole Medie fino all’Università. Mentre nelle scuole secondarie la psicologia era già presente dagli ultimi anni dell’Ottocento, per la sua l’autonomia didattica nell’Università italiana occorrerà aspettare fino al 1905 anno in cui venne indetto un bando di concorso a cattedre per la Psicologia Sperimentale nelle Università di Roma, Torino, Napoli.
Il grande successo riscosso dalla traduzione dei Principles in Italia aveva di certo contribuito ad accelerare i tempi dell’uscita del bando di concorso, ma molto del merito, in realtà, andava riconosciuto alle pressioni esercitate a livello ministeriale dagli amici della psicologia: Mosso, Morselli, Tamburini, Labriola, Turbiglio, Bianchi. Molti di loro erano psichiatrim, fra i quali Bianchi, che nel breve tempo in cui aveva rivestito la carica di ministro della Pubblica istruzione fondò le tre cattedre di Psicologia sperimentale.
Le sorti dell’autonomia della psicologia italiana finivano per dipendere, ancora una volta, dal forte legame che le univa alla psichiatria. A conferma di questo rapporto preferenziale due cattedre su tre furono affidate a medici alienisti: DeSanctis e Collucci; la terza ad un fisiologo allievo di Mosso: Kisow.
Nel 1906 Ferrari ottenne un incarico ministeriale per l’insegnamento della Psicologia sperimentale presso la scuola di Magistero che era stata istituita a Bologna all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 1909 gli venne concessa la libera docenza in Psicologia sperimentale presso La Regia Università di Bologna. Nel 1912 gli fu assegnato l’incarico di psicologia sperimentale presso la Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università della medesima città. Incarico che gli venne poi rinnovato annualmente fino al 1932,anno della sua morte.
La psicologia sembrava così ormai essere entrata a far parte della cultura ufficiale italiana. Come stavano a testimoniare gli incarichi ricevuti da Ferrari, i filosofi non avevano tardato a prendersi una rivincita: avevano infatti ottenuto che l’insegnamento della Psicologia sperimentale si svolgesse nell’ambito delle Facoltà di Filosofia. «La filosofia ci sostenne con la stessa cordialità con cui la corda sostiene l’impiccato» notava poi Ferrari in una lucida analisi nella quale tracciava il percorso che aveva portato la Psicologia italiana dalla sua nascita «a vivere in aria rarefatta .»
L’anno era il 1927 e molte cose erano cambiate da quando Ferrari, nella recensione al V Congresso Internazionale di Psicologia, si era dichiarato ottimista per il futuro della psicologia. Il clima culturale e politico era mutato. L’idealismo, con le sue idee anti-naturalistiche, aveva iniziato a diffondersi fra gli intellettuali italiani. Gli effetti di tale mutamento di rotta non tardarono a farsi sentire anche sull’insegnamento della psicologia.
Nel 1916 venne emanata una riforma delle “Scuole di Perfezionamento per i licenziati dalle scuole normali” nella quale venivano soppressi tutti i corsi che non fossero: Pedagogia, Lettere italiane, Igiene e Legislazione scolastica, più in quinto corso che veniva deciso anno per anno. L’insegnamento della psicologia veniva così tolto dalle scuole magistrali. Una riforma che Ferrari non esitava a definire assurda, in un articolo scritto per la sua ‹‹Rivista››, nel 1917, in difesa dell’insegnamento della psicologia sperimentale . Togliendo tale insegnamento non solo si condannava l’Italia ad una condizione di arretratezza culturale «mentre da per tutto, e per non dire altre nazioni, nel Nord-America, la psicologia sperimentale applicata alla pedagogia, moltiplica i suoi cultori, i suoi laboratori, si afferma nei manuali, nelle memorie numerosissime, da noi, con un decreto si disfa quel poco che per solo entusiasmo si era fatto» ma si privava anche i maestri di uno degli apporti conoscitivi fondamentali per la conoscenza dei comportamenti individuali e collettivi degli scolari e:

Se non si studiano gli scolari singolarmente e in gruppo, con tutti i metodi della scienze biologiche e della psicologia moderna […]non si può parlare di sviluppo della memoria e del pensiero nelle varie età, di attitudini intellettuali e di lavoro, di capacità di apprendimento, di lavoro muscolare e mentale, di stanchezza e di fatica, di istinti e di adattamento sociale, di suggestibilità e così via .

Bisognava continuare a lavorare e a lottare per le proprie idee. L’invito era soprattutto rivolto ai professori ordinari e a coloro che avevano ricevuto l’incarico di psicologia sperimentale e che quindi non potevano essere soppressi. Occorreva resistere e Ferrari lo avrebbe fatto mettendo le sue conoscenze a disposizione dell’insegnamento della pedagogia e di tutti i maestri che avrebbero scelto di frequentare il laboratorio di psicologia pedagogica dell’Università di Bologna .
Gli sforzi di Ferrari risultarono vani, la riforma Gentile, nel 1923, aboliva l’insegnamento della psicologia dalle scuole italiane sostituendolo con quello di storia della filosofia. Una volta eliminata dalle scuole medie la psicologia, ridotta a puro elemento informativo della cultura dei futuri insegnanti, rischiava di sparire anche dalle Università e così dal panorama culturale italiano. Da qui la necessità di indire un convegno, a Bologna, in cui poter discutere degli argomenti vitali per le sorti della psicologia italiana. Ferrari interveniva con una relazione che aveva come tema l’ “Insegnamento della psicologia in Italia .”
La causa dei mali della psicologia veniva individuata, da Ferrari, nella incapacità della stessa Psicologia di ridefinire la propria posizione culturale alla luce dei nuovi parametri scientifici. La psicologia sperimentale era rimasta, infatti, all’interno della Facoltà di Filosofia dove, la reazione idealistica contro la scienza riconosceva alla Psicologia di essere sì una parte importante della fenomenologia dello spirito, ma non le riconosceva nessuna qualifica sperimentale in senso stretto.
Rinunciare al laboratorio e all’ indagine empirica significava perdere tutta una serie di informazioni sull’uomo che solo l’indagine psicologica poteva rivelare. Tale impostazione non solo metteva in discussione la stessa esistenza della psicologia ma privava, nello stesso tempo, altre scienze di un apporto basilare per il loro sviluppo . Non era la psicologia ad essere morta ma era «il terreno in cui veniva coltivata ad essere magro; per cui basterà che mutiamo il terreno, che ci trapiantiamo, per rinnovare la fertilità e l’interesse della psicologia .»
Essendo il processo sperimentale riconosciuto come processo investigativo valido per la definizione gnoseologica di una scienza la psicologia sperimentale, come scienza empirica, poteva quindi essere annoverata tra le singole scienze. Se dunque si riconosce lo statuto di scientificità alla psicologia sperimentale bisogna:

toglierla […]dalle Facoltà di filosofia, per inserirla adeguatamente nella Facoltà di medicina o in quella di scienze, dove potrebbe prestarsi utilmente come fondamento o come complemento dell’insieme di studi che dovrebbero costituire quelle lauree speciali che Giovanni Gentile ricordava in un recente articolo su La riforma universitaria

Giulio Cesare Ferrari e l’esperimento della Colonia libera dei deficienti gravi e dei giovani criminali.

«La migliore, la più felice mia applicazione pratica della psicologia
l’ho fatta a proposito dei fanciulli cui succede di cadere nelle mani della Giustizia, i cosiddetti fanciulli criminali .» Con queste parole, a distanza di anni, nell’Autobiografia, a Ferrari piaceva ricordare l’esperimento della Colonia libera a cui aveva dato vita insieme a Gabriella Francia dal 1910 al 1914 nei pressi di Imola. Se è difficile dire se sia stata la sua migliore e più felice applicazione pratica della psicologia, gli va, però, senza ombra di dubbio, riconosciuto il merito e il coraggio di avere introdotto nel campo della delinquenza minorile un metodo di cura innovativo grazie al quale furono ottenuti ottimi risultati.
Lo psichiatra reggiano viveva la fondazione della Colonia libera non come il punto di arrivo della sua ricerca, ma bensì come un luogo di verifica e di studio. Attuare questo progetto significava, infatti, avere la possibilità, di mettere alla prova sul campo le teorie elaborate fino a quel momento

L’idea incosciente che germogliava in me, spingendomi all’azione, era quella di arrivare a trattare nello stesso modo alienati (in senso lato) e criminali. Sentivo l’analogia biologica e sociale che legava questi due gruppi: la dimostrazione pragmatistica della cosa presentava dunque senza dubbio il più grande interesse. Ed era anche naturale dare tale dimostrazione cominciando dai fanciulli .

Allo stesso tempo si creava per Ferrari l’occasione di studiare direttamente la psicologia del fanciullo delinquente e le possibilità del loro adattamento alla vita .
Una corretta valutazione di tale esperimento dovrà dunque tenere in considerazione questa duplice matrice.
La realizzazione della Colonia libera, oltre ad essere un banco di prova per le teorie riguardanti i giovinetti criminali, lo era anche per le idee che lo psichiatra reggiano aveva sviluppato a proposito sia della cura e della educazione dei deficienti gravi sia della possibilità di inserire nel mondo del lavoro i malati cronici. Confluivano, così, in questa sperimentazione le varie esperienze e i vari studi che Ferrari aveva svolto in ambito psichiatrico e nel campo dei frenastenici. Il vero collante che teneva unito e permetteva uno studio e un trattamento “comparato” di malati che normalmente venivano curati da scienziati appartenenti a discipline diverse va individuato, al di là delle teorie espresse da Ferrari, nell’inserimento da lui effettuato della psicologia individuale nello studio e nella cura degli alienati, dei frenastenici e ora dei giovanetti criminali. Una psicologia che risentendo della influenza jamesiana si basava sullo studio della vita psichica considerandola nella sua complessità e nel suo divenire. Tale approccio permetteva allo psichiatra reggiano di distaccarsi dall’antropologia di stampo positivista così affezionata al riduzionismo e di tentare un metodo terapeutico che si prefiggeva, tenendo conto della personalità di ogni singolo fanciullo, di riuscire ad agire sul subcosciente dei giovanetti grazie all’influenza benefica dell’educatore, del lavoro e dell’ambiente.

La fondazione della Colonia dei deficienti gravi e dei giovani criminali.

Lasciata la guida dell’istituto medico pedagogico di Bertalia, Giulio Cesare Ferrari, aveva assunto la carica di direttore del Manicomio Provinciale di Bologna in Imola. L’esperimento di Bertalia, come stavano a testimoniare i dati statistici che lo stesso psichiatra reggiano aveva esposto al Congresso tenutosi nel 1907 ad Amsterdam per l’Assistenza dei malati di mente, aveva prodotto scarsi risultati. Tali esiti avevano sì preoccupato Ferrari ma non avevano di certo scalfito il suo ottimismo e la sua voglia di fare tant’è che, nel 1910, aprì a CastelGuelfo, non lontano da Imola, un esperimento di colonizzazione libera per deficienti. La direzione di tale sezione fu affidata ad un’insegnante di Pedagogia la prof. Gabriella Francia . Essenzialmente erano due le ragioni che avevano spinto lo psichiatra reggiano a dare vita a questa esperienza. Da un lato Ferrari, infatti, si trovava a dover risolvere, all’interno del manicomio di Imola, alcuni problemi pratici legati alla sistemazione e all’assistenza dei deficienti. Infatti, nel 1909, l’On. Deputazione decise di ritirare dall’istituto di Bertalia un discreto numero di fanciulli deficienti che erano lì ricoverati a carico della Provincia di Bologna . Il criterio adottato per prelevarli, nonostante Ferrari avesse proposto di fare rientrare gli educabili il cui inserimento sarebbe stato più semplice e meno oneroso, fu quello dell’età. Non potendo gli educabili convivere con gli ineducabili per fini pratici legati all’assistenza, diventava necessario sdoppiare tutti i servizi e far convivere i fanciulli con gli adulti cosa che lo psichiatra reggiano reputava sconveniente per ragioni sia morali sia igieniche. «Credemmo perciò di provvedere utilmente, allontanando dal Manicomio i giovanetti educabili, amorali per lo più, iniziando, per mezzo del nostro patronato dei Pazzi Poveri, un esperimento di colonizzazione libera per deficienti […] .» Dall’altro Ferrari vi vedeva l’opportunità di dare vita ad un nuovo metodo terapeutico, elaborato partendo dall’esperienza di Bertalia ma arricchito di novità grazie alle quali sperava di ottenere risultati migliori di quelli ottenuti dagli altri istituti che accoglievano i giovani criminali. L’innovazione principale stava nel far condurre ai fanciulli una vita in libertà in una grande Villa (non vi erano né sbarre né lucchetti) nella quale si cercava di riprodurre uno stile di vita che si avvicinasse il più possibile a quella famigliare e che di questa riuscisse a riprodurre i caratteri educativi.
Nello stesso periodo , stando all’Autobiografia, il conte Rasponi, Presidente del Tribunale di Bologna, propose allo psichiatra reggiano di annettere alla Sezione per fanciulli deficienti alcuni giovanetti che avevano avuto a che fare con la Giustizia e che dovevano scontare pene detentive all’interno del carcere di Bologna. L’occasione era di quelle da non perdere per chi, come Ferrari, amava studiare e sperimentare direttamente sul campo le proprie teorie e lo psichiatra reggiano non solo accettò «senza troppo riflettere», nonostante le enormi difficoltà, ma si fece addirittura carico delle spese di affitto della villa nella quale poter realizzare il progetto. La villa era provvista di un ampio parco, di un orto, di una vigna e un po’ di terreno adibito ai lavori agricoli. Al suo interno vennero sistemati una quarantina di fanciulli dei due sessi, metà dei quali erano deficienti già ricoverati nel manicomio di Imola e l’altra metà era invece composta da giovanetti criminali già presenti nel manicomio, mentre altri erano “prelevati” da Rasponi nelle prigioni, nei riformatori e negli istituti per l’infanzia abbandonata di Bologna. Unici aiutanti della Direttrice Gabriella Francia erano una sola infermiera e quattro vecchi malati del manicomio. L’esperimento, come osservava la stessa direttrice in una approfondita e puntuale relazione apparsa nella ‹‹Rivista di Psicologia›› nel 1911 , si presentava arduo. A destare le maggiori preoccupazione, seguendo quasi la legge del contrappasso, erano le stesse innovazioni dalle quali Ferrari si aspettava i maggiori risultati. Prima fra tutte la coabitazione di individui appartenente ad entrambe i sessi parte dei quali avevano un’età superiore ai tredici anni. Infatti, la vita all’interno della villa era stata programmata in modo tale che i fanciulli e le fanciulle condividessero sia i lavori e sia gli svaghi, trovandosi in contatto continuo fra loro. L’unica divisione prevista era quella inerente alle stanze da letto e ai servizi igienici. Al pian terreno furono ubicate le ragazze e le malate adulte, al primo piano i ragazzi e al secondo gli adulti. Ai ragazzi non era permesso di scendere al pian terreno prima delle otto del mattino e senza che l’infermiera avesse dato l’avviso della loro venuta. Gli unici a cui veniva tacitamente concessa maggior libertà erano i bambini dai 6 agli 8 anni.
Il pericolo di comportamenti indisciplinati era un’altra fonte di preoccupazioni. Il regime di libertà al quale era improntata la vita all’interno della villa, da un lato era una delle innovazioni dalla quale ci si aspettava i maggiori risultati, dall’altro era uno dei punti che destava le maggiori preoccupazioni. Era, in effetti, difficile da prevedere la reazione che avrebbero avuto i ragazzi che fino a quel momento erano stati abituati ad una vita di tipo manicomiale con limitazioni della libertà e con la costante presenza di infermieri in grado di dominarli fisicamente e con i mezzi di prevenzione e di repressione che là disponevano. Ad aumentare la preoccupazione concorreva anche la mancata presenza del medico che in ambito manicomiale, grazie al grande ascendente che esercitato sui malati fungeva, solo con la sua presenza, da forza regolatrice per i pazienti.
L’introduzione dell’attività lavorativa metodica e libera era un altro elemento dal quale potevano scaturire disordini a causa della scarsa sorveglianza e dell’atmosfera adatta a far nascere in loro un senso di indipendenza.
All’interno della villa Ferrari aveva anche la possibilità di poter verificare empiricamente la validità della teoria che aveva elaborato per il recupero dei giovanetti criminali. Tale teoria era basata sulla convinzione che vi fosse una affinità fondamentale del carattere tra i veri e propri deficienti e i giovanetti criminali che permetteva di sottoporli al medesimo trattamento. A differenza dei veri e propri deficienti i pervertimenti dei giovanetti criminali erano funzionali e come tali potevano dunque essere modificati volgendo al bene le tendenze anormali o criminose dei fanciulli figlie dell’eredità o dell’ambiente pervertito. Tale idea, pubblicata per la prima volta nel 1907 in un articolo della ‹‹Rivista di Psicologia››dal titolo Giovani irregolari , era avvalorata dalla comparazione dei dati degli esami psicologici che Ferrari aveva a disposizione e che pubblicava a sostegno della propria tesi nello stesso articolo:

Così troviamo in tutti una speciale asimmetria psicologica, per cui questi individui presentano l’uno o l’altro tratto della loro personalità ben definito e non di rado eccessivo, mentre tutto il rimanente della loro organizzazione psichica rimane in una condizione di instabilità, di disequilibrio, e solo le circostanze possono chiamare l’uno o l’altra di queste attività mentali residue al primo piano. Queste attività, però, non hanno tutte le medesime possibilità di divenire efficienti.
Alcune, e specialmente quelle che rappresentano gli ultimi e più elevati acquisiti dell’animo umano, quali l’attenzione cosciente, volontaria, e la volontà nella sua forma più evoluta di inibizione, sono quasi sempre permanentemente in difetto […],sono permanentemente deficienti la sensibilità generale, l’immaginativa e l’affettività; mentre sono spesso esagerate la percettività e la memoria ….Pervertiti ed esclusivamente soggetti al predominio della vita istintiva sono infine i poteri associativi e il raziocinio: da cui deriva una logica assolutamente sofistica, ma che ha un potere ferreo per tutti gli affini .

Parte di queste osservazioni erano molto probabilmente il frutto del lavoro svolto da Ferrari all’interno dell’Istituto medico pedagogico di Bertalia.
L’accettazione della direzione di questo istituto aveva sancito, innanzi tutto, l’ingresso di Ferrari in un nuovo campo di studi: quello dell’infanzia anormale. Ferrari ne era stato direttore dal 1903 al 1907 anni in cui si era registrato un gran fermento attorno ai frenastenici che aveva portato alla fondazione della Lega, alla nascita di appositi istituti e, a livello scientifico, alla nascita delle prime classificazioni. Fermento a cui Ferrari aveva dato un notevole impulso impostando il lavoro all’interno dell’istituto di Bertalia secondo i criteri della psicologia sperimentale. La grande novità, introdotta non solo da Ferrari ma anche da Montessori, De Sanctis e Montesano, consisteva non tanto nell’inserimento della psicologia sperimentale i cui metodi venivano erano stati da pochi anni introdotti nei pochissimi laboratori presenti nei manicomi o nelle Università , ma nei fini che tale approccio si proponeva: studiare la psiche nel suo complesso per conoscerne la tipologia e individuarne, così, le differenze dalla norma.
L’osservazione continua dei frenastenici in “funzione” e l’elaborazione dei dati raccolti aveva evidenziato come all’interno della massa frenastenica si nascondessero, in realtà, diverse tipologie psicologiche aventi diversi gradi di anormalità e di educabilità . Di grande importanza scientifica era stato il riconoscimento da parte dei maggiori studiosi della disgiunzione del livello intellettuale da quello morale. Era dunque possibile che vi si presentassero dei casi in cui ad un livello intellettivo integro si affiancassero delle deficienze del carattere morale e che una vera e propria rieducazione dovesse partire proprio dalla sfera morale. Punto questo particolarmente sottolineato dalla Montessori nel congresso tenutosi a Napoli nel 1901 .
Le conoscenze che Ferrari possedeva nel campo della delinquenza minorile non erano di certo così approfondite come quelle appena evidenziate per i deficienti. Erano per lo più il frutto di osservazioni di fanciulli criminali che lo psichiatra reggiano aveva incontrato o perché internati nel manicomio o perché mescolati ai frenastenici.
Seppur, prestando fede all’Autobiografia, l’amor per la psicologia in generale e in particolare per la psicologia criminale si era manifestato e si era sviluppato in Ferrari fin dall’infanzia, Ferrari era giunto allo studio scientifico della psicologia seguendo la via percorsa dalla psicologia degli anormali. Quest’ultima che aveva mosso i suoi primi passi in ambito antropologico aveva poi continuato il suo cammino interessandosi allo studio dei frenastenici e successivamente a quello dei giovanetti criminali. E’ in questa ottica, a mio parere, che deve essere inquadrata la teoria e la terapia sviluppata per il recupero dei delinquenti minorenni in cui risulta chiaramente l’influenza della grande esperienza e degli studi che Ferrari aveva maturato sia nel campo dei deficienti sia in quello degli alienati. Una teoria che, sebbene già all’epoca fosse considerata da alcuni troppo semplicistica ha comunque prodotto un metodo dimostratosi efficace per la rieducazione dei giovanetti incappati nelle maglie della giustizia.
Il progetto terapeutico ideato da Ferrari nasceva dalla sua profonda convinzione di poter recuperare e rieducare i fanciulli criminali.
Lo psicologo reggiano era, infatti, convinto che il pessimismo dilagante dell’epoca riguardo all’emendabilità dei giovanetti fosse generato da un errore di classificazione: la mancata distinzione dei giovanetti criminali psicopatici da coloro che invece erano integri mentalmente e aventi una personalità che si differenziava da quella dei loro coetanei per il solo fatto di dare vita a comportamenti che andavano contro i limiti imposti dalla società. Mentre lo studio dei primi interessava la clinica, dei secondi, quelli emendabili, si doveva invece occupare la psicologia . Ferrari finiva così per identificare i giovanetti criminali con coloro che avevano commesso o avevano la tendenza a commettere degli atti contro la legge morale o scritta pur non presentando malattie mentali.
La critica di Ferrari non si arrestava alla classificazione ma si estendeva alla nomenclatura. Troppo grave e inesatto era chiamarli giovanetti criminali, molto più consono al loro stato psicologico e morale chiamarli “anormali del carattere”. Due erano le ragioni che esplicitava a sostegno della sua proposta. Innanzi tutto considerava del tutto arbitrario classificare i giovanetti secondo un criterio esteriore come l’avere o non avere infranto la legge morale o scritta, in quanto il fondo psicologico che generava i comportamenti devianti era presente in misura eguale anche nei bambini che non avevano dei comportamenti scorretti. Era dunque l’occasione che determinava il compimento o meno dell’atto. Inoltre seppure gli atti criminali commessi erano gli stessi degli adulti, il loro valore sociale e la loro genesi psicologica erano talmente diversi che l’appellativo di giovani criminali era da considerarsi moralmente troppo grave e psicologicamente inesatto .

La genesi dei comportamenti criminali: il senso morale, l’ambiente e le tendenze naturali dei fanciulli.

Per comprendere fino in fondo la sua proposta e soprattutto la psicologia dei giovanetti criminali, Ferrari invitava i suoi lettori a dimenticare tutto quello che formava il loro fondo del senso morale e le loro abitudini di condotta sociale e a ricordare, invece, come il concetto di dovere morale fosse il frutto dell’educazione . Considerare la morale come il frutto dell’educazione significava, innanzi tutto, riconoscere, da un lato l’influenza dell’ambiente sulla genesi della criminalità minorile e, dall’altro, la possibilità di curare i giovanetti criminali. All’interno del termine ambiente, Ferrari faceva confluire categorie quali la famiglia, gli amici, la società in generale fino ad arrivare alle leggi dello Stato.
Legare la genesi del senso morale all’educazione e non considerala quindi come qualche cosa di dato e immodificabile, era una delle idee basilari del progetto terapeutico dello psichiatra reggiano. Infatti, dopo aver escluso dalla categoria dei giovanetti criminali coloro che non erano integri mentalmente, affermava che il furto e la violenza, i due atti criminali maggiormente commessi dai giovanetti criminali, erano generati da tendenze “naturali” e comuni a tutti i ragazzi. Tendenze che potevano essere o corrette o incanalate per il perseguimento di fini benefici o soppresse solo grazie all’educazione. La posizione così assunta da Ferrari poneva in luce un tema a lui tanto caro anche in campo psichiatrico: la labilità del confine fra i comportamenti anormali e quelli normali, posizione che lo allontanava da quella di Lombroso.
La posizione assunta da Ferrari andava contro anche ad un altro pregiudizio dell’epoca secondo il quale la criminalità minorile riguardava solo gli strati meno abbienti della popolazione. Lo studio della genesi della criminalità aveva, invece, a suo parere, messo in evidenza come i bambini rubando o rendendosi responsabili di atti violenti non facevano altro che rispondere a istinti comuni a tutti i fanciulli indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza . In diversi articoli , alcuni dai toni oltre che polemici anche molto aspri, Ferrari evidenziava come il binomio criminalità/bambini poveri fosse generato dall’ottusità della maggior parte di coloro che si occupavano di criminalità minorile. Costoro, incorrendo nello stesso errore commesso dalla medicina, curavano la malattia invece del malato. La sua critica si allargava alla Giustizia. Nei tribunali, infatti, si giudicava il ragazzo in base alla combinazione del numero di un articolo del Codice con quello degli anni del ragazzo non tenendo invece in considerazione che questi fanciulli non fossero diversi dagli altri che per ragioni di contrasto fra un carattere o un temperamento esuberanti e un ambiente inadatto. Ragazzi che con una assistenza intelligente potevano essere messi in corsa insieme ad altri. Assistenza di cui i fanciulli appartenenti alle famiglie agiate potevano godere nelle Scuole per tardivi o negli istituti per deficienti.
La sua critica non si fermava qui ma si spingeva oltre puntando il dito contro la disparità di giudizio e di conseguenze riservate ai fanciulli a seconda della classe di appartenenza:

[…]forse che si rinchiudono nelle Case di salute i giovani delle classi ricche che occupano la loro vita nelle violenze del foo-tball o dell’automobilismo pazzesco, nella dissipazione e nella promiscuità delle bische e dei bordelli, o che, come i volgari teppisti cittadini si gloriano delle ragazzine violentate, del sangue sparso o fatto spargere con un coltello[…]. Neanche per sogno. Ora allo stesso modo appunto in cui costoro, giunti alla maggiore età, divengono consiglieri comunali o deputati che non sfigurano certo fra i loro amici con antecedenti meno movimentati, anche i giovanetti poveri che non si mantengono facilmente fra le guide che l’educazione prescrive, possono, opportunamente consigliati, o anche a loro insaputa sorretti, compiere la loro funzione nel mondo .

La differenza della condizione sociale faceva, così, sentire il proprio peso non nel creare dei sentimenti, delle tendenze, dei modi di pensare differenti nei fanciulli appartenenti a classi sociali diverse, bensì nelle differenti reazioni sociali suscitate dal compimento di medesimi atti in contesti sociali diversi .
In un processo di crescita e di sviluppo “regolare”nel fanciullo, ad un certo punto, iniziava ad organizzarsi la coscienza della scorrettezza dell’atto commesso. A dare inizio a questo corso erano, inizialmente, il ricordo delle punizioni avute e la paura di una sanzione ritenuta immancabile e fatale. L’evoluzione di tale processo era completata dalla nascita di un senso elementare di solidarietà grazie al quale si iniziava a rispettare i diritti degli altri per avere in cambio il riconoscimento dei propri. «Nei ragazzi nei quali è mancata quest’azione esteriore l’evoluzione è stata naturalmente diversa .» La chiave di lettura del problema della criminalità giovanile stava, per Ferrari, proprio nell’individuare gli elementi e i vari processi che stavano alla base di tale diversità.
Alla luce degli studi effettuati sui giovanetti criminali lo psichiatra reggiano aveva, così, stilato una teoria atta ad evidenziare i passaggi e gli elementi fondamentali che generavano i comportamenti criminali dei ragazzi. Seguendo la teoria elaborata da Ferrari, il bambino passava da una prima fase in cui il comportamento criminale scaturiva da abitudini mentali che si formavano naturalmente nel fanciullo, tollerate e favorite dall’ambiente, ad una fase in cui, quelle che prima erano solo tendenze, si trasformavano in comportamenti stabili, fino a diventare necessarie per il colorito estetico che assumono per certi ragazzi. Al raggiungimento di questo ultimo stadio il fanciullo diventava un vero e proprio criminale .
Esaminando i bambini durante la prima fase Ferrari aveva, infatti, notato come essi considerassero il loro modo di agire e le loro azioni criminose completamente normali.
Il confronto incrociato fra le risposte date, i risultati di indagini complementari quali sogni e compiti di scuola, e soprattutto con l’esame della loro immaginazione e delle loro associazioni di idee avevano evidenziato come in effetti le loro considerazioni fossero naturali, genuine e corrispondenti al loro fondamentale modo di essere . Il bambino che aveva commesso un atto criminale non aveva mai manifestato di possedere il concetto generale di atto immorale che aveva compiuto, in quanto viveva sempre la sua azione come una risposta ad uno stimolo a cui era stato esposto. Il ragazzo interrogato sulle ragioni di un atto delinquenziale da lui commesso dimostrava chiaramente di non sapere il perché e di avere risposto ad un desiderio o ad un impulso . L’incapacità dei giovanetti di vedere i loro atti in funzione, rendeva praticamente impossibile che fossero in grado di vedere e misurare le conseguenze, che gli atti da loro commessi, potevano avere su altre persone.
I primi tentativi di spiegazione evidenziavano, invece, un elemento fondamentale della condotta dei giovanetti:l’incapacità ad astrarre e a generalizzare . Tutte le risposte erano, infatti, limitate al caso in questione e in nessun modo venivano estese a casi analoghi.
Secondo il parere di Ferrari, ad alimentare ancora di più l’idea che gli atti avessero un valore esclusivamente individuale, concorrevano altri due fattori: uno legato al carattere aleatorio e mutevole della sanzione e l’altro alle capacità logiche limitate data l’età del bambino. Vivendo il bambino in una realtà in cui era poco controllato raramente i suoi atti venivano scoperti e anche quando questo si verificava le sanzioni cambiavano sempre a seconda dei casi . Le capacità logiche del bambino non gli permettevano di coglier il vero valore di questa diversità e lo portavano invece a pensare che ogni caso fosse fine a sé stesso e che le diverse conseguenze dei suoi atti trascendessero la sua persona. Date tali premesse la sanzione veniva vissuta dal fanciullo più come una conseguenza legata alla sfortuna che come l’esito di una sua azione. Tali avvenimenti portavano il ragazzo a non essere in grado di generalizzare il concetto di castigo e di pena e per lui diventava ancora più difficile appropriarsi del concetto di scorrettezza e di criminalità che gli avrebbe permesso di attribuire il vero valore degli atti da lui commessi . Di volta in volta, a seconda del carattere del ragazzo, la sanzione penale veniva allora vissuta dai fanciulli in modo diverso: o come un circostanza inevitabile o come un incerto professionale o come una manifestazione del diritto del più forte da parte delle guardie e dei giudici .
A questa prima fase considerata da Ferrrari come la genesi degli atti criminosi in cui il comportamento del bambino, come sottolineato sopra, era visto come la semplice risposta ad uno stimolo, ne seguiva una seconda caratterizzata invece dalla nascita dell’interesse. A destare l’interesse del giovane per la vita criminale, secondo lo psichiatra reggiano, concorrevano due fattori: il primo si riferiva agli atti delinquenziali che, data l’esperienza maturata e il formarsi e il perfezionarsi di nuove abitudini, diventavano più semplici e meno rischiosi da eseguire; il secondo riguardava invece la professione del criminale che era per sua natura una delle professioni più adatte e simpatiche per dei giovanetti poiché permetteva loro di soddisfare, mano a mano che nascevano, le tendenze e gli istinti propri della loro età . Ad attirare i fanciulli era soprattutto la vita fisica esuberante, l’amore per l’avventure e gli imprevisti, l’orrore per la routine e il guadagno materiale spesso elevato. Tendenze comuni a tutti i ragazzi che, i fanciulli abbandonati in condizioni più vicine alla vita primitiva sfogavano rendendosi protagonisti di violenze, furti o vagabondaggi, mentre gli altri fanciulli le irretivano con giochi, sport, letture ecc. ecc. In questo stadio le azioni criminali conservano ancora un carattere individuale quindi più facile da vincere .
Quando, invece, il ragazzo inizia a ricercare la perfezione e la bellezza nell’esecuzione di un piano o di un atto delinquenziale era allora che si radicavano in lui quelle che prima erano solo tendenze. Le tendenze diventavano, così, abitudini criminose. La nascita del carattere estetico doveva essere un segnale di allarme per l’educatore in quanto il suo affermarsi rendeva più difficile la buona riuscita dell’intervento terapeutico . Infatti la nascita di questa nuova visione estetica, testimoniava innanzitutto la capacità di astrazione di questi fanciulli la maggior parte dei quali presentava o un’intelligenza più organica o i segni di un principio di educazione e di istruzione che aveva poi subito un’interruzione che gli permettevano di acquisire idee astratte in anticipo rispetto agli altri giovanetti.
La nuova visione estetica, inoltre, sostituiva la mancanza d’interesse specifico per l’azione commessa, caratteristico della fase precedente, con uno immanente e più generale ed inoltre, rendendo più ampio il campo d’azione dell’interesse determinava anche un allargamento dell’interesse stesso in campi affini.
Ad essere enormemente influenzata dalla nuova visione estetica era anche uno dei perni attorno a cui ruotava il comportamento umano: la personalità. Stilando la teoria della formazione della personalità criminale, Ferrari aveva avuto una grande intuizione: che la deviazione verso la criminalità occasionale dei fanciulli, avvenuta per la mancata intonazione con l’ambiente in cui erano nati e cresciuti, fosse sentita dagli stessi fanciulli come un’incompletezza dovuta ad una mancata sintesi personale. Era dunque la criminalità che ora offriva al ragazzo la possibilità di sintesi . Il passaggio dal criminale occasionale a quello d’abitudine coincideva per Ferrari con la creazione della personalità criminale. Alla base di tale creazione, lo psichiatra reggiano, individuava e poneva un bisogno psicologico: la necessità di costituirsi una personalità completa e in armonia con le tendenze più intime e coi bisogni estetici. Essendo stata elaborata dall’individuo stesso alla luce delle proprie condizioni psicologiche è proprio nella sua attuazione che lo stesso individuo troverà le sue migliori applicazioni rendendo assai arduo l’intervento dell’educatore .

Il subcosciente e il concetto di personalità

Binet e James, come notato in precedenza, erano stati i due studiosi che maggiormente avevano influenzato il pensiero e l’opera di Ferrari fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Da questo punto di vista l’esperienza della Colonia libera può essere considerata come il punto di incontro delle teorie elaborate da Ferrari seguendo gli esempi dei due studiosi sopra menzionati. Infatti, da un lato all’interno della Villa si studiavano gli individui anormali applicando il metodo dei reattivi mentali di Binet grazie ai quali si ottenevano dei dati che non potevano essere rilevati seguendo altri metodi. Dall’altro, però, gli studi effettuati dallo psichiatra reggiano avevano evidenziato come la personalità per la sua unicità, per la sua particolarità e soprattutto per i suoi legami con il subcosciente, celasse reazioni che i semplici stimoli di laboratorio non potevano di certo evidenziare. Alla luce di tali studi aveva elaborato una teoria e una terapia dove ad essere posti al centro dell’attenzione erano la personalità, il suo legame col subcosciente, il subcosciente stesso e l’affettività nella definizione dei quali venivano citati assai di frequente I Principles di James.
Allo sviluppo della teoria della personalità elaborata da Ferrari aveva contribuito anche la grande influenza esercitata dall’evoluzionismo sia sul positivismo italiano, soprattutto Spencer, sia sul funzionalismo. Tale influenza determinò un cambiamento di interesse nell’ambito della ricerca psicologica. Al centro degli studi veniva dunque posta la personalità del singolo a cui veniva riconosciuta la capacità di modificarsi in rapporto all’ambiente. La personalità finiva così per perdere il carattere di staticità che l’aveva contraddistinta fino a quel momento per assumere quello di dinamicità.
Seguendo l’esempio di Ribot, le teorie sulla personalità elaborate da Ferrari erano il frutto di studi effettuati sui malati di cui aveva avuto modo di occuparsi all’interno dei manicomi nei quali aveva svolto la sua attività di medico psichiatra. Primo fra tutti lo studio della Influenza degli stati emotivi sulla genesi e sullo sviluppo dei deliri e di alcune psicosi pubblicato sulla ‹‹Rivista sperimentale di Freniatria›› nel 1901. In questo studio, infatti, lo psichiatra reggiano volendo dimostrare la sua teoria sugli effetti che la variabilità psichica individuale aveva sulla strutturazione delle sindromi psicopatiche, finiva anche per ricostruire i criteri di formazione della personalità sana e malata.
Ferrari, dimostrandosi ancora una volta un grande osservatore e un attento conoscitore di tutto ciò che avveniva al di fuori dell’Italia, in linea con Freud, individuava l’origine della personalità nel “subcosciente” o “subliminale”.
Sebbene lo psichiatra reggiano non lesinasse critiche all’opera dello psicanalista austriaco, criticando soprattutto il suo carattere pansessuale, gli riconosceva, però, il grande merito di essere stato il primo a sistematizzare e ad unificare le osservazioni di medici, di psicologi e di letterati e di renderli così materiale fruibile per la psicologia scientifica. Il “subcosciente” e la sua influenza esercitata sulle azioni e sui comportamenti degli individui, infatti, pur essendo di “osservazione comune” prima di Freud nessuno si era interessato a studiare né come tale influenza avvenisse né quale fosse la sua origine . Ferrari riconosceva che, come aveva sottolineato lo psicanalista austriaco, l’attività cosciente non era che una minima parte della personalità organica e che anzi la maggior parte dell’attività umana dipendesse da fenomeni che avvenivano al di sotto della soglia di coscienza.

La coscienza infatti illumina distintamente soltanto ciò che non è ancora abbastanza organizzato in noi, come dice Spencer, abbastanza sistematizzato per funzionare in modo indipendente; ora, ciò che è meglio organizzato è il risultato del temperamento che abbiamo ereditato, poi delle abitudini acquisite da, ad un tempo, ciò che ha più forza su di noi e di cui abbiamo meno coscienza, ed è noi, e trasmesse a quell’insieme di essere viventi che costituisce il nostro organismo.
Ora è in questo fondo bene organizzato che giacciono i germi della personalità sana, come quelli che costituiranno la personalità delirante .

La personalità veniva così legata indissolubilmente al subconscio al quale veniva riconosciuto di essere da un lato la sede “fisica”dei germi della personalità stessa e dall’altro la base dalla quale poi si ergeva la struttura della personalità.
Subconscio, parte mal distinta, subliminale, corrente di coscienza diverse, erano le terminologie usate da Ferrari per indicare ciò che stava al di sotto della soglia di coscienza. Questa difficoltà da parte dello psichiatra reggiano di far uso di un unico termine può essere interpretata come il frutto dell’ambivalenza che stava alla base dell’idea che lo stesso Ferrari aveva di ciò che avveniva al di sotto della coscienza stessa . Da un lato definendola mal distinta e indifferenziata e considerandola come il punto di convergenza di esperienze filogenetiche e ontogenetiche, Ferrari si ricollegava ai temi cari al positivismo italiano in generale e in particolare soprattutto alla “legge dell’indistinto” di Ardigò. Dall’altro, facendo propria la teoria della “corrente della coscienza” di W. James, lo psichiatra reggiano affermava che la nostra coscienza doveva essere considerata «come qualche cosa che continuamente si svolge, per le azioni dell’ambiente sulla nostra sensibilità o per le reazioni che la nostra personalità fisico-psichica, quale risulta per il fatto della eredità e dell’educazione .» L’agire della corrente avveniva quasi interamente al di sotto della coscienza ed era così sottratta al controllo dell’attenzione. «La vita mentale dell’individuo è alimentata continuamente da questa corrente sotterranea; la quale vive a sua volta e si ricostituisce ad ogni momento con gli elementi che derivano da tutte le forme di sensibilità fisica e psichica dell’individuo .» Era in questo momento che l’attenzione non più occupata poteva dirigersi sulla “corrente del pensiero” rendendo tangibile la duplicità della corrente. Gli eventi della vita a volte, però, facevano sì che l’individuo si dovesse opporre al fluire della corrente del suo pensiero e così grazie alla volontà, a cui spettava il compito di determinare e dirigere l’ordine di associazione di una seconda serie di associazioni che si sovrapponevano a quelle della corrente profonda, la persona riusciva ad opporsi al fluire della corrente stessa. Una volta che la “seriazione” avveniva in modo automatico la volontà si limitava a dare l’input per attivare il procedimento che poi si snodava autonomamente. Era in questo momento che l’attenzione non più occupata poteva dirigersi sulla corrente del pensiero rendendo tangibile la duplicità della corrente; e, a seconda dell’interesse predominante in quell’istante, a seconda del momento psicologico, o l’Io profondo giudicava (severamente d’ordinario) la persona superiore[…]; o a questa si affacciava la visione di tutta una vita diversa, più rispondente ai bisogni, alle appetizioni sue e che continuava a svolgersi e a modificare forse ogni modo di lui di essere e di sentire . L’uomo era dunque duplice ma di questa sua duplicità solo raramente era consapevole nonostante fosse proprio la parte meno conosciuta che più influenzava il suo vivere.
Ma una volta che l’individuo ne è venuto a conoscenza quale deve essere il suo atteggiamento? La posizione di Ferrari anche a questo riguardo non era ben definita. Da un alto infatti invitava le persone ad usare la propria volontà cosciente affinché imprimesse maggiore forza a quegli atti che si muovevano nella stessa direzione dell’incosciente ostacolando invece quelli che andavano in altre direzioni. In quanto, facendo propria la teoria esposta da James in The Will to belive, la “fiducia in sè”, elemento essenziale per la realizzazione di ogni nostra azione, nasce solo quando vi è perfetta consonanza fra i suggerimenti dell’incosciente e i movimenti e gli atti della vita cosciente . Dall’altro occorreva, però, conoscerlo per poter avere un controllo sul suo svolgimento in quanto non tutto quello che proveniva dall’incosciente aveva una valenza positiva per l’individuo , e soprattutto perché era ciò che regolava il nostro adattamento alle condizioni del cosmo. Tale adattamento non avveniva però seguendo i dettami del “sensismo puramente passivo” ma secondo “l’empiricismo radicale” di James secondo il quale i materiali del nostro pensiero provenivano sì dall’esterno ma la forma che l’individuo gli dava era quasi interamente dovuta alla sua spontaneità personale . Elementi costitutivi di questa spontaneità erano l’eredità e l’educazione che determinavano le leggi che stavano alla base dell’associazioni delle nostre idee.
Ma noi dunque cosa possiamo fare? «Ma noi possiamo quasi sempre rendere piacevoli per il nostro pensiero certe vie associative, e ad altre costituire le condizioni di rito meno favorevoli. Questo possiamo contentarci di fare; ma questo dobbiamo fare .»
Se il fondo organico racchiudeva in sé i germi della personalità era invece nella cenestasi dove giacevano il fondo e l’origine del senso della personalità stessa e per questa ragione ad ogni alterazione della cenestasi stessa corrispondeva una profonda modificazione della coscienza dell’io . Al ruolo fondamentale per la struttura della personalità riconosciuto al subliminale e alla cenestasi Ferrari affiancava quello altrettanto importante ricoperto dalle emozioni, dai sentimenti, dall’affettività e dagli istinti.
L’importanza del ruolo svolto dal fattore emozionale e affettivo nasceva dal fatto che data l’esigua differenziazione del fondo organico, le sue uniche manifestazioni non potevano che essere o emozionali o affettive . Le emozioni finivano così per ricoprire un ruolo di grande importanza nello sviluppo della personalità in quanto forze dinamiche. La prima conseguenza di tale ragionamento riguardava il ruolo ricoperto dall’intelligenza nella definizione del concetto di “io”. L’intelligenza veniva considerata come una parte e non più come tutta la vita mentale il cui vero movente ora venivano considerati i sentimenti. Erano così gli stati affettivi ad agire sull’intelligenza ma l’effetto della loro azione sulla personalità psichica variava a seconda delle diverse predisposizioni, della diversa resistenza organica e dei diversi condizionamenti, soprattutto quelli ambientali, a cui i vari individui dovevano sottostare.

Il metodo della colonizzazione libera.

L’idea base attorno alla quale era stata pensata e organizzata la vita all’interno della villa si fondava sulla convinzione di Ferrari che i ragazzi pervertiti non erano aggredibili che per la via del subcosciente. All’educatore veniva assegnato il ruolo fondamentale di riuscire ad influenzare il subconscio grazie alla sua capacità di instaurare un rapporto interpersonale con loro basato sulla fiducia e sulla comprensione e quindi secondo la teoria di Ferrari, che lo legava indissolubilmente alla personalità, anche la personalità stessa dei ragazzi. In questa sua opera di correzione delle inclinazioni “amorali”, l’educatore era aiutato dall’influenza positiva dell’ambiente appositamente studiato per stimolare i ragazzi, dallo svolgimento di un’attività lavorativa che si pensava potesse agire sul senso della personalità grazie alle sue valenze curative e dall’impartizione dell’educazione morale e intellettuale attraverso la vita sentimentale.
Il punto di partenza di quella che Gabriella Francia nel suo dettagliato resoconto sull’esperimento della Colonizzazione libera chiamò “la psicoterapia pratica contro le tendenze amorali e criminali dei giovani” era l’osservazione e lo studio dei giovanetti al fine di evidenziare quelle che erano le loro caratteristiche e i loro bisogni individuali e, a seconda dei dati raccolti, elaborare il procedimento più idoneo ad ognuno di loro. Infatti, come sottolineava la stessa Francia, nonostante molti dei difetti riscontrati nei giovanetti presenti nella villa fossero comuni a tutti i ragazzi della loro età e del loro ceto, ogni individuo ne aveva però alcuni che lo caratterizzavano e che erano una sua specialità . Difetti, pregi, bisogni che solo una osservazione attenta e continua che tenesse in considerazione anche dei particolari all’apparenza meno rilevanti era in grado di evidenziare. Lavoro non facile ma necessario soprattutto all’interno di una struttura i cui ospiti oltre ad essere individui di età, sesso e mentalità diverse e quindi già per questo non classificabili, vivevano anche in un regime che oggi definiremmo di semi libertà e senza vigilanza, particolarmente adatto a far nascere quelle reazioni e quelle dinamiche complesse che solo la vita in tutte le sue forme poteva preparare.
A differenza di quello che si verificava nella maggior parte degli altri istituti e dei carceri per minori, all’interno della villa l’educazione morale e intellettuale avveniva seguendo un criterio individuale.

L’educazione morale

Ferrari era fermamente convinto che per essere efficace e sortire dunque i risultati sperati l’insegnamento morale non dovesse mai essere impartito ex chatedra, ma dovesse risultare dagli incarichi che di volta in volta venivano affidati ai ragazzi per testare la forza di dominio che andavano gradualmente acquistando sui loro impulsi . Per il raggiungimento di tale opera educativa occorreva essere in grado di sfruttare le qualità e di saper trasformare gli elementi perturbatori in sorgenti di azioni più corrette suscettibili di consolidarsi in abitudini .
Ferrari e la Francia erano consapevoli che numerosi ostacoli si potevano frapporre all’impartizione di tale educazione. Ostacoli che solo la messa in pratica dell’esperimento poteva palesare e aiutare, in questo modo, gli operatori o a prevenirli o a rivedere e rielaborare le teorie o le metodologie che li avevano causati. A tal fine la Francia nell’articolo sulla colonizzazione aveva riportato ed elencato le problematiche nate dal trattamento morale e soprattutto i rimedi da loro adottati per raggirare e ovviare gli ostacoli sorti all’interno della villa. Innanzitutto la Francia sottolineava come gli impedimenti potessero avere una duplice matrice, da un lato infatti potevano essere causati dalle caratteristiche fisiche e mentali dei vari giovanetti, dall’altro potevano invece essere il frutto degli esiti degli effetti secondari che la vita in comune portava inevitabilmente con sé .
Il più pericoloso per una buona riuscita dell’azione morale e quindi il primo da dover “rimuovere”, era legato alla formazione di gerarchie di potere all’interno della comunità. La vita in comune a lungo andare sviluppava inevitabilmente dei sentimenti di repulsione o di affinità tra gli individui. Sentimenti relazionali considerati fonte di stimoli assai importanti per i cosiddetti “normali” acquistavano un valore non indifferente per il bilanciamento degli stessi stimoli in individui presentanti delle turbe del carattere o un basso livello mentale. Per questo motivo diventava di grandissima importanza tenere sotto controllo il tipo di relazioni che si sviluppavano tra i ragazzi . Da qui nasceva l’esigenza e la necessità di una osservazione attenta, continua e in fieri. Infatti a prima vista fra i ragazzi sembrava prevalere un sentimento di indifferenza ma un’osservazione più attenta aveva rivelato agli operatori che dietro alla indifferenza, apparente alcuni giovanetti celavano timore e soggezione nei confronti di uno o più compagni mentre altri erano caratterizzati da un profondo egoismo che si manifestava attraverso impulsi prepotenti che contenevano solo in presenza di un “superiore”. La nascita di queste gerarchie era da tenere in massima considerazione in quanto assicurando qualsiasi tipo di complicità era una delle forze che maggiormente si opponevano ai tentativi di educare la morale dei ragazzi. «Disfare queste piccole leghe[…]era lavoro urgente, se non preliminare, ed era pure una prima lezione di sincerità ed un primo richiamo alla coscienza di questi individui verso la fiducia di qualcuno, moralmente superiore ad essi .»
All’educatore spettava, infatti, il compito di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia e di confidenza con i ragazzi. Per il raggiungimento di tale scopo due erano le vie percorribili secondo la Francia. La prima consisteva nel far convergere la propria azione con gli interessi che ordinariamente spingevano il ragazzo ad agire in modo tale che il fanciullo fosse portato ad appigliarsi alla nuova fonte di sentimenti piacevoli che l’educatore sapeva fornirgli. Il ragazzo finiva per intraprendere, in questo modo, la strada verso un ordine di emozioni insolite e superiori rispetto a quelle che era abituato a procurarsi . Nel caso in cui la via appena elencata non si fosse rivelata sufficiente, l’educatore poteva usufruire della seconda che consisteva nell’assecondare qualcuna delle inclinazioni devianti la cui soddisfazione finiva per dare la possibilità di individuare i derivativi più adatti ad una determinata personalità .
Tale modo di procedere determinava la nascita di un conflitto fra l’intelligenza del ragazzo che lo faceva sentire colpevole davanti all’opinione dell’educatore, se non ancora di fronte alla propria coscienza, stimolandolo così a reagire con modalità aggressive; e la speranza di essere aiutato e in qualche modo giustificato. Il sorgere di questo conflitto era di grande importanza perché era ciò che spingeva il ragazzo verso una completa confessione sancendo in questo modo la nascita del primo legame confidenziale e rispettoso con l’educatore. Allo stesso tempo assicurava a quest’ultimo la possibilità di esercitare un grande ascendente sul ragazzo primo e necessario passo verso una possibile rieducazione . Come sottolineava la stessa Francia e come è stato ampiamente documentato nelle pagine precedenti, questo modo di procedere era uno degli elementi più innovativi apportati dalla Colonia al campo della rieducazione minorile. Normalmente, infatti, negli altri istituti e anche all’interno delle scuole i bambini, che oggi definiremmo devianti e che allora la Francia chiamava “i peggiori”, venivano isolati e non vedevano dei loro educatori o insegnanti «che il viso severo che li allontana. Da cui risulta che un insegnate o un direttore non conoscerà mai dei suoi discepoli che il lato meno buono e li avrà nemici nell’opera che egli crede di moralizzazione .»
L’azione dell’educatore era affiancata da un intervento mirato a dividere fisicamente i ragazzi legati fra loro. Il procedimento adottato era quello di distribuire i fanciulli in dormitori diversi in modo tale che si trovassero a contatto con persone in grado o di non assecondarli o di denunciarli e di assegnargli mansioni lavorative che lentamente li portavano alla separazione.
L’educazione morale oltre a non essere mai impartita ex catedra non veniva mai impartita facendo uso di metodi segregativi o punitivi nel senso usuale del termine ma applicando l’isolamento motivato. L’isolamento consisteva nel lasciare il ragazzo a riflettere su quanto da lui commesso cercando di dirigerlo verso un cerchio di idee favorevoli alla moralità grazie all’operato dell’educatore.
Di grande importanza e effetto e assai innovativo, a mio avviso, era soprattutto il messaggio simbolico che il ragazzo riceveva dall’essere da solo all’interno di una stanza la cui porta non veniva mai chiusa. I ragazzi seguendo quanto scritto dalla Francia non uscirono mai anche se ne avevano la possibilità. Il motivo di questo loro modo d’agire veniva fatto risalire dalla direttrice al fatto che i fanciulli pensavano che non fosse una persona a trattenerli, contro la quale si potesse eventualmente agire con la forza, ma una necessità di cui le loro azioni erano viste come la causa. A riprova di quanto affermato sopra, nei casi in cui era stata sperimentata la stanza chiusa i ragazzi avevano sempre reagito violentemente .
«La parte, però, più interessante del nostro esperimento è quella che riguarda i ragazzi sui 15 o 16 anni .» Per i ragazzi rientranti in questa fascia di età era, infatti, stato possibile fare una prima differenziazione avente come criterio la diversa sensibilità affettiva e non i diversi gradi di mentalità come invece avveniva nella maggior parte dei casi. La distinzione così effettuata era la prova empirica del gran valore che la sensibilità aveva sulla caratterizzazione della personalità e, in un certo grado, anche sulla mentalità. Questi ragazzi infatti pur presentando all’apparenza lo stesso patrimonio intellettivo possedevano della moralità, o meglio di ciò che si poteva e ciò che non si poteva fare, dei concetti completamente diversi ai quali corrispondevano dei comportamenti e delle modalità di gestire i rapporti relazionali altrettanto differenti. Proprio questa grande differenza fra gli uni e gli altri non faceva altro che convalidare e sottolineare nuovamente, se mai ce ne fosse stato bisogno, la necessità sia di interventi mirati e individuali, sia di seguire l’evolversi dell’esperimento lungo i suoi stadi di evoluzione e di adattamento .
Tre erano le categorie in cui era stato possibile suddividere i ragazzi a seconda dei loro modi di esternare le loro tendenze e i loro comportamenti al di fuori della norma.
Nella prima categoria rientravano i giovanetti che apparentemente avevano dei comportamenti normali. In presenza dell’educatore lavoravano, ubbidivano e ragionavano seguendo un filo logico ma appena si rendevano conto o della assenza dell’educatore o di avere a che fare con persone deboli, mutavano il loro modo di agire diventando prepotenti e aggressivi . Per riuscire a modificare questo loro modo di agire era di fondamentale importanza che si sentissero soggetti a qualcuno.
Degli espedienti studiati per mantenere vivo il loro sentimento di soggezione due si rivelarono assai proficui: l’idolatria che questo tipo di ragazzi nutriva nei confronti dell’educazione in quanto avevano in generale grande stima della loro furbizia e della loro intelligenza e l’avergli affidato piccoli incarichi di fiducia . Gli incarichi assegnati erano vari dall’essere il custode delle chiavi di qualche camera in cui era depositato del materiale, fino a quello di garantire la sicurezza e di vigilare sul comportamento di alcuni discoli e impulsivi e, in caso di necessità, di moderarli con modi affettuosi. I ragazzi alla sera dovevano poi relazionare all’educatore sulla loro giornata e su quelli dei bambini a loro affidati. Questo modo di agire mirava a raggiungere un doppio intento: da un lato la relazione che il giovanetto doveva tenere sui piccoli a lui affidati molte volte si trasformava in uno scambio di impressioni grazie al quale i concetti morali del fanciullo diventavano più chiari e più completi e i suoi modi di conseguenza più miti. Dall’altro la relazione della sua giornata si trasformava in un racconto avente come soggetto tutto quello che aveva pensato del suo agire e di quello degli altri individui assai simili a lui, favorendo in questo modo sia l’autocorrezione sia la crescita della confidenza e della fiducia nei confronti dell’educatore. Infatti, crescendo la fiducia nei confronti di chi ascoltava i suoi discorsi e si interessava alla sua vita, il ragazzo finiva così per confessare anche le proprie mancanza e per sottoporre, senza volerlo, la propria volontà alla guida dell’educatore . L’esperimento appena descritto oltre a sancire la validità del metodo terapeutico, era anche una prova empirica della validità della teoria sposata da Francia e Ferrari sul modo di impartire l’insegnamento dei valori morali ad individui che o perché di età ancora immatura o perché anormali in senso lato (del carattere, deficienti, frenastenici,ecc…) non avevano ancora una moralità sviluppata. «Prima di subire l’ascendente che una massima morale esercita su un individuo normale, la cui preparazione ad intuirne la verità e a subirne la necessità è congenita, gran parte degli anormali ha bisogno costantemente dell’azione personale di qualcuno che, per la sua mentalità e per i suoi bisogni affettivi rappresenti la perfezione .»
Della seconda categoria facevano invece parte quei fanciulli che manifestavano reazioni momentanee ma inattese e incoercibili . Proprio questa loro peculiarità rendeva all’inizio l’educazione di questi individui assai difficoltosa. Lo studio del ragazzo riportato come esempio dalla Francia sottolineava due aspetti assai importanti al fine della rieducazione. La paura, considerata l’emozione inibitrice per eccellenza dal punto di vista morale, aveva dimostrato di essere un valido freno solo momentaneamente e di avere un valore negativo nel campo dell’educazione. Era dunque necessario aiutare il ragazzo tenendo in considerazione le sue passioni assecondandole per quanto possibile; nel caso citato dalla Francia si sfruttò la doppia passione per i cibi e per i vestiti, e dimostrandogli fiducia, affinché le sue inclinazioni fossero abbastanza soddisfatte e allo stesso tempo si destassero in lui le sue forze assopite o ne nascessero delle nuove che lo avrebbero portato ad una maggiore coscienza della propria responsabilità e dei propri obblighi .
L’altro aspetto da tenere in grande considerazione era legato all’importanza di non lasciarsi trarre in inganno dall’euforia che poteva nascere all’apparire dai primi miglioramenti. Molte volte in questo stadio della rieducazione l’equilibrio raggiunto era così fragile che era stata sufficiente la comparsa di uno stimolo inconsueto, come una diminuzione di fiducia da parte dell’educatore o la tendenza comune a tutti i fanciulli a fare cose insolite quando nell’ambiente succedeva qualche cosa di insolito, a far riaffiorare le inclinazioni devianti .
Nella terza categoria rientravano, invece, quei giovanetti che erano in grado di comprendere quello che potevano fare e quello che non potevano fare solo in una cerchia ristrettissima di casi che, in alcuni fanciulli, si limitavano addirittura ad uno o due .
Interessante un caso portato come esempio dalla Francia dove un ragazzo soggetto a periodi di irritazione e di depressione della durata di due tre giorni durante i quali diventava molto aggressivo ma una volta trascorsi non era pericoloso. Durante il periodo di isolamento al quale era stato sottoposto a causa del primo atto violento commesso all’interno della colonia, grazie al tempo trascorso con lui e ai continui inviti a spiegare il suo modo di agire, confessò la causa del suo comportamento: “in certi momenti si sentiva voglia di battere e non si sapeva dominare” . Il metodo adottato consisteva nell’aver persuaso il ragazzo che il suo desiderio di picchiare fosse uguale a qualsiasi altro tipo di male e in quanto tale quando non si sentiva bene doveva ricorrere, come avrebbe fatto per il mal di denti, all’infermiera. Della prima crisi si accorse il personale ma il ragazzo non presentò nessuna obbiezione alla terapia per lui adottata. Per le crisi successive fu sempre il ragazzo a presentarsi spontaneamente e il suo sforzo veniva sempre aiutato e rinforzato consentendogli di non fare dei lavori ai quali si era piegato a fatica e con qualche regalo. A questo trattamento corrisposero una condotta sempre migliore e più attiva nei periodi buoni e alla rinascita di sentimenti di simpatia nei confronti dei più deboli. Soprattutto l’intelligenza pratica si acuì tanto che da riottoso al lavoro iniziò a svolgere mansioni di propria iniziativa. Il sentirsi utile fu una delle molle che determinarono in lui i migliori cambiamenti .

Il lavoro come mezzo curativo.

Ferrari, come stavano a testimoniare i numerosi esperimenti lavorativi effettuati all’interno dei manicomi da lui diretti, credeva fermamente che lo svolgimento di un lavoro, consono alle caratteristiche e alla personalità del malato, potesse apportare delle modificazioni al suo modo di manifestare le sue stesse tendenze. Queste sue convinzioni maturate in campo psichiatrico erano state rafforzate dall’apertura, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, di istituti non solo per deficienti ma anche per giovanetti criminali basati sul lavoro agricolo e industriale. Forte delle sue convinzioni e dei feedback positivi che gli giungevano dalle esperienze fatte al di fuori dell’Italia, lo psichiatra reggiano aveva ideato la vita all’interno della villa in modo tale che fosse possibile utilizzare il lavoro come mezzo curativo così nel significato psicologico come in quello morale della parola . Oltre ad avere un valore educativo, per lo psichiatra reggiano, il lavoro doveva avere anche un valore sociale. Ai giovanetti all’interno della villa dovevano essere insegnate delle attività lavorative che gli permettessero di entrare nel mercato del lavoro una volta usciti e di essere così autosufficienti e quindi di non pesare più sulla società. Peso che continuavano ad avere in quanto degenti della Colonia e che le mansioni svolte al suo interno avevano come fine quello se non di abbatterlo almeno di ridurlo.
Dalla personalità e dalle capacità dell’educatore di riuscire a dominare quella del ragazzo, Ferrari e la Francia facevano dipendere la buona riuscita del progetto dato che i ragazzi si erano dimostrati molto più sensibili alla persona che applicava il sistema che al sistema stesso.
Il terapeuta nell’esercizio della sua funzione poteva avvalersi di due metodi, derivativo e simbiotico, che Ferrari si era soffermato a descrivere nell’articolo pubblicato nella ‹‹Rivista di psicologia›› nel 1907 . «Infatti egli può fare una cura derivativa, cercando di incanalare le tendenze che sono troppo vigorose per adattarsi alle ornières tra cui si svolgerebbe normalmente la vita di quel giovanetto; oppure può tentare una terapia simbiotica, adattando, cioè, a mestieri utili (anche se sono fuori dal comune e possono urtare i pregiudizi della morale corrente) le tendenze altrimenti dannose .»
Delle due terapie la derivativa era considerata la più semplice da applicare in quanto, una volta evidenziate quelle che erano le tendenze fondamentali del giovinetto che minacciavano di pervertirsi, il lavoro da svolgere era circoscritto alla capacità di trovare un impiego che riuscisse ad assorbire tutto l’interesse che il giovane riversava in quelle. Con questa terapia potevano essere dunque trattati i giovani in cui “l’ago della parabola dell’evoluzione criminale”, precedentemente descritta, si trovava nel punto in cui la caratteristica principale era la nascita dell’interesse per l’attività criminale .
L’applicazione della terapia simbiotica risultava più problematica e più irta di insidie in quanto la realizzazione del suo trattamento dipendeva dalla capacità di riuscire a mettere a tacere il bisogno e il piacere che stavano alla base delle azioni criminose compiute dai ragazzi. Gli ostacoli maggiori e più difficili da superare per l’educatore erano proprio questo piacere che i giovanetti provavano nel compiere le azioni criminose e il fatto che le medesime azioni fossero, allo stesso tempo, immediatamente comode per i fanciulli .
Pur presentando caratteristiche diverse l’uso di un metodo non escludeva l’altro ma anzi il loro utilizzo ottimale consisteva nel alternarli, per periodi lunghi o brevi, a seconda dalle necessità dettate dai caratteri psicologici individuali.
La vita stessa all’interno della colonia era stata progettata in modo tale che i ragazzi, essendo il corpo di “lavoro” formato dalla direttrice, da una sola infermiera e da qualche malato cronico, fossero costretti ad un lavoro continuo per la pulizia e la manutenzione della villa. A questo genere di mansioni si affiancavano quelle legate ai lavori campestri, alle varie attività di sorveglianza e di custodia .
Affinché il lavoro riuscisse a svolgere la sua funzione terapeutica, era necessario che il suo svolgimento fosse consono alle caratteristiche di ogni soggetto. Caratteristiche che non dovevano essere evinte solo dalla mentalità dei fanciulli ma anche dalla loro affettività. Infatti se il lavoro svolto fosse riuscito a soddisfare i bisogni sentimentali dei giovanetti avrebbe avuto sulla loro educazione un doppio effetto positivo. Da un lato, risultando gradito, sarebbe stato più facilmente continuato, dall’altro avrebbe fornito una possibile via di scarico agli impulsi congeniti la cui presenza era l’ostacolo maggiore da superare per riuscire ad ottenere una condotta stabile e composta .
Ferrari e la Francia, quando parlavano di individui in grado di svolgere lavori utili, si riferivano a quei fanciulli che venivano considerati anormali o del sentimento o della volontà o del carattere. In quanto tali disponevano di un buon potenziale di energie ma che non sapevano sfruttare al meglio perché o ne avevano una coscienza limitata o solo saltuariamente ne riconoscevano le potenzialità o per la loro tendenza costante a farne uso per raggiungere scopi in contraddizione con le leggi che regolavano i rapporti sociali e individuali.
Al fine di riuscire nell’opera di rieducazione dei fanciulli diventava di primaria importanza non solo eccitare le possibili energie latenti ma anche «regolarizzare l’esistenza di quelle energie latenti togliendone il sovrappiù o incanalandolo verso finalità utili; e fare attenuare o spegnere il loro egoismo prepotente da istinti o desideri nuovi che gli contrastino insuperabilmente il passo….In maniera che la risultante fosse il maggior equilibrio delle forze esclusa ogni virtuosità .»
Essendo presenti nella villa fanciulli con caratteristiche distintive assai diverse, risultava praticamente impossibile assegnare a tutti la medesima mansione. Per ovviare a questo problema all’interno della Colonia furono inserite attività lavorative che non richiedevano una coscienza evoluta per essere apprezzati ma che dovevano avere attrattive primitive atte a risvegliare gli istinti più radicati nell’uomo quali ad esempio la attività campestri la cui influenza aveva dei benefici notevoli su gli individui eccitabili.
La grande diversità dei fanciulli, unito ad uno dei principi che stavano alla base della ideazione della colonia secondo il quale era necessario garantire ai bambini la coscienza di essere completamente liberi di agire, erano i motivi di fondo che stavano alla base della decisione presa dai dirigenti dell’istituzione di lasciare che i fanciulli scegliessero l’attività da svolgere secondo il loro gusto personale. L’intervento degli assistenti si rese necessario solo nei casi in cui i ragazzi abbandonavano ogni tipo di attività lavorativa a causa di un eccesso o di indolenza o di spirito di contraddizione .
Inizialmente i ragazzi venivano lasciati liberi di cambiare la mansione lavorativa ogni qualvolta lo desiderassero per lasciarli altrettanto liberi di provare e sperimentare tutti gli stimoli che gli venivano forniti dagli assistenti. In questa fase di sperimentazioni il compito dell’educatore non era quello di interferire nelle scelte dei giovanetti ma bensì di assecondarlo in modo tale che i ragazzi scegliessero da soli il lavoro più idoneo alla loro mentalità. Una volta trovato i fanciulli vi si dedicavano senza più sentire la necessità di cambiare mansione continuamente .
Oltre alla terapia simbiotica e derivativa menzionata in precedenza, l’educatore poteva servirsi di escamotages grazie ai quali il ragazzo veniva aiutato, senza che ne fosse consapevole, a migliorare le sue capacità lavorative. Come si verificava nel campo dell’educazione morale anche nel campo lavorativo se si volevano ottenere dei risultati dai ragazzi occorreva far sentire loro di non essere un numero nella collettività ma che per l’educatore essi avevano un valore. Uno dei metodi migliori per ottenere questo scopo era quello di affidargli la direzione di qualche lavoro in cui doveva trattare i suoi “dipendenti”, solitamente fanciulli o di età minore o con una deficienza mentale più accentuata della sua, come lui veniva trattato dagli educatori: aiutarli, consigliarli, domandare loro spiegazioni prima di attribuirgli una mancanza e annotare i miglioramenti e poi riportarli al loro referente. Il dato interessante emerso consisteva nel fatto che individui che a mala a pena erano in grado di frequentare la terza elementare fossero degli acuti osservatori e che individui che si erano dimostrati violenti e impulsivi quando si erano trovati a vivere in condizioni di passività o di eccessiva compressione dei loro istinti, nel nuovo ambiente e con i nuovi stimoli forniti avevano mutato il loro atteggiamento violento in uno più umano di protezione .
Non sorvegliare i ragazzi durante lo svolgimento delle loro mansioni si verificò un’altra tattica assai proficua. Una volta spiegato loro in che cosa consisteva il lavoro che dovevano compiere li si lasciava da soli. All’inizio numerose furono le diserzioni e i lavori non portati a termine. I ragazzi che avevano abbandonato il loro lavori vi venivano riportati senza redarguirli e anzi venivano incitati a riprendere la loro attività. Se chi li dirigeva era disposto a ricondurli anche tre o quattro volte alla attività che avevano abbandonato questa tattica si dimostrava particolarmente proficua perché aiutava a rendere più perfetta l’esecuzione e a migliorare le abilità di ciascuno senza far uso di mezzi coercitivi che nella maggior parte dei casi avrebbero finito per allontanare i ragazzi .
I risultati ottenuti grazie alla fiducia concessa ai ragazzi non si fermavano al solo campo pratico ma si estendevano anche a quello morale facendo nascere una coscienziosità e un amore tale per una data mansione che una volta manifestatisi rendeva assai difficile il mutamento della attività lavorativa da parte dei ragazzi. Un esempio lampante erano le manifestazioni di gelosie per gli strumenti adoperati o per alcuni luoghi di lavoro.
L’attività lavorativa scelta e il modo in cui veniva svolta non si limitava solo a far ricadere i suoi effetti positivi sulla condotta morale ma era importante anche per evincere i caratteri di moralità propri di un individuo essendo il lavoro una delle espressioni più evidenti della personalità. Metodo applicato soprattutto nel campo dei frenastenici dove, prima che venisse sottoposto a qualsiasi tipo di test, uno dei caratteri dal quale si poteva formulare un giudizio su un soggetto era la sua capacità di adattabilità ad un’occupazione qualsiasi tenendo, ovviamente, in debita considerazione il suo grado di deficienza mentale. Veniva così evidenziato ancora una volta come fosse importante sia per una corretta chiave di lettura degli individui in generale e degli anormali in particolare sia per trovare una corretta soluzione del problema un approccio basato sull’individuazione e sulla iterazione delle varie forze in campo .

Educazione intellettuale attraverso la vita sentimentale.

Anche l’educazione intellettuale come quelle morale, all’interno della villa, veniva impartita partendo dagli stati affettivi. Seguendo una delle convinzioni più radicate in Ferrari, secondo la quale nella valutazione dei ragazzi troppa importanza veniva attribuita alle capacità intellettuale a discapito di quelle affettive che erano invece in vero centro propulsore e quindi rilevatore della personalità e della capacità dei ragazzi, all’interno della Colonia il metodo usato partiva dagli stati affettivi per riuscire a raggiungere un progresso anche in campo intellettuale.
I maggiori miglioramenti erano previsti soprattutto per coloro che presentavano, come caratteristica predominante, uno squilibrio affettivo. La tecnica usata era quella di cercare da un lato di riuscire ad incanalare e riordinare le tendenza che danneggiavano l’armonia della personalità dei fanciulli e dall’altro di rendere duratura l’associazione fra le emozioni normali suscitate e i rispettivi pensieri. I pensieri, sorti secondariamente, divenivano predominanti contribuendo in questo modo alla stabilità degli stati affettivi stessi e all’apertura di sbocchi pratici per l’attività intellettuale .
Trattando il tema della importanza dello spirito di iniziativa la Francia toccava , a mio avviso, un tema caro a Ferrari e una delle innovazioni più importanti da lui apportate nello studio dell’anormalità: indipendentemente dal loro grado di malattia o anormalità gli individui continuavano ad avere, anche se in misura minima, degli aspetti di normalità.
Il richiamo, anche nel campo dell’educazione intellettuale, era allo studio e alla conoscenza dell’individuo nelle sue particolarità.
Particolarità quali i sentimenti di amor proprio, di vanità e di affezione che diventavano di vitale importanza soprattutto quando gli interessi, a cui si cercava di rendere sensibili i ragazzi, non potevano essere associati a nulla che potesse essere per loro uno stimolo valido. A questo punto, grazie alla buona volontà e alla sensibilità dell’educatore, era possibile “attaccare” gli interessi che si volevano suggerire a quello, tra i sentimenti sopra citati, a cui il ragazzo era più sensibile .

Quando tale associazione sia stabilita, si vedrà indubbiamente, come abbiamo visto noi, il lavoro mentale orientarsi per via che vi abbiamo tracciata e perfezionarsi e divenire ingegnoso perché trova così, non il solo compenso dell’istinto soddisfatto, ma tutti i compensi morali e materiali che vi accumuliamo intorno, esagerando, se occorre, l’apprezzamento, finché l’abitudine non si formi. Noi avremo così degli individui che imparano a pensare e ad agire perché li abbiamo educati, innanzi tutto, a sentire .

Il passaggio dalla soddisfazione delle tendenze amorali a quello delle inclinazioni normali era uno dei momenti più critici per il buon esito della terapia. Nonostante l’educatore cercasse di aiutare i ragazzi ad inibirsi con il suo aiuto tenendolo il più possibile nell’ambito della sua sfera di influenza per intere settimane il subcosciente dei ragazzi si ribellava. In alcuni casi i sogni diventavano agitati, in altri i ragazzi diventavano molto irrequieti e altri ancora, diventati ipersensibili, cadevano nella disperazione più profonda per un non nulla. Il metodo migliore da adottare si era rivelato quello di non dare troppa importanza a questi fenomeni e in alcune occasioni volgere in scherzo l’accaduto.

Ma una verità esce da questa nostra esperienza: ed è che dopo l’educazione sensoriale, la quale, naturalmente, per i nostri soggetti occupa il primo posto in ordine di tempo e di necessità, è da collocare l’educazione degli istinti, e per conseguenza l’azione diretta, con mezzi strettamente adatti all’individuo pel il quale sono disposti, sulle emozioni e sui sentimenti legati a questi istinti. Si può e si deve contare sul carattere di transitorietà che alcuni istinti hanno e sulla possibilità, mediante una serie di atti o di suggestioni, per via d’esempio o di persuasione, di legare alle soddisfazioni di quelli che rappresentano la parte migliore dell’individuo, emozioni e sentimenti abbastanza forti, da renderli predominanti. Non bisogna soprattutto trascurare gli stati mentali connessi a questi stati affettivi, poiché il loro valore può essere tale da indurci a constatare, non solo un progresso morale, ma altresì un progresso intellettuale nella persona in cui si verificano .

Conclusioni

L’esperimento di colonizzazione libera iniziato nel 1910 a Castel Guelfo per mezzo del Patronato dei Pazzi Poveri terminò la sua attività, con grande rammarico da parte di Ferrari, il primo novembre del 1914 fondamentalmente e ufficialmente per la mancanza di fondi. Fondi che erano stati sempre scarsi e che la guerra incombente aveva reso pressoché nulli. La ristrettezza economica era stata una caratteristica che aveva accompagnato l’esperimento fin dalla sua nascita al punto che Ferrari, per attuare il suo progetto, si era visto costretto a pagare l’affitto di tasca propria. La mancanza della sicurezza economica aveva fatto sentire i suoi effetti anche a livello dirigenziale dove, non essendo garantito l’avvenire, nessuna delle persone a cui era stata affidata la direzione “osò rimanervi” . Per questa ragione la stessa Gabriella Francia che insieme a Ferrari aveva dato vita all’esperimento dopo due anni di attività aveva lasciato l’incarico di direttrice, anche se almeno per il terzo continuò a dare le direttive generali, per andare a ricoprire il posto di insegnante di pedagogia che le era stato offerto in una Scuola Normale di Sassari . Si ebbe così all’interno della villa un avvicendamento continuo a livello dirigenziale che, dato il ruolo chiave che il direttore o la direttrice si trovavano ad occupare, di certo rallentò e rese più difficoltoso l’attuazione del metodo terapeutico.
Dietro ai problemi di matrice economica se ne nascondevano, però, altri legati al profondo senso di abbandono da parte delle istituzioni che non solo non avevano mai appoggiato la Colonia ma neanche avevano mai manifestato nessun tipo di riconoscimento per il valore dell’opera svolta. Tale atteggiamento aveva fatto nascere in Ferrari rabbia, rimpianto e un sentimento misto di impotenza e rassegnazione che forse più delle ristrettezze economiche lo avevano spinto a chiudere i battenti della Colonia come si evince dalla relazione che Ferrari inviò al Presidente della Deputazione Provinciale di Bologna il 3 dicembre 1914:

Per gli educabili, invece, credo dovrebbe continuare a provvedere il Manicomio, nei modi che le circostanze dimostrano possibili o opportuni. Fra questi, certo, il più ideale sarebbe quello dell’assistenza libera, come abbiamo fatto prima a Castel Guelfo, poi alla Villa Carducci. Ma, sebbene la nostra fiducia nell’eccellenza del metodo sia sempre più fondata e più viva, pure, dopo ormai quattro anni di fatiche, di preoccupazioni, di responsabilità morali e penali gravissime, non allietata mai dal riconoscimento aperto della bontà dell’opera nostra, che solo ha giovato ai nostri piccoli ricoverati e al buon nome del Manicomio, non ci sentiamo più di riprendere la via faticosa per conto del Patronato .

A consolare Ferrari vi erano però i risultati ottenuti, risultati più che soddisfacenti per quanto riguardava sia i frenastenici sia i giovanetti criminali, risultati che nel caso dei giovanetti criminali erano confortati anche dai dati numerici che lo psichiatra reggiano citava nell’Autobiografia con grande orgoglio. ‹‹Dei 18 ragazzi che il Tribunale ci aveva inviati[…]soltanto due isterici sono ricaduti nelle mani della Giustizia (uno dopo aver guadagnato tre medaglie d’argento in guerra per straordinari atti di valore), due sono morti gloriosamente di fronte al nemico; gli altri di ambo i sessi hanno continuato onestamente la loro vita .»
I miglioramenti che andarono oltre ad ogni più rosea aspettativa, come sottolineava la stessa Francia scrivendo le conclusioni dell’esperimento della colonizzazione, furono quelli che si verificarono nel campo dei sentimenti morali dove malati, che fino a quel momento venivano considerati ‹‹refrattari›› a questo genere di fenomeni, impararono ad auto controllarsi e a usare le loro tendenze per raggiungere scopi non più in contrasto con le regole sociali. La Francia, in pieno accordo con Ferrari, riconduceva il raggiungimento di questi esiti positivi al metodo adottato basato sull’azione indiretta sull’incosciente degli individui senza destare in questi il ben che minimo sospetto. Tale azione faceva così nascere nell’individuo un nuovo stato di coscienza dal quale l’individuo si sentiva attratto. Una volta nato questo nuovo sentimento, l’esperimento aveva dimostrato che per avere buone probabilità di renderlo duraturo, occorreva che l’ambiente riuscisse ad interessare il ragazzo a questo nuovo stato di coscienza. Sottolineando così ancora una volta, a mio parere un concetto molto importante e innovativo per l’epoca, come il miglioramento non derivasse da un progresso della cultura o della condotta dovuto all’imitazione o ad altre cause ma dipendesse dal fatto che «Questi ragazzi erano stati aiutati a formarsi una certa personalità, senza dare o senza togliere nulla alla loro individualità, ma semplicemente indiziando a fini utili le tendenze non buone che esistevano in essi, o deviando per vie innocue gli eventuali eccessi della loro vitalità .»
Nel caso dei frenastenici è particolarmente rilevante notare come questi anormali si adattarono alla vita famigliare per la quale fino a quel momento erano stati considerati inadeguati.
Al di là della grande importanza che potavano avere i risultati ottenuti l’attuazione dell’esperimento della colonia libera rappresentava già di per sé un enorme passo avanti nel campo della rieducazione della delinquenza minorile. Gli anni in cui fu portato avanti tale progetto erano gli stessi anni in cui in Europa e nel Nord America in generale e in Italia in particolare si era registrato un forte aumento della criminalità minorile che fra gli altri temi aveva riportato prepotentemente alla ribalta quello dei carceri e degli istituti per minorenni. Nonostante i buoni propositi e le idee valide che avevano dato vita alla Riforma Doria, la situazioni delle carceri e degli istituti per minori italiani, salvo qualche raro caso, non era migliorata di molto. Diversi erano i fattori che avevano concorso a determinare tale situazione. A mio avviso il fattore che maggiormente fece sentire la sua influenza negativa, soprattutto per i suoi effetti “a pioggia”, fu la mancata approvazione, nonostante la Commissione nominata da l’On. Quarta, di una legge del livello del Children Act entrata in vigore in Inghilterra nel 1909. Questa legge aveva avuto, infatti, il merito da un lato di regolamentare l’andamento dei tre diversi istituti previsti dalla legislazione inglese dando vita così ad un progetto unitario, e dall’altro di istituire magistrati e Tribunali per i soli minorenni. Mancando in Italia una legge di questo tipo non essendo previsti né magistrati né Tribunali per minorenni si finiva così per considerare i minorenni alla stregua degli adulti o al massimo come degli adulti in miniatura quando gli studi di Pedagogia e di Psicologia avevano già da tempo evidenziato la grande differenza esistente fra le due categorie.
L’assenza di un progetto unitario da parte dello Stato, che in fondo finiva per tradursi in una mancata presa di coscienza del problema stesso, che fosse in grado di coordinare il lavoro dei vari istituti che si occupavano di delinquenza minorile aveva finito non solo per non apportare nessun miglioramento ma anche per rendere maggiormente difficoltosi i pochi tentativi ben riusciti grazie all’intraprendenza di privati cittadini ai quali non fu quasi mai garantito il ben che minimo sostegno.
Il problema legato al numero dei posti disponibili negli istituti o nei carceri per minori, assai al di sotto delle esigenze dell’epoca, era una delle prime conseguenze della mancanza di un progetto unitario che finiva per avere come risultato pratico l’invio della maggior parte dei minori nelle carceri per adulti. I fanciulli si trovavano così inevitabilmente a condividere la cella con maggiorenni con tutte le conseguenze che tale condivisione comportava per i fanciulli stessi.
I ragazzi che avevano la fortuna di essere inviati in istituti per minori, salve poche eccezioni, si trovavano a vivere in istituti in cui, in realtà, vigeva un vero e proprio regime carcerario a partire dalle sbarre alle finestre e alle porte fino ad arrivare al personale lavorante che invece di essere degli educatori erano, per lo più, delle vere e proprie guardie carcerarie. In Italia si era dunque ancora molto più vicini a un modello di istituto basato sul sistema repressivo che al modello diffuso in molti degli stati nord europei e nord americani la cui funzione principale era invece quella di educare, di insegnare una professione e di istruire.
Date queste premesse l’esperimento della Colonia realizzato da Ferrari era portatore di numerose innovazioni per il sistema di rieducazione italiano e non solo. Innanzitutto il luogo scelto, sottolineando ancora una volta l’importanza che lo psichiatra reggiano attribuiva all’ambiente, non era né un carcere, contro i quali Ferrari si era sempre battuto allontanandosi in questo modo dalle posizioni assunte dalla Scuola Classica e da quella Positiva, né un istituto ma bensì una villa dotata di un ampio parco e di un orto. Una villa in cui vigeva un regime di semi libertà mancando le sbarre sia alle finestre sia alle porte e essendo affidato il controllo dell’ordine alla direttrice, ad una infermiera e a quattro vecchi malati. La scelta della semi libertà era dettata da due convinzioni care allo psichiatra reggiano: la prima si rifaceva all’idea secondo la quale ad ogni restrizione della libertà corrispondeva una diminuzione dell’io cosciente, la seconda aveva invece le sue radici nella importanza riconosciuta al valore del carattere simbolico.
Particolarmente rilevante e innovativo, soprattutto alla luce dei risultati positivi ottenuti, è da considerare il tentativo di coeducazione effettuato all’interno della villa. La coeducazione, infatti, in Italia era sostenuta, in quegli anni, praticamente dai soli DeSanctis e Ferrari. A destare le maggiori preoccupazioni era soprattutto il campo della sessualità, date le tendenze spiccate che alcuni degenti presentavano. In realtà nella Colonia non si verificò nessun genere di problema ma anzi fu la dimostrazione che se si era in grado di incanalare o disciplinare le energie in sovrabbondanza, grazie allo svolgimento di una attività lavorativa interessante, regolare continuato e variegato; di una educazione morale corretta, dello svolgimento di una attività muscolare; di divertimenti e di una corretta alimentazione, non solo la coeducazione era possibile ma permetteva di ottenere dei benefici durevoli.
Interessante notare, ai fine della terapia, che si creò un certo antagonismo fra i due gruppi che portò ad un rapido miglioramento del contegno delle ragazze e nei ragazzi una maggior compostezza dei modi e del linguaggio. I ragazzi inoltre si dimostrarono molto più sensibili ai rimproveri se questi venivano fatti in presenza di ragazze .
Affidando poi la direzione a Gabriella Francia e assegnandole come aiuto una infermiera, Ferrari concretizzava quella che fu una convinzione per la quale si batté durante l’arco di tutta la sua vita:
«Io non credo, cioè, che l’opera di raccolta e di educazione dei minorenni traviati possa essere opera di uomini[…]ma…deve essere affidato a delle donne, purchè siano delle vere donne, intendiamoci .» Le mansioni affidate alle donne dovevano in realtà estendersi a tutto ciò che concerneva l’infanzia traviata includendo anche il ‹‹magistrato dei minorenni›› poiché «Solo con la donna il bambino ha confidenza, d’istinto, forse, perché la sente più simile a sé, più vicina, perché la donna come il bambino ha un subcosciente più ricco, più spontaneo, più pronto ad affiorare, a mettersi in contatto con quello che sia con esso consonante .»
Ferrari proponeva e concretizzava, così, nel campo della rieducazione dei giovanetti criminali da un lato quello che, come osservava Babini, era stato un topos della lettura medica in generale e degli scritti di igiene mentale in particolare: il ruolo centrale della donna come ‹‹apostolo›› della scienza. Dall’altro ripercorreva la stessa strada percorsa da Itard quando, rifacendosi alla sua esperienza educativa del selvaggio di Aveyron, considerava essenziale la figura femminile per l’insegnamento dell’educazione ‹‹morale›› . Strada a cui probabilmente Ferrari era giunto seguendo le vie battute da coloro che si erano occupati dell’infanzia anormale.
All’interno della villa, Ferrari aveva portato, soprattutto, la psicologia individuale. Una psicologia individuale, che seguendo i dettami jamesiani, era stata improntata allo studio della psiche nella sua complessità e nel suo divenire permettendo a Ferrari di allontanarsi dall’antropologia di stampo positivista strettamente legata al riduzionismo. A livello pratico l’introduzione di tale psicologia aveva permesso di improntare il metodo terapeutico in modo tale che fosse possibile individuare le caratteristiche di ogni fanciullo così da poter stilare, in base ai dati raccolti, una terapia individuale che grazie al rapporto con l’educatore, fosse in grado di aiutare il ragazzo a costruirsi una personalità che pur tenendo nella dovuta considerazione le tendenze di ognuno, gli permettesse, però, agendo sul suo inconscio di: o dirigerle verso fini utili o dove questo non fosse possibile di trovare una via di scarico innocua in modo tale che il ragazzo non entrasse più in conflitto con le regole della comune convivenza. Le innovazioni apportate dalla psicologia individuale si intrecciavano così ad altri due capisaldi della “psicoterapia pratica contro le tendenze amorali e criminali dei giovani” messa a punto da Ferrari: l’introduzione della figura dell’educatore e l’importanza riconosciuta al sub-cosciente.
La possibilità di redimere i giovanetti, infatti, passava per Ferrari essenzialmente dalla capacità e dalla possibilità dell’educatore di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia e stima con i ragazzi a lui affidati. Grazie alla nascita di questo rapporto diventava possibile “aggredire i ragazzi per la via del sub-cosciente” considerato dallo psichiatra reggiano l’unico metodo per riuscire a mutare gli atteggiamenti dei ragazzi essendo la personalità indissolubilmente legata al sub-cosiente .
A Ferrari andava inoltre riconosciuto il merito di avere sperimentato in Italia, seguendo l’esempio delle colonie di lavoro del Nord Europa e del Nord America, l’introduzione dell’insegnamento di una attività lavorativa a fini sia terapeutici sia sociali.
I successi ottenuti all’interno della Colonia erano, probabilmente, stati possibili anche grazie al criterio di classificazione adottato da Ferrari e sostenuto anche da numerosi addetti ai lavori tra i quali De Sanctis. Nella schiera dei giovanetti criminali, secondo lo psichiatra reggiano, occorreva distinguere coloro che avevano violato la legge perché psicopatici, da coloro che, integri mentalmente presentavano la sola tendenza a vivere al di fuori delle leggi di convivenza sociale. Dei primi in quanto malati si doveva occupare la clinica, dei secondi la psicologia, evitando in questo modo di applicare metodi e teorie a individui che non ne potevano trarre nessun giovamento. L’analisi di Ferrari andava oltre, affermando che la maggior parte dei reati commessi da questo secondo gruppo non era altro che il frutto di tendenze “naturali” comuni a tutti i ragazzi, tendenze che l’ambiente e la mancata educazione avevano spinto a manifestarsi attraverso comportamenti antisociali. Lo psichiatra reggiano sottolineava così anche nel campo della psicologia della delinquenza minorile un tema a lui caro: la labilità del confine fra comportamenti normali e anormali posizione che lo allontanava decisamente dalle posizioni assunte da Lombroso.
Dando vita all’esperimento della colonia, Ferrari aveva affermato che a spingerlo ad attuare il progetto erano state fondamentalmente tre motivazioni: studiare sul campo la psicologia dei giovanetti criminali all’epoca quasi sconosciuta, verificare la possibilità del loro adattamento alla vita e testare la validità della sua teoria sull’analogia biologica e sociale che legava gli alienati e i criminali .
Se sui primi due punti si può essere d’accordo con Ferrari della positività dei risultati ottenuti sul terzo punto a mio avviso occorre fare una distinzione. E’ vero che il trattamento dei tardivi intellettuali e dei giovani criminali aveva dato per entrambi degli esiti positivi ma a mio avviso dovuti non tanto agli effetti positivi della loro coeducazione ma alla validità del metodo messo in campo.
L’esperienza della Colonia terminò nel 1914 ma con essa non cessò l’interesse di Ferrari per la psicologia e per le sorti dei giovanetti criminali come stanno a testimoniare la sua partecipazione in qualità di membro della Commissione per la riforma del codice penale presieduta da Ferri e istituita da Ludovico Mortasa nel 1919. Nel 1921 a Bologna grazie al suo sforzo volitivo nasceva sotto le ali del Patronato dei Minorenni una “sezioncina” per 27 minorenni inquisiti dotata di scuola, laboratorio e di tutto il necessario . Il tempo era importante ma i numerosi articoli pubblicati da Ferrari e soprattutto i temi ricorrenti, quelli a lui cari da sempre, stavano a testimoniare come, anche dopo quasi venti anni, la situazione non fosse cambiata di molto: il bisogno di istituire un’opera seria di profilassi, i tentativi di richiamare l’attenzione dello Stato soprattutto sulla necessità di un suo intervento diretto e di una riforma organica che prevedesse una collaborazione e una pianificazione comune tra Stato, Province e Comuni, la necessità sempre più impellente di istituire una magistratura, Tribunali e una legislazione per minorenni e di togliere finalmente i ragazzi dai carceri. Dei i tanti un monito, a mio avviso, mantiene ancora oggi valida la sua efficacia «Si tenga sempre presente che ogni ritardo costa sangue, lacrime e denaro; che della criminalità tutti siamo un po’ responsabili, più o meno direttamente, anche per il sol fatto di vivere in questa società; che chiunque di noi, dei nostri figli, può esserne vittima .»

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Appendice

Egregio Prof. Ferrari,
nonostante il mio primo desiderio di rispondere immediatamente alla gentilissima sua per ringraziarla, oltreché degli – studi – inviatimi, dei buoni consigli, ho dovuto tardare fino ad oggi per la ragione che le spiegherò. Essendo troppo piccolo il numero degli allievi che mi appartengono, perché io possa seguire la via che Ella mi traccia, mi rivolsi alle autorità scolastiche per avere a mia disposizione un certo numero di fanciulli e di fanciulle delle scuole pubbliche. La risposta non è ancora venuta ed io, stanca di attendere, ho risolto di [scriverle] ugualmente. Sono straniera in questa città e chiamatavi da poco a reggere una scuola privata in cui, per ragioni di partito, sono venute di
meno in marzo diminuendo le allieve, specialmente per opera delle elezioni della settimana scorsa.
Il mio soggiorno che doveva essere temporaneo è divenuto permanente in considerazione di motivi morali, nel sostenere i quali, per debiti di cortesia, ho dovuto mostrarmi solidale.
Le mie allieve sono rimaste – sette- la prima ha sei anni; la seconda, otto, la terza, nove, la quarta dieci, la quinta undici, la sesta dodici; la settima quattordici. Appartengono a due famiglie: 4 all’una e 3 all’altra. Si rassomigliano poco fra sorelle. La considerazione della diversità dei loro caratteri m’ha suggerito l’idea di uno studio psicologicocce, nella mia intenzioni, non poteva essere né largo né compiuto. Le confesso che, il trovarmi dinanzi un disegno di studio come ella mi presenta, dopo che mi ero già [contentata], a forza di riflessioni, di qualche cosa di più scadente, mi ha messo di cattivo umore. Tuttavia non ho nessuna intenzione di rinunciare ai mie propositi. Crede Ella che (dato ch’ivi l’assurga) mi riuscirà fruttuoso esaminare fanciulli che non conosco affatto? Intimamente, qui non potrei studiare che le mie sette allieve. I fanciulli che conosco abitano altre città e fanno vite diversissime.
Ad ogni modo ho voluto portare il mio questionario. Ciascuna domanda ha un fine che spiegherò via via.
1°– Quali cose ti fanno contento?
2°- Quali ti danno dispiacere?
(Per stabilire quali e quante associazioni sia legato nel fanciullo il concetto di piacere e di dolore)
3°- Quando sei castigato od offeso chi pesti?
( Per stabilire in rapporto con una realtà la finalità di un ragionamento di consolazione)
4°- Se tu restassi solo nel mondo che faresti?
(Lo stesso ragionamento di prima in rapporto con una possibilità)
5°- Quando hai qualche dispiacere lo dici a qualcuno ed a chi?
( per vedere se si tratti di un fanciullo espansivo o chiuso, se sente più o meno il bisogno di protezione o di liberazione da un peso.
6°- Quali fatti della tua vita ricordi meglio?
(Mi pare opportuno studiare la tenacità ed il carattere prevalente dei ricordi , in quanto danno un’idea della facilità del fanciullo nel fissare e richiamare in prevalenza emozioni piacevoli o dolorose)
7°- A quanti e quali persone vuoi bene?
( trascrivere il numero, l’età delle persone a cui il fanciullo si è legato per simpatia ed affetto – ragione di questa simpatia (interessi materiali e morali) – forza di essa.
8°- Che cosa vorresti diventare? (Vocazione, suggestionabilità, esempi, alle letture e senso pratico desiderio di mutamento, caratteri dello spirito (conservatore o non)).
Troppi lati dell’anima sono dimenticati in questo schema: ma per quanto io abbia cercato di condensare in esso [solamente] tutto ciò che mi preme di stabilire, mi sono sempre trovata di fronte alla necessità di lasciare molte questioni. Non solo, ma, riflettendo che il fanciullo non ha coscienza di moltissimi fra gli atteggiamenti della sua anima e che di molte forme di autoconsolazione egli si serve inconsciamente, ho abbandonato l’idea di interrogarlo, specificando molti fatti; per farmi dire quanto possa sapere delle proprie reazioni in ciascuna cosa.
Studio che avrebbe dovuto essere accompagnato poi da una osservazione accurata di ciò che il fanciullo fa e di ciò che crede di fare.
Ho preferito cercare gli elementi principalissimi che [hanno] attinenze col problema: sensibilità, aspirazioni e speranze; orientamento dei ricordi, immaginazione in rapporto agli avvenimenti possibili; forze di assimilazione dei ragionamenti convenzionali; tendenza ad elevarsi ecc, riservandomi di fare quelle deduzioni a cui, nei casi di – non risposta – o di risposta inconcludente o sorda, mi autorizzassero le altre risposte nel loro complesso.
Riguardo agli altri fatti che possono avere relazioni con quello in questione ( sentimento della natura, preferenze per stagioni, paesaggi, sensibilità a certi mutamenti di clima; preferenze per colori scuri, [torpori], spettacoli; attaccamento a forme convenzionali di risposta morale o di ragionamenti di giustificazione; relazione fra le capacità di ragionamenti intellettuali e quest’altra forma di logica ecc.) potrei dedurli dai lavori d’[…….], e da osservazioni giornaliere fatte senza un ordine ed una forma prestabilita.
Aggiungendo a ciò tutto quanto mi è possibile di raccogliere intorno alla salute, eredità , vita familiare, vicissitudini, idee dei genitori, loro metodo di disciplina ecc. giungerei ad avere un complesso elementi del cui valore potrei giudicare in rapporto con tutto ciò che vi è di cosciente e di incosciente ( data l’età ) sul fatto che studio. Senza contare che l’aspetto del fanciullo, lo sguardo, la tinta del viso, la timidezza o la franchezza, la deferenza naturale o forzata verso i superiori, i suggerimenti – consolatori – che non dovrebbero mai giungere all’orecchio dell’insegnante ( ma che vi giungono spesso ) le bugie ecc ecc possono deporre intorno al grado di svolgimento di questo potere; quando sia accertata, in un individuo, la forza ingenita di sensibilità morale.
Credo così averle chiarito meglio che non abbia fatto nella mia ultima lettera le mie intenzioni e le mie possibilità presenti, voglio sperare che le fortune saranno maggiori.
Per quanto riguarda l’articolo annuncio la sua offerta mi onora e mi meraviglia.
Ella non avrà certamente [momenti] di indovinare la mia età e la mia cultura; in quanto a me non so se mi basterebbe il coraggio di esordire, mettendo il mio nome accanto a qualcuno di quelli che leggo nella Sua rivista.
Le sono infinitamente riconoscente e La ringrazio di tutto quello che fa per me. Ma, in certi istanti, ho così [luminosa] coscienza di camminare sui trampoli, che mi rappresento con ispavento qualche orribile ruzzolone intellettuale da cui mi rialzerei, certo, in uno stato morale deplorevole.
Vedo, purtroppo che le ho inflitto altre pagine della mia orribile calligrafia e faccio precetto.
Mi conservi la Sua stima e la Sua indulgenza e gradisca le attestazioni della gratitudine più profonda.
Di Lei […….]
G. Francia
[……] 31 Marzo 908

Ill.mo. Signor Professore, mi duole di non avere una fotografia più recente di questa che risale ad un anno e mezzo fa. Ma siccome mi si assicura che è ancora abbastanza rassomigliante, e non voglio far troppo attendere la Sua gentile signora, mi affretto ad inviargliela qual è.
In quanto ai meriti che Ella mi attribuisce in rapporto al mio diploma,
credo che , in fondo, non si farà troppe illusioni.
Quando accettai l’offerta che mi fece, apprezzando in tutto il suo valore la fiducia che Ella mi dimostrava, compresi che Ella non contava soltanto sulla mia intelligenza e sulla mia cultura, che ormai era in grado di giudicare, ma sul mio carattere e sui miei sentimenti.
Nessuno può presumere di sé prima di essere messo alla prova.
Se vi sarò messa e non fallirò, dovrò certamente esserle grata anche di avere contribuito a farmi acquistare qualcuna di quelle virtù, che si crede volentieri di possedere, ma che non si riscontrano, al
momento buono, che negli altri. La prego, intanto di presentare
i miei ossequi alla Sua egregia Signora e di credermi.
Sua dev.ta.
Gabriella Francia

Vercelli, 16 – X 1909.

Ill.mo. Signor Professore,

Sento il dovere, anzi tutto, di ringraziarla vivamente di aver
pensato a me nella circostanza di cui Ella mi discorre nella su lettera.
Ella ha poi anticipatamente risolto l’unica difficoltà che io le avrei
opposta prima di accettare definitivamente la Sua offerta.mi auguro una cosa sola : ed è che l’opera mia possa corrispondere pienamente al concetto che Ella si è formato della mia capacità,e che la pena che Ella si e data e si dà, con tanta indulgenza, per aiutarmi, non vadano perdute.
Per ciò che riguarda le condizioni che eventualmente mi si farebbero per la carica offertami, mi rimetto interamente a lei.
La prego di gradire, coi miei Ossequi, rinnovati e sentitissimi
ringraziamenti.
Sua dev. Gabriella Francia

Vercelli 30 – X – 1909.

Cara Signora,
mentre le scrivo non mi sento ancora capace di pensare senza commozione che, molto probabilmente, non sono, come vorrei, lontana da Imola per una licenza temporanea; e il vedere i miei così contenti per avermi con essi e per la speranza di [conservarmi], durante un tempo non breve, vicina, non basta perché non risenta ancora acuto
il dolore che ò provato dopo la mia partenza da loro.
Non so precisamente in che giorno andrò a [Mendri], perché, se mi è stato difficile allontanarmi da Imola, non credo che mi sarà più facile allontanarmi da Vercelli. I miei che comprendono
molto bene le ragioni per cui m’ero tanto affezionata a loro e apprezzano le dimostrazioni di simpatia che ò ricevuto costì, sono poi infinitamente grati e si dolgono sinceramente che le mie condizioni attuali non mi abbiano permesso di continuare a godere di un’ospitalità che mi era per tante ragioni così gradita.
In quanto a me, come mi accade sempre quando troppe cose vorrei esprimere e quando le espressioni a cui fui costretta a ricorrere non riuscirebbero che a rimpicciolire coi miei sentimenti le ragioni per cui essi sono nati, non trovo parole e non ne cerco.
Affettuosamente, come da tanto tempo volevo, abbraccio e bacio Ornella, Nora e Carlo e stringo cordialmente le mani a lei ed al Professore pregandoli di tenermi sempre [nei loro aff.]
[……]
Gabriella Francia

Vercelli, 23- XI – 1910.

Egregio Professore, le bozze di stampa devono aver fatto un lungo viaggio prima di raggiungermi perché le ho avute soltanto sabato e domenica, insieme col giornale e la rivista. Aspetto a ringraziarla di questo e di tutto il resto giovedì quando verrà a trovarmi, se avrà il coraggio di venire malgrado l’inondazione, il freddo e la neve. Mi sono messa subito al lavoro: ma il lunedì e il martedì sono per me giornate faticose( 5 ore di lezione) perciò Ella, che mi conosce [certi] momenti, non si meraviglierà se le dico che, più che scrivere, dormivo. Aggiungo che in questo ridente paese non fa che nevicare, e non c’è nulla che renda più pigri della neve. Ad ogni modo ò finito, come vedrà. Per quanto riguarda l’altro lavoretto, se Ella ne approva la pubblicazione, non occorre proprio nessuna autorizzazione da parte mia. Faccia di questo come degli altri miei scritti quel che crede.
Ho pensato molto all’affare della villa; ho passato da prima in rivista tutte le signorine mie inservienti, e non ne ho trovata una disponibile, potrei però interessare qualcuno a trovarmi una persona adatta che Le manderei sulla fiducia di chi me la indicasse. In quanto alla mia impressione per il contratto che ha in vista, le confesso tutto il mio interesse. Non credo che ci mancherà il modo di trovare chi mettere alla testa di codesta istituzione: su me, se le cose saranno così è inutile contare, almeno per quest’anno.
Avevo una vaga speranza che la titolare tornasse a riprendere il posto che io occupo nella sua assenza, cosa che mi avrebbe rimesso in libertà; ma ò saputo che quest’anno verrà un’ispezione può pensare se, con questa minaccia, quella ritorni. Dunque, dato che io debbo continuare, come maestra, il mio lavoro qui, non sarei libera fino alla fine di luglio. Dopo ricomincerà per me l’ignoto. Non so se avrò già finito di dare il concorso e, naturalmente, se avrò ancora i risultati che avrò ora, o più forti, o nessuno. Ad ogni modo dopo il 31 luglio io tornerei, almeno temporaneamente, a sua disposizione.
Se queste possibilità che le vado esponendo […]. sufficienti per tentare l’esperimento sono assai contenta di avergliele chiarite.
Se io ascoltassi soltanto il mio desiderio, e non cercassi di ragionare, [inludendo]ogni speranza poco [prudente], sarei fortemente tentata a dirle di correre il rischio. Che cosa ne pensa il Dr.Barboncini?
Se quel suo amico [Bertoloni] potesse fare il miracolo di trovarci qualche via d’uscità! Ma dubito molto, ed ho paura che questa routine, per cui faccio le prime armi, debba essere tutto il mio avvenire, non perché non mi si aprono vie diverse, ma perché non avrò mai abbastanza coraggio per lasciarla, [persuadendomi chi sa], che questo è per il mio meglio, […] a meno che non mi si voglia.
Se nulla si oppone e se mi metto d’accordo con una collega, giovedì scenderò fino a Vercelli e vi rimango fino a martedì 27. Ho scelto di riposarmi un po’ di tutta la Pedagogia che spiego. Ma fino a carnevale non dovrò più pensare a permessi. Lei quando verrà? Ricambio i saluti di tutti e bacio i Suoi bambini.
Sua aff: Gabriella Francia
[Mendri] – 15 – XII – 1910

Egregio Prof.re
Mi perdoni se scrivo molto in fretta. Siamo in quattro e abbiamo in progetto di venirla a trovare alla villa. Si può? Potrebbe darsi che ci riducessimo in tre ma la cosa non parrebbe dispetto , malgrado la diminuzione.
Nel progetto ci sarebbe anche il desiderio di visitare il manicomio. Si può? La disturbiamo? Senza complimenti ce lo dica. O rinunciamo alla gita al manicomio o rinunciamo alla gita come Ella vorrà. E disturbiamo la signora Direttrice?
Siamo quattro persone [cognate] ed amiche della Lella, io compresa. La Lella non si disturbi ad offrirci nulla[…] O mangiamo all’albergo, o mangiamo pane e prosciutto cotto i tigli secolari. Dica alla Lella, per favore, che se preparerà qualche cosa rifiuteremo assolutamente tutto. Mi dimenticavo il progetto cade per tutti se lunedì vi fosse l’esame di Psicologia. Scusi vi sarà? La gita sarebbe rimandata a giovedì se non vi sarà l’esame d’italiano. Scusi vi sarà?
Da una settimana mi sento decisamente bene ho bisogno di gridare alto la mia gioia salutare.
Distinti e cordiali saluti alla sua Signora. Ossequi alla Direttrice della Villa-Villa Carducci
Sua […]
G. Francia
18 novembre 1911

Caro Professore, mi è arrivato ieri la […] di libri ma non le so dire se vi siano tutti quelli che desideravo. Non so più se abbia lasciato parecchie(4) opere del Ribot o se le abbia portate a casa. Se fossero ancora alla Villa, me le conservi poiché sono di mia proprietà.
Su Sassari imperversa il mal tempo e io mi annoieri se non avessi anche i suoi giornali a farmi compagnia. Come sta mia cugina? Stenta a rimettersi non è vero? Sono contenta che per la Villa abbia quasi […]. Come è andata. Non l’ò ringraziata della letterina di Nora a cui risponderò e che mi è pervenuta con vivo piacere.
[…] spedire alla sua Signora la spazzola, perché è irreperibile da un pezzo.Credo che sia a casa di qualche parente. Mi meraviglia che la valigia non le sia stata ritornata. Scriverò a casa perché non se ne dimentichino.
Grazie- Saluti a tutti.
G. Francia
Sassari, 3 – II – 1912

Caro Professore, grazie delle sue raccomandazioni, come già saprà tutto è [passato]. Il mio primo impulso è stato quello di [chiamarvi], ma.poi ò riflettuto che di tutti i medici che mi ànno curato, e tutti con premura, solo il Dr. Milanesi mi ha dato dei consigli e delle ricette che mi avevano realmente giovato; tanto che d’allora un serio disturbo non l’avevo più avuto. Ho ripreso perciò a curarmi come allora. Soltanto ho restituito la sua ricetta per la cura ….ale, che mi è andata smarrita, con un’altra che mi aveva dato mia cugina(sa la sua mania!) e che avevo conservato perché mi serviva da segna libro. Oltre all’arsenico c’è in queste pillole della stricnina. Crede i miei [riflessi] in pericolo? Ma mi sono rimessa rapidamente a stare bene. Vado però adagio col soddisfare l’appetito. Ha ricevuto […] lei la lettera della Burranelli con le righe […] su me?
Non lavoro perché non ho tempo! Se le occorrono i tests di Binet non li scriva li invio subito.Cordialmente F.
12 – III – 1912.

Ricevuta la Rivista- grazie letto l’articolo…finalmente e con moltissimo piacere. Le mando il mio presente. Si è riposato? Niente di nuovo? Qui siamo senza […], col pane al 100/ivo pechè non c’è farina […].
Ivrea 16-VIII-1917.

Ricevo in questo momento la sua lettera e quella carissima di Nora. Le riscriverò più a lungo quanto prima. Per quanto questa mia non arrivi più in tempo ad impedirle una gita (oggi) mobile a Ravenna, le scrivo sperando (almeno una volta tanto) che le sue occupazioni l’abbiano trattenuta a casa o che le mie notizie ve la trattengano definitivamente.
Mio cugino è qui, oggi con febbre ancora alta. Abbiamo passato un brutto Natale; ma speriamo.
Tutto sta che quel ragazzo abbi la pazienza di voler guarire. Non si può tenerlo a letto. E’anche in uno stato d’animo deprimente e abbattuto per cui non si può mai lasciarlo solo.
(Mi mandi l’indirizzo di casa di Padre Gemelli di cui ò ricevuto una cart.)
Non le parlo del mio viaggio per ora. Tornerò il 9 gennaio non so con che treno. Ma sono così disorientata che non so neanche in che giorno sia. Grazie; mi […] nella sua gita a Ravenna che mi sta nel cuore. Auguri a Lei e ai Suoi cari. Un bacio alla Nora.
Gfrancia.
Vercelli; 28-XII-1917

L’inserimento della Cattedra di Psicologia fra quante, tradizionalmente, hanno per fine diretto la preparazione professionale dei medici, non può non richiamare alla memoria pubblicazioni dimenticate, esperienze individuali senza alcuna risonanza nel mondo della medicina ed altre che, frutto più di intuizioni che di scienza, hanno contribuito ad attribuire allo studio psicologico dei soggetti gravemente menomati nell’intelligenza e nella sensibilità morale, ritenuti incurabili, una funzione complementare rispetto a quella del medico, talvolta, anzi, preminente.
La recente legge sull’istruzione obbligatoria fino al 14° anno di età ha servito da vaglio per il riconoscimento dei deboli dell’intelligenza, dei ritardati, degli inadatti ed ha suscitato per essi un necessario e vivo interesse dando luogo all’istituzione di classe scuole e istituti speciali.
Ma rimangono ancora, probabilmente, negli ospedali psichiatrici od in ricoveri molti ragazzi, protetti bensì dai pericoli, convenientemente nutriti ma non aiutati a vivere nel significato umano della parola, a rendersi, cioè, utili socialmente, sia pure in un ambiente adatto ad essi, e ad conquistare in qualche grado quel tanto di coscienza morale che impedisce loro di essere dei criminali in potenza, se non già in atto; ragazzi in generale senza famiglia, estranei gli uni agli altri, veramente e pietosamente soli.
Queste riflessioni si associano per me all’opera intelligente del Prof. G. C. Ferrari, psicologo e uomo di cuore ed ad un esperimento da Lui desiderato, sostenuto e difeso più di cinquantenni or sono presso l’Ospedale Psichiatrico di Imola; esperimento non di laboratorio, non individuale, bensì di un tipo di vita collettiva, alla quale parteciparono ragazzi di età, di sesso e di tipo diversi, ma tutti, in vario grado, dichiarati incapaci di una vita normale, sia pure umile e limitata.
Tale esperimento , che durò quattro mesi, non escludeva certo, rischi ed insuccessi, dati anche i modesti mezzi a disposizione, ma valeva la pena di affrontarli, a Suo giudizio, per trarne norme utili ad una organizzazione futura, e meno imperfetta della educazione dei frenastenici gravi e dei candidati alla delinquenza, soprattutto per difetto di autocontrollo e di debolezza intellettuale.
L’esperimento ebbe luogo in una rustica villa a Castelguelfo (Imola), in un ambiente rurale e fu, per 17 ragazzi e le 8 ragazze ricoverate, una prova inconsapevole della loro adattabilità ad un tipo di vita semplice qual è quello del lavoro agricolo, soggetto, però, a molte suggestioni, alcune pericolose in sé ed altre tali, perché la vita coattiva dell’Ospedale li aveva disabituati da ogni libero contatto umano e naturale.
Fu quello del Prof. G. C. Ferrari un atto di fede nella natura umana, la più diseredata e, talora, la più repellente, e per chi lavorava sotto la Sua responsabilità, sorgente di fiducia nelle proprie forze, nel valore educativo e curativo del lavoro se ben adatto e ben accetto; nella possibilità di una graduale conquista, attraverso il lavoro stesso e con l’amorevole intervento individuale, di una, sia pure grossolana, sensibilità morale, determinata anche dal risvegliarsi del subcosciente, accanto a stimoli antisociali, di confuse compiacenze utili ad una vita povera sì, ma ordinata e socialmente non pericolosa.
Se allora avessimo potuto disporre delle medicine che il progresso farmacologico ora fornisce, ad esempio, per attenuare pericolose eccitazioni periodiche; se avessimo conosciuto o sospettato le vere cause ereditarie o congenite di certe forme gravi di frenastenia, come ora le prospetta la genetica, il nostro compito sarebbe stato in qualche caso facilitato.
Ma saremmo forse stati privati, almeno in parte, di una esperienza psicologica preziosa, utile, non soltanto per una possibile guarigione di forme lievi, quanto per una riabilitazione e restituzioni di esseri umani ad una dignità loro spesso negata; e questo valendosi unicamente delle loro deboli forze spirituali, delle loro tendenze, sia favorevoli che sfavorevoli, fortificando le prime o derivando le seconde per vie normali.
Purtroppo non abbiamo potuti seguire nel corso della loro vita le vicende di tutti i nostri ricoverati ma di qualcuno di essi sappiamo che può essere riconoscente all’opera altamente umana e intelligente del Prof. G. C. Ferrari, se ha trovato il suo giusto posto nella vita sociale.
Gabriella Francia
Vercelli 21 Febbraio 1967.