MEMORIA E UDITO IN ARISTOTELE*

di Stefano Martini

In un celeberrimo passo della Metafisica, proprio quasi alle linee iniziali dell’opera, Aristotele afferma:

«Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni, dalla sensazione non nasce la memoria (mnémē), in altri, invece, nasce. Per tale motivo questi ultimi sono più intelligenti (phronimótera) e più atti a imparare (mathētikótera) rispetto a quelli che non hanno capacità di ricordare (mnēmonéuein). Sono intelligenti (phrónima), ma senza capacità di imparare (manthánein), tutti quegli animali che non hanno facoltà di udire (akoúein) i suoni (tôn psóphōn) (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono anche il senso dell’udito»,[1]

offrendoci la interessante sottolineatura che, rispetto agli altri sensi, in questo contesto nemmeno presi in considerazione (nonostante che proprio l’esordio dello scritto sia dedicato a una sorta di elogio della vista),[2] l’udito intrattiene un rapporto privilegiato con la memoria.

È anche vero che la memoria uditiva, come fenomeno di persistenza percettiva, è molto più labile di quella visiva, soprattutto quando si parla di memoria a breve termine:

«Io credo che la qualifica “a breve termine” si adatti perfettamente alla persistenza a livello neuronale di una impressione conseguente a uno stimolo. Il nostro apparato percettivo è costituito di molti subsistemi, ciascuno dei quali ha tempi di persistenza diversi. Il tatto, ad esempio, non ha la stessa persistenza dell’odorato, o la vista, per motivi anche fisici e non soltanto fisiologici. Il complesso uditivo deputato alla “parole”[3] funziona utilizzando tempi di persistenza minimi, probabilmente non molto più lunghi per durata rispetto ai tempi propri della velocità del parlato, che è notevolmente alta».[4]

Sta di fatto, però, che la memoria, sia in questo passo di apertura della Metafisica, sia in quello, altrettanto famoso, di chiusura degli Analitici secondi,[5] gioca un ruolo fondamentale,

«car, impliqué par – et impliquant – la persistance de l’impression sensible, elle montre comment la transformation de l’áisthēma en phántasma fait passer la barrière non pas entre les animaux et les humains, mais à l’intérieur du genre animal lui-même».[6]

Tale criterio, tuttavia, non basterà

«à différencier les humains, différence encore différée du fait que mnémē et phantasía sont perfectibles par l’ouïe. Seront ainsi “seulement” intelligents (phrónimoi) les animaux doués de mémoire, tandis que seront intelligents et capables d’apprendre – voire d’enseigner […] – ceux qui entendent les sons».[7]

Detto in termini quasi identici,

«Métaphysique, A 1, 980 a 27 –  981 a 1 met l’accent sur une chaîne plus complexe, sensation-imagination-mémoire-sagacité, avec deux précisions: à partir de la sensation, chez certains animaux seulement naît la mémoire; l’imagination et la mémoire sont perfectibles par l’ouïe, de cette façon ne seront que phrónimoi les animaux doués de mémoire, tandis que seront phrónimoi et capables d’apprendre ceux qui entendent les sons».[8]

Si potrebbe, pertanto, schematizzare il pensiero aristotelico nel modo se­guente:[9]

Come si può vedere, degli animali, per definizione naturalmente forniti di sensazione,[10] al­cuni sono dotati di memoria (nei casi in cui essa nasce dalla sensazione), mentre altri no;[11] ebbene, solo i primi, quando abbiano anche la facoltà di udire i suoni, sono più intelligenti e atti a imparare sia di quelli, pur intelligenti, con memoria ma senza udito, sia, a maggior ragione, di quelli senza memoria.

La combinazione di memoria (che deriva dalla sensazione) + udito (che è un organo sensoriale) dà dei risultati, in ordine all’intelligenza e all’apprendimento, non conseguibili tramite gli altri sensi, per cui si potrebbe affermare che la memoria che si genera dalla sensazione uditiva possiede un valore aggiunto rispetto a quella prodotta dagli altri sensi, i quali tutti, nondimeno, concorrono alla sua formazione:

«si ha memoria [di qualcosa] […] perché lo si è udito (ékousen) o visto, o qualcosa di simile. Bisogna infatti che, quando si è nell’atto di aver memoria, nell’anima ci si dica, in questo stesso modo, che in precedenza si è udita questa cosa o che se ne ha avuto sensazione oppure che la si è pensata».[12]

Così, a tal proposito, commenta Brentano:

«Ci sono immagini anche dell’oggetto proprio di quel senso interno rivolto alla sensazione stessa, e specialmente nel ricordare abbiamo immagini di questa specie, poiché ci si ricorda di aver visto o udito qualcosa in precedenza, e simili; e dunque ci ricordiamo di un precedente vedere o udire, e senza che questi atti esistano ora in atto e possano essere sentiti, ne abbiamo in noi la rappresentazione».[13]

Come è noto, Aristotele distingue memoria da richiamo alla memoria,[14] e, di conseguenza, avere memoria o ricordare sono tutt’altra cosa rispetto a richiamare alla memoria o rammemorare. Tale differenza è, nel complesso, abbastanza chiara, come bene precisa San Tommaso: «memorari nihil aliud est quam bene conservare semel accepta… reminisci est quaedam reinventio prius acceptorum non conservatorum».[15] Mentre, cioè, la memoria è conservazione di qualcosa di acquisito, la reminiscenza suppone, invece,

«una interruzione di coscienza, una lacuna che si deve riempire […]. Perciò essa implica uno sforzo, una ricerca per riportare alla consapevolezza del soggetto quel fatto o quell’esperienza che si era dileguata».[16]

Qualche interprete[17] rileva una possibile contraddizione tra questa definizione di reminiscenza e quanto afferma ancora Aristotele: «Il richiamo alla memoria, infatti, non consiste nel riacquistare la memoria né nell’acquistarla»;[18] in realtà, così non è, dato che «l’oggetto del richiamo non è la memoria perduta, bensì una conoscenza o una sensazione di cui si aveva memoria».[19]

È opportuno, poi, osservare che nella trattazione aristotelica si parla di memoria sia in senso stretto, distinta, quindi, dalla re­miniscenza, sia in senso lato, comprensiva, dunque, anche di questa, di modo che si potrebbe affermare che per Aristotele memoria e reminiscenza costituiscano due tipi di memoria.[20]

In questo contesto il tempo riveste senza dubbio un ruolo decisivo.[21]

Lo Stagirita, a tal proposito, dichiara con convinzione che:

«Del presente nel presente non c’è memoria […], ma di ciò che è presente si ha sensazione, di ciò che non è ancora si ha speranza, di ciò che è stato si ha me­moria. Pertanto ogni memoria si dà dopo tempo.[22] Tutti gli animali che percepiscono il tempo, dunque, questi soli hanno memoria,[23] e con questa stessa <parte dell’anima> con la quale avvertono il tempo»,[24]

cioè quella che ha sede nel sensorio primo, vale a dire nel cuore.[25]

Senza dubbio, significativo è l’esplicito riferimento aristotelico agli animali che percepiscono il tempo, dal momento che solo essi, secondo il filosofo greco, hanno memoria. In effetti,

«Tous les animaux n’ont pas le sens du temps. Aristote aura probablement observé que certains animaux ne semblent pas avoir de mémoire: voulant expliquer ce phénomène, il croit en trouver la raison dans le fait qu’ils n’auraient pas le sens du temps. Faut-il en conclure que ces animaux n’ont pas de sens commun? L’auteur ne le dit pas, mais étant donné les fonctions qu’il attribue à cette faculté, il est peu probable que selon lui elle n’appartient pas à tous les animaux, même les moins évolués. On ne peut oublier que le sens commun est le fondament et le principe unificateur de la connaissance sensible».[26]

Per inciso, il problema, qui sollevato da Verbeke, è affrontato anche da Taormina, che sviluppa una discutibile argomentazione per dimostrare che la percezione del tempo non può essere riferita al senso comune:

«(a) “tous les animaux ont l’un des sens, le toucher”; en principe, donc, tous les animaux sont doués de sensation commune; (b) “tous [scil. les animaux] ne sont pas doués de la perception du temps”. À ce point il devient clair que la perception du temps ne peut être identifiée à la sensation commune, ni simplement ra­menée à elle».[27]

Credo di poter fare almeno due obiezioni a tale ragionamento: 1. mi sembra che l’espressione sensation commune sia usata dalla studiosa in due accezioni diverse: a. come senso di cui tutti gli animali sono dotati (il tatto); b. come percezione, che accomuna tutti (o quasi tutti) i sensi speciali, in grado di cogliere i sensibili comuni; perciò, ritengo che ci si trovi di fronte a una sorta di paralogismo, con una conclusione inevitabilmente errata; 2. ammesso pure che il ragionamento fosse corretto, se ne potrebbe svolgere uno simile, palesemente sbagliato, tale quindi da evidenziare la non validità anche del precedente: (a) tutti gli animali sono dotati del tatto, sensazione comune a tutti; (b) non tutti gli animali sono dotati di immaginazione (De an. III 3, 428 a 10); (c) pertanto, l’immagine (prodotto della immaginazione) non può essere una affezione della sensazione comune, che è invece quanto Aristotele afferma (De mem. 1, 450 a 10-11). L’unico passo del De memoria (2, 452 b 7-25), che Taormina ammette poter costituire un punto d’appoggio per la tesi del tempo come sensibile comune, è da lei escluso perché l’analogia tra grandezza, movimento e tempo, ivi proposta, si riferisce alla reminiscenza e non riguarderebbe, poi, la “percezione del tempo”, ma la sua “conoscenza”. Sta di fatto, però, che in un altro luogo del medesimo trattato (1, 450 a 9-12), relativo questa volta alla memoria, Aristotele mette insieme ancora grandezza, movimento e tempo e di nuovo utilizza il medesimo verbo gnōrízein (seguito, anche, dal sostantivo gnôsis)! E tutto ciò in compagnia sia di koinè áisthēsis, sia di próton aisthētikón (di cui Taormina, diversamente da altri interpreti, critica la equivalenza). Pure Ross, e non penso sbadatamente, annovera il tempo tra i sensibili comuni: «The full list of the common sensibles recognized by Aristotle is – movement and rest, number and unity, shape, size, time».[28]

Dopo tale breve digressione, torniamo al nostro tema.

Ammesso, pure, che la memoria appartenga «anche ad altri animali (etérois tisìn tôn zóōn)[29] e non soltanto agli uomini e a chi possiede opinione o intelligenza (phrónēsin)»,[30] già se essa

«fosse, invece, una delle <parti> intellettive (noētikôn) dell’anima, non apparterrebbe anche a molti altri animali, e forse nessuno di quelli privi di intelletto (tôn anoétōn),[31] poiché neppure ora appartiene a tutti,[32] dal momento che non tutti hanno sensazione del tempo»;[33]

non sembra, comunque, che avvenga lo stesso per il richiamo alla memoria, che non differisce da quella soltanto per quanto concerne il tempo (la memoria precede cronologi­camente la reminiscenza, in quanto si può rammemorare solo ciò che, posto nella memoria, non era stato poi per qualche motivo conservato),[34] ma soprattutto perché

«anche molti altri animali partecipano dell’avere memoria, mentre – per così dire – nessuno degli animali noti partecipa del richiamare alla memoria, ad eccezione dell’uomo.[35] La causa è che il richiamare alla memoria è simile a un certo sillogismo (sylloghismós tis):[36] poiché, infatti, in precedenza ha visto, ha sentito (ékousen) o ha subito un’affezione siffatta, chi richiama alla memoria argomenta sillogisticamente, e si tratta di una sorta di ricerca (zétēsis tis).[37] Ciò appartiene agli <animali> che possiedono anche <l’anima> deliberativa (tò bouleutikón), e soltanto a questi accade per natura, giacché anche il deliberare è un certo sillogismo».[38]

Siccome, poi, secondo Aristotele, gli uomini più capaci di richiamare alla memoria (anamnēstikóteroi)[39] sono quelli svelti (tachêis) e intelligenti (eymathêis), cioè inclini ad appren­dere rapidamente,[40] e poiché è la facoltà di udire i suoni (unita alla memoria) in grado di garantire, oltre alla intelligenza, la capacità di imparare (dýnamis toû manthánein),[41] non può sfuggire che, se per la genesi della memoria la percezione uditiva e le altre sensazioni sono in potenza egualmente fondamentali,[42] in­vece, per quanto concerne la reminiscenza,[43] all’udito si dovrebbe attribuire una sorta di priorità sugli altri sensi.[44]

La questione è, naturalmente, alquanto complessa, e lo sa bene Aristotele, il quale non dimentica che la rammemorazione non è indipendente da un corpo, con tutti i limiti che ciò può comportare. Così, con grande acume psicologico, descrive il fenomeno nel modo seguente:

«Del fatto che si tratti di un’affezione corporea e che il richiamo alla memoria sia ricerca di un’immagine in ciò che è siffatto,[45] è segno (sēmêion) che certuni si tormentano quando non riescono a richiamare alla memoria ancorché sia forte il proposito del loro intendimento e che <il tormento> non diminuisca anche se non tentano più di richiamare alla memoria, soprattutto i melancolici: le immagini muovono soprattutto costoro. Causa del fatto che il richiamo alla memoria non sia in loro potere è che, come quelli che scagliano qualcosa non hanno più il potere di trattenerla, così anche chi richiama alla memoria e va a caccia <di un’immagine> muove una <parte> corporea, nella quale si trova l’affezione».[46]

Sappiamo, per esperienza, che a volte, proprio allorché rinunciamo davvero a richiamare alla memoria quanto stiamo cercando, improvvisamente, quando meno ce l’aspettiamo, riaffiora il ricordo tanto agognato. William James ha rilevato questo interessante spunto psicologico, con semplici e poche parole:

«Something we have made the most strenuous efforts to recall, but all in vain, will, soon after we have given up the attempt, saunter into the mind as innocently as if it had never been sent for».[47]

Comunque sia, il fenomeno mnestico presenta ancora oggi molti aspetti oscuri ed enigmatici. Belardi, che in questo frangente non mi pare tenga in adeguata considerazione la distinzione aristotelica tra memoria e reminiscenza, per esempio afferma:

«È sufficiente invocare la facoltà della memoria quale facoltà che potrebbe conferire, mediante il ricordare, una certa stabilità al fuggevole? Ma la memoria è una facoltà complicata, ora capace di renderti presente un accadimento distante molti decenni (e attraverso quale trasfigurazione!), ora incapace regolarmente di farti ripetere verbatim una frase altrui (o propria!) pronunciata pochi secondi prima».[48]

Un altro aspetto sembra emergere a proposito del tempo in relazione a memoria (in senso lato) e udito. Opportunamente Verbeke cita proprio quest’ultimo, come elemento peculiare (benché non esclusivo) della percezione del tempo:

«la multiplicité présente dans la succession du mouvement est fournie par un sens particulier, celui qui saisit le changement en question; s’il s’agit de la succession des sons dans une mélodie, ce sera l’ouïe».[49]

Si tratta proprio del tipo di esempio cui lo stesso Aristotele ricorre, quando tratta della percezione degli accordi in una successione di istanti, che possono sembrare simultanei, tanto i tempi intermedi sono impercettibili.[50]

È opportuno, inoltre, citare qualche altra circostanza di connessione tra udito e ricordo, in cui si evidenzia che non solo (in base alla definizione di memoria) si ricorda per aver sentito, ma anche si ascolta (più o meno volentieri, a seconda delle situazioni) per ricordare, o si prova una certa affezione tramite, ciò che si è in precedenza ascoltato o sperimentato.

Aristotele, per esempio, nella Etica Nicomachea così afferma:

«L’uomo magnanimo è portato a beneficare, ma si vergogna di ricevere benefici, perché la prima cosa è tipica di chi è superiore, la seconda di chi è inferiore […]. […] Egli ascolta con piacere quando gli si ricordano i benefici fatti, e con dispiacere quando gli si ricordano quelli subiti […]»;[51]

oppure nella Poetica, riguardo alle diverse specie di riconoscimento, egli propone la seguente spiegazione:

«Una terza specie [di riconoscimento] è quella che avviene ad opera della memoria,[52] quando ci si rende conto alla vista [o all’ascolto] di qualcosa, come nei Cipri di Diceogene <il prota­gonista> scoppiò in pianto, vedendo il dipinto, e nella Narrazione di Alcinoo [Odisseo] pianse, ascoltando il citaredo e ricordandosi, donde vennero riconosciuti».[53]

Quando, poi, a proposito dei brividi (in particolare dovuti a suoni sgradevoli),[54] nei Problemata si dice che, relativamente alle impressioni uditive, «rabbrividiamo nell’attesa, aspettandoci da esse un vero fastidio fisico»,[55] tale fenomeno non potrebbe spiegarsi senza che si ricorra al ricordo di precedenti circostanze simili.

Analogamente, sembra così potersi risolvere una questione di tipo musicale: come, infatti, altrimenti render conto del fatto che si preferisca ascoltare melodie o canti conosciuti piuttosto che completamente nuovi?

Si legge, infatti, sempre nei Problemata:

«Perché piace sentire canti già noti piuttosto che ignoti? Forse perché è più chiaro il raggiungimento di un fine, per così dire, da parte dell’esecutore, quando chi assiste all’esecuzione[56] conosce già ciò che viene cantato, e ciò gli è gradito?[57] Oppure perché ci piace imparare?[58] Ne è causa, da una parte, il fatto di acquisire la conoscenza, dall’altra di utilizzarla e di riconoscerla. Inoltre ciò che è abituale ci è più gradito di ciò che non lo è».[59]

Si noti come l’ascolto di ciò che, essendo stato già ascoltato, viene rammemorato, produca un piacere maggiore, proprio per il richiamo alla memoria, grazie almeno a tre motivi: innanzitutto, l’uditore è in grado di anticipare ciò che verrà eseguito, e già questo è di notevole soddisfazione; in secondo luogo, grande gioia procura l’apprendimento che, come sappiamo, è facilitato da udito e memoria; infine, un ascolto ripetuto crea una abitudine, la quale, in qualità di quasi seconda natura, è per Aristotele assai piacevole.[60]

Un ulteriore spunto ci viene offerto ancora dai Problemata. Si tratta, senza dubbio, di un’altra intuizione, fine dal punto di vista psicologico, di un fenomeno probabilmente capitato a molti, che può, da un lato, essere un po’ semplicisticamente ricondotto alla situazione della ‘mente sgom­bra’, dall’altro, richiamare vagamente il concetto di imprinting.

Eccone il testo:

«Quando possediamo delle conoscenze, non possiamo più apprendere allo stesso modo, ma possiamo attenerci a quelle che abbiamo: così per esempio, ci ricordiamo meglio di quelli che abbiamo incontrato per primi al mattino; poi con l’avanzare del giorno non ne siamo più ugualmente capaci, perché abbiamo incontrato più persone».[61]

È proprio ciò che accade molto facilmente con l’ascolto (ma ciò vale, naturalmente, anche per gli altri sensi): si pensi a come tende a scemare vistosamente l’attenzione che prestiamo a un discorso, perfino di un interlocutore con cui si sta dialogando. Ed effettivamente, è più facile, in genere, ricordare le prime battute, anziché quelle successive, dal momento che col passare del tempo ci si lascia distrarre da altri pensieri o sensazioni.

 

Ancora un’ultima osservazione.

È noto che, qualora uno dei nostri sensi sia menomato, i rimanenti (e qualcuno in particolare) vengono in certa misura potenziati. Per esempio, i sordi, proprio perché investono moltissima attenzione nella vista, sviluppano una abilità imitativa straordinaria, tale da riuscire a cogliere ed esprimere anche le minime sfumature comportamentali di una persona, che altri con fatica riuscirebbero a descrivere. In sostanza, sono dei bravissimi caricaturisti.

Ebbene, in modo analogo, ma a rovescio, i ciechi investono tantissimo nell’udito, che in loro si affina in modo eccezionale. Di questo si è reso conto, evidentemente, Aristotele. In un passaggio dell’Ethica Eudemia, dice che «i ciechi ricordano (mnēmonéuousi) meglio, essendo la loro memoria (tò mnēmonêuon) libera da ciò che concerne il visibile»,[62] dove, grazie ad un dato di esperienza, si conferma l’idea avanzata fin dall’inizio del nostro discorso, di un rapporto privilegiato, cioè, tra memoria e udito (rispetto agli altri sensi).[63] Alla eventuale obiezione, che a seconda del tipo di menomazione si avrebbe un’inversione dei fattori in gioco, per cui il sordo dimostrerebbe una notevole memoria visiva, si può sempre ri­spondere, aristotelicamente (ma non solo), che nel caso della memoria uditiva c’è il valore aggiunto della (maggiore) capacità di imparare.[64]

Come non ricordare, infatti, che riguardo al pensiero l’udito è per Aristotele più importante della stessa vista, in quanto esso, nonostante in confronto a questa percepisca una gamma inferiore di differenze, almeno per accidente contribuisce maggiormente all’incremento intellettivo,[65] dato che il parlare, proprio perché udibile e co­stituito di parole, che sono suoni simbolici, anche in questo caso indirettamente, favorisce l’apprendimento? L’udito rispetto alla vista percepisce

«soltanto le differenze del suono, e in pochi <animali> anche quelle della voce. Per accidente (katà symbebēkós),[66] tuttavia, l’udito concorre al pensiero (phrónēsin) in una parte maggiore: il discorso (ho lógos), infatti, essendo udibile (akoustós),[67] è causa di apprendimento (mathéseôs),[68] non per sé bensì per accidente,[69] giacché è composto di nomi e ciascun nome è un simbolo (sýmbolon).[70] Pertanto tra quelli che sono privi di una delle due facoltà percettive fin dalla nascita, i ciechi (hoi typhlói) sono cognitivamente più avvantaggiati (phronimóteroi) rispetto ai sordomuti (tôn eneôn kài kōphôn) [lett.: muti e sordi]».[71]

[1] Metaph. A 1, 980 a 27 – 980 b 25, in Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20045 (I ed. 2000), pp. 2-3 (corsivi miei). Cfr. G. Romeyer Dherbey, Voir et toucher. Le problème de la prééminence d’un sens chez Aristote, «Revue de Métaphisique et de Morale», 96, 4 (1991), pp. 445-446, sebbene l’autore sembri attribuire alla vista un ruolo primario. Si veda anche O. Ballériaux, En relisant le début de la Métaphysique (A 1, 980 a 21 – 981 a 12), in A. Motte, Ch. Rutten (sous la direction de), Aristotelica. Mélanges offerts à Marcel de Corte, Cahiers de philosophie ancienne, III, Éd. Ousia Bruxelles & Pr. Univ., Paris 1985, pp. 45-54, ma sp. pp. 46-48, dove l’autore analizza Metaph. A 1, 980 a 27 – 981 a 5 in parallelo con An. post. II 19, 99 b 34 – 100 a 9, evidenziando sorprendenti corrispondenze.

[2] Cfr. Metaph. A 1, 980 a 21-27.

[3] Nel significato dato da Ferdinand De Saussure a tale concetto.

[4] W. Belardi, Linguistica generale, filologia e critica dell’espressione, Bonacci, Roma 1990, p. 140.

[5] Cfr. An. Post. II 19.

[6] J.-L. Labarrière, Imagination humaine et imagination animale chez Aristote, «Phronesis», 29 (1984), p. 24.

[7] Ibidem (corsivi miei). Cfr. pure, del medesimo studioso, De la phronesis animale, in D. Devereux, P. Pellegrin (publiés par), Biologie, logique et métaphysique chez Aristote. Actes du séminaire CNRS-NSF, Éditions du Centre national de la recherche scientifique, Paris 1990, pp. 409-410).

[8] D.P. Taormina, Perception du temps et mémoire chez Aristote: «De memoria et re­minis­centia», 1, «Philosophie Antique», 2 (2002), p. 52 (corsivi miei), con un rinvio a De anima III 3, dove «on trouve une première chaîne, sensation-imagination, avec la précision que “la plupart” des bêtes, mais pas toutes, sont pourvues d’imagination (428 a 22 […])» (ibidem).

[9] Cfr. anche Ballériaux, En relisant le début de la Métaphysique, cit., p. 50.

[10] Cfr., nell’ambito del Corpus aristotelicum, per esempio, De part. an. II 8, 653 b 22-23 e III 4, 666 a 34; De gen. an. I 23, 731 b 4-5; II 1, 732 a 12-13; 3, 736 a 29-31; 736 b 1; 5, 741 a 9-12 e V 1, 778 b 32-33; De inc. an. 4, 705 b 8-22.

[11] Riguardo alle api (che, peraltro, sorprendentemente, per lo Stagirita sono più intelligenti anche di alcuni animali sanguigni: cfr. De part. an. II 2, 480 a 5-7 e 4 650 b 24-27), nell’«Histoire des animaux (IX, 40), Aristote est moins affermatif: on ne sait pas, dit-il, si les abeilles ont ou n’ont pas le sens de l’ouïe» (A.-Ed. Chaignet, Essai sur la Psychologie d’Aristote, Hachette, Paris 1883 [Culture et Civilisation, Bruxelles 1966], p. 403). Invero, in alcuni passaggi si dà per scontato il possesso dell’udito da parte loro. Comunque sia, recentemente si è ribadito che «l’abeille, qui est intelligente, est malheureusement sourde» (M. Crubellier, P. Pellegrin, Aristote: le philosophe et les savoirs, Éd. du Seuil, Paris 2002, p. 89, corsivi miei).

[12] De mem. 1, 449 b 21-23, cfr. La memoria e il richiamo alla memoria, in Aristotele, L’anima e il corpo. Parva Natura­lia, a cura di A.L. Carbone, Bompiani, Milano 2002, traduzione lievemente modificata, pp. 130-133 (corsivi miei)

[13] F. Brentano (1867), La psicologia di Aristotele, con particolare riguardo alla sua dottrina del nous poietikos, trad. it. di B. Maj e R. Sega, Pitagora, Bologna 1989, p. 110 (corsivo mio). «Grâce à son union con­stante avec les différents sens, la mémoire se rappelle ce qu’on a vu ou entendu autrefois» (G. Verbeke, La perception du temps chez Aristote, in A. Motte, Ch. Rutten (sous la direction de), Aristotelica, cit., p. 370, corsivi miei).

[14] Su analoga, ma diversa, distinzione platonica, cfr. M. Giorgiantonio (a cura di), Della memoria e della reminiscenza di Aristotele, Carabba, Lanciano 1938, nota 1, pp. 59-60 e A. Riccardo, Immaginazione e reminiscenza. (Qualche considerazione sul De memoria et reminiscentia di Aristotele), in L. Formigari, G. Casertano, I. Cubeddu (a cura di), Imago in phantasia depicta. Studi sulla teoria dell’immaginazione, Carocci, Roma 1999, nota 1, p. 123.

[15] S. Thom. 301, citato da R. Laurenti (a cura di), Aristotele. Della memoria e della reminiscenza (Piccoli trattati di storia naturale), in Aristotele, Opere, 4, Laterza, Roma-Bari 1983, nota 162, p. 237.

[16] Ibidem. «In Aristotle we already have a sophisticated model of storage and retrieval that discriminates between memory and recollection in terms of static and dynamic modes of memory» (Th. Wägenbaur, Memory and Recollection: The Cognitive and Literary Model, in Th. Wägenbaur (a cura di), The poetics of memory, Stauffenburg, Tübingen 1998, pp. 12-13). Tale concetto viene sviluppato da Berndt nei termini seguenti: «In the dual concept of memory-writing, the passive (mnémē) and active (anámnēsis) valences of memory are differentiated from one another. Aristotle links “memory” (mnémē) or, to be more precise, the ability to remember (mnēmonéuein) to the same “part of the soul” as imagination (phantasía) (449 b). […] In anámnēsis, Aristotle differentiates the sensual-passive power mnémē from the activation of the memories of the past […]. […] anámnēsis, as a genuinely linguistic phenomenon, is conse­quently explicitly assigned by Aristotle to reason» (F. Berndt, Aristotle: towards a poetics of me­mory, in Wägenbaur (a cura di), The poetics of memory, cit., pp. 25-28).

[17] Cfr., per esempio, Riccardo, Immaginazione e reminiscenza, cit., p. 123.

[18] De mem. 2, 451 a 20-21, trad. cit., pp. 138-139.

[19] Movia (a cura di), Aristotele. L’anima, Bompiani, Milano 20032 (I ed. 2001), nota 16, p. 305.

[20] Cfr. J. Annas, La memoria e l’io in Aristotele, in G. Cambiano, L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, led, Milano 1993, pp. 119-144, dove la studiosa, per chiarire la distinzione aristotelica fra memoria e reminiscenza, propone quella tra memoria personale e memoria non personale.

[21] Cfr. Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., pp. 351-377; L. Ruggiu, Anima e tempo in Aristotele, in L. Ruggiu,  (a cura di), Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini, Milano 1997, pp. 37-62; Taormina, Perception du temps et mémoire chez Aristote, cit., pp. 33-61.

[22] Cfr. De mem. 1, 449 b 24-25; 450 a 19-22 e 451 a 29 – 451 b 2. Si veda, pure, Chaignet, Essai sur la Psychologie d’Aristote, cit., p. 456; Brentano, La psicologia di Aristotele, cit., p. 110 e Morel (a cura di), Aristote. Petits traités d’histoire naturelle, cit., nota 24, p. 112.

[23] Cfr. Taormina, Perception du temps et mémoire chez Aristote, cit., p. 58.

[24] De mem. 1, 449 b 25-30, trad. cit., un po’ modificata, pp. 132-133 (corsivi miei). Cfr. anche ivi, 450 a 9-15. Si tratta della facoltà del senso comune, che percepisce sensibili comuni come la grandezza e il movimento: «È necessario, poi, avere nozione della grandezza e del movimento con la <parte dell’anima> con la quale si ha no­zione anche del tempo, e l’immagine è un’affezione della sensazione comune. Pertanto è evi­dente che la conoscenza di queste cose compete al sensorio primo. Ora, la memoria, anche quella degli intelligibili, […] apparterrebbe per accidente alla <par­te> intellettiva e per sé al sensorio primo. […] Che cos’è dun­que la memoria e l’avere memoria lo si è detto […]; si è detto a quale delle no­stre parti ap­par­tengono, ov­vero al sensorio primo; e si è detto che con questa <parte> abbiamo la sensazione del tempo» (De mem. 1, 450 a 9-14 e 451 a 14-17, trad. cit., pp. 132-135 e 138-139, corsivi miei). Cfr. Taormina, Perception du temps et mémoire chez Aristote, cit., p. 57 e Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., nota 51, p. 370.

[25] «Por consigujente, sólo tendrán memoria aquellos animales que perciban el tiempo. Más aun, el órgano de la memoria será en ellos el mismo con el cual perciben el tiempo (449 b 28-30). Dichos animales son los mismos a los cuales (Metaph. 980 b) les atribuye la capacidad de aprender. Y el órgano por el cual perciben el tiempo es el corazón, en cuanto éste resulta ser el órgano del sentido común […]. […] Este es el órgano mediante el cual el sentido común capta los sensibles comunes, esto es, unifica las cualidades percibas por los deferentes sentidos externos, como es el caso del tiempo, percibido por todos los sentidos que captan el movimiento» (Á.J. Cappelletti, Memoria y reminiscencia en Aristoteles, «Revista Venezolana de Filosofia», 22 (1986), p. 75; cfr. anche pp. 78-79, 96, 124-125, 127). Si vedano W.D. Ross (a cura di), Aristotle’s Parva naturalia, Clarendon Press, Oxford 1955, Introduction, pp. 34-35 e J.E. Sisko, Space, time and phantasms in Aristotle, De Memoria 2, 452 B 7-25, «Classical Quarterly», N.S. 47, 1 (1997), pp. 167-168.

[26] Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., nota 40, p. 367.

[27] Taormina, Perception du temps et mémoire chez Aristote, cit., p. 47.

[28] W.D. Ross (a cura di), Aristotle’s Parva naturalia, cit., Introduction, p. 34 (corsivo mio).

[29] Giorgiantonio, erroneamente, traduce «a tutti gli altri animali» (Giorgiantonio (a cura di), Della memoria e della reminiscenza di Aristotele, cit., p. 40).

[30] De mem. 1, 450 a 15-16, trad. cit., lievemente modificata, pp. 134-135. Cfr. Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., p. 357.

[31] «Les manuscrits donnent thnētôn (mortels). La correction adoptée par D. Ross donnait anoétōn (privés de pensée). La leçon manusrite peut être conservée si l’on comprend ainsi l’argument d’Aristote: si la mémoire était une fonction purement noétique, elle n’appartiendrait pas, comme c’est le cas, à un grand nombre d’animaux. En outre, c’est en sentant le temps que ceux-ci se souviennent, si bien qu’aucun mortel, l’homme y compris, ne pourrait faire usage d’une mémoire purement intellectuelle» (Morel (a cura di), Aristote. Petits traités d’histoire naturelle, cit., nota 9, p. 107).

[32] Molto probabilmente, una parentela lega la memoria alla phantasia, se non altro per la appartenenza a ciò che le accomuna, ma forse pure per qualcosa di più: «Dunque a quale delle <parti> dell’anima appartenga la memoria è evidente, vale a dire che sia quella alla quale appartiene anche l’immaginazione, e anche che sono oggetti per sé di memoria le cose che sono oggetto di immaginazione, mentre lo sono per accidente le cose che non sono senza immaginazione» (De mem. 1, 450 a 22-25, trad. cit., pp. 134-135). Cfr. Lanza (a cura di), La memoria e il richiamo alla memoria. De memoria et reminiscentia, in Brevi opere di Psicologia e Fisiologia. Parva Naturalia, in Aristotele, Opere biologiche, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, utet, Torino 19962 (I ed. 1971), nota 8, p. 1125; Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., nota 45, p. 369; S. Everson, Aristotle on perception, Clarendon Press, Oxford 1997, nota 61, p. 167. A questo punto, è possibile azzardare una ipotesi: alla base di tutto c’è il possesso o meno della immaginazione, la quale rende possibile la memoria, che presuppone la percezione del tempo, implicata, perciò, anch’essa dalla phantasia; in conclusione: non tutti gli animali sono dotati di memoria, poiché non tutti hanno la percezione del tempo, come non tutti sono provvisti di immaginazione.

[33] De mem. 1, 450 a 16-19, trad. cit., lievemente modificata, pp. 134-135. Il tenta­tivo di non escludere dalla percezione del tempo alcuni viventi privi di intelletto sembra contraddire ciò che altrove Aristotele afferma: «si producono tendenze che sono contrarie le une alle altre, e ciò avviene qualora la ragione (ho lógos) e i desideri siano contrari, e si verifica negli esseri che hanno la percezione del tempo (infatti l’intelletto [ho noûs] ordina di resistere in vista del futuro, mentre il desiderio comanda sulla base del presente […])» (De an. III 10, 433 b 5-8, trad. cit., pp. 236-237, corsivi miei), dove pare che ci si possa riferire soltanto agli uomini.

[34] Nella rammemorazione, pertanto, «encore la perception du temps joue un rôle capital» (Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., p. 371). È interessante registrare una distinzione che Aristotele attua nel De anima: egli afferma che nell’anima c’è movimento, ma esso «talora giunge sino a lei, talora parte da lei. Ad esempio la sensazione muove da determinati oggetti, mentre il richiamo alla memoria muove dall’anima verso i mutamenti o tracce che permangono negli organi sensoriali» (De an. I 4, 408 b 16-18, trad. cit., pp. 92-93, corsivi miei). Everson in questa occasione traduce anámnēsis con memory! (cfr. Everson, Ari­stotle on perception, cit., p. 68).

[35] Cfr. Annas, La memoria e l’io in Aristotele, cit., pp. 128-129.

[36] «La plupart des êtres vivants ont conscience de leurs représentations passées en tant que passées: ils ont en quelque manière la notion du temps. À l’imagination s’associe donc, outre le désir et le plaisir, la mémoire, que beaucoup d’animaux possèdent sans s’élever à la réminiscence, privilège de l’homme; car la réminiscence est la faculté qui, par une sorte de méthode syllogistique, peut à volonté reproduire ce qui a été saisi par la mémoire; c’est l’acte de la mémoire unie à la pensée» (Chaignet, Essai sur la Psychologie d’Aristote, cit., pp. 428-429). A rigore, non si dovrebbe parlare di sillogismo (nel senso stretto di deduzione), ma di inferenza dall’effetto alla causa: cfr. Cappelletti, Memoria y reminiscencia, cit., pp. 122-123; M. Maniou-Vakali, Some Aristotelian views on learning and memory, «Journal of the His­tory of the Behavioral Sciences» (Brandon, Vt. Clinical Psychol. Pub. Co.), 10 (1974), p. 51 e Riccardo, Immaginazione e reminiscenza, cit., p. 130 (con nota 18).

[37] «C’est qu’elle est une sorte de raisonnement; elle est une investigation et est investie d’un caractère dianoétique: elle ne peut appartenir qu’aux êtres capables de délibérer. Celui qui essaie de se rappeler une connaissance antérieure procède de façon analogique à quelqu’un qui délibère sur une décision à prendre ou une action à poser […]. […] Aristote est persuadé que cette méthode peut s’appliquer avec succès et conduire ainsi à surmonter l’oubli et à redécouvrir des connaissances qui s’étaient perdues. L’oubli n’est donc pas toujours définitif: en un certain sens l’homme est maître de ses oublis» (Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., pp. 371-372). Perciò si può anche affermare: «Ce n’est donc pas une opération instinctive, comme celle de la mémoire retentive, c’est une opération voulue, calculée, un travail réfléchi et combiné en vu d’une fin, un raisonnement délibéré, dont les animaux capables de mémoire ne sont pas tous capables. La réminiscence forme un trait caractéristique de l’homme qui, seul, a cette faculté, précisément parce qu’elle est un syllogisme» (Chai­gnet, Essai sur la Psychologie d’Aristote, cit., p. 458). Cfr. Annas, La memoria e l’io in Ari­stotele, cit., p. 141.

[38] De mem. 2, 453 a 7-14, trad. cit., lievemente modificata, pp. 148-149 (corsivi miei). Cfr. L. Bourgey, Observation et expérience chez Aristote, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris 1955, note 6 e 7, p. 49; Riccardo, Immaginazione e reminiscenza, cit., pp. 130-131 e Annas, La memoria e l’io in Aristotele, cit., pp. 136 e 138.

[39] «Quando […] si recupera una conoscenza che si aveva precedentemente o una sensazione o ciò il cui possesso (héxin) si chiama memoria, questo allora è richiamare alla memoria una delle cose di cui si è detto. Si verifica l’aver memoria e la memoria stessa ne consegue. Questo tuttavia non avviene in modo assoluto, vale a dire che, se certe cose sono accadute in passato, pertanto si ingenerano nuovamente: piuttosto, a volte accade, altre volte no. Infatti è possibile che lo stesso <uomo> impari o scopra due volte la stessa cosa» (De mem. 2, 451 b 2-8, trad. cit., lievemente modificata, pp. 140-141). Cfr. Chaignet, Essai sur la Psychologie d’Aristote, cit., pp. 456-457. Sulla resa di héxis con possesso, e non abito, concordo con Mugnier (Mugner, a cura di, p. 58) e Morel (p. 112), che traducono “possession”. Cfr., invece, Annas, La memoria e l’io in Aristotele, cit., pp. 134 e 141 (e, in particolare, su 451 b 4-6, p. 140).

[40] Cfr. De mem. 1, 449 b 7-8. «Il termine che più degli altri appare significante è eymathêis. L’apprendimento (máthēsis) per Aristotele comporta sempre una serie di processi mentali di semplificazione e di astrazione (cfr. già Top., 141a 28). Per la facilità di apprendere (eymátheia) strettamente collegata all’anchínoia [perspicacia] vale ciò che di questa seconda Aristotele afferma in An. post., 89b 10: essa consiste nel rendersi conto rapidamente (tachỳ ennoêin) di quale sia il termine medio (tò méson) del sillogismo, cioè della causa» (Lanza (a cura di), La memoria e il richiamo alla memoria, cit., nota 1, p. 1121).

[41] Cfr. Metaph. A 1, 980 b 22-25, ma pure De sensu 1, 437 a 10-17.

[42] Cfr., per esempio, De mem. 1, 449 b 21-23; 450 a 20-21; 451 a 6-7; 2, 453 a 10-11.

[43] «La remémoration n’est-elle pas la même chose que le processus par lequel on apprend ou acquiert des connaissances nouvelles? […] Pour Aristote il y a une différence indéniable entre apprendre et se remémorer en ce sens que dans ce dernier cas le point de départ est bien plus ample que dans le premier [«Le point de départ est un état d’oubli: celui-ci n’est pas une absence totale de connaissance. Si l’on a oublié quelque chose, c’est qu’on l’a ap­pris un jour (Rhetorica, II, 19, 1392b18). Tout acte laisse des traces dans le dévéloppement de la vie» (nota 56)]: celui qui apprend s’acquiert une connaissance qu’il ne possédait pas auparavant, tandis que dans le cas de la remémoration il s’agit de la redécouverte d’un savoir qui a été présent dans la conscience, mais qui est effacé» (Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., pp. 372-373). (Cfr., a tal proposito, Manoiu-Vakali, Some Aristotelian views on learning and memory, cit., p. 50, che parla di “relearning”). Questo, co­munque, non significa per Aristotele che il processo di apprendimento abbia come punto di partenza una tabula completamente rasa: proprio all’inizio degli Analitici secondi egli afferma che ogni apprendimento, fondato sul pensiero discorsivo, si sviluppa da conoscenze preesistenti (cfr. An. post. I 1, 71 a 1-17).

[44] «L’importanza dell’orecchio non sarà mai troppo sopravvalutata. Una delle sue funzioni è di aiutarci a ricordare e a rammemorare; ciò significa non solo che l’orecchio ha un collegamento essenziale con la memoria, ma che ci costringe anche a usare il pensiero. Il ricordo, dopo tutto, è memoria accompagnata dal pensiero […]. La memoria è qualcosa che ci viene subito in aiuto, mentre il ricordo arriva solo grazie alla riflessione e allo sforzo individuale. Il fatto che il sistema uditivo sia fisicamente vicino alle parti del cervello che regolano la vita spiega l’intelligenza dell’orecchio» (D. Barenboim, La musica sveglia il tempo, traduzione di L. Noulian, Feltrinelli, Milano 2007, p. 30). Queste parole sembrano davvero una sintesi del pensiero aristotelico su memoria e reminiscenza! Poco prima il medesimo autore afferma: «Nel cervello il sistema uditivo occupa uno spazio più piccolo di quello occupato dal sistema visivo. Tuttavia il neuroscienziato Antonio Damasio sostiene che il sistema uditivo è fisicamente più vicino alle parti del cervello che regolano la vita; in queste aree si sviluppano le sensazioni di dolore, piacere, gli impulsi e altre emozioni basilari. Inoltre, le vibrazioni fisiche che si risolvono in sensazioni sonore sono una variazione del senso del tatto – esse modificano il corpo in maniera diretta e profonda, più di quanto non facciano le forme di luce che si concretizzano nelle immagini» (ivi, pp. 29-30).

[45] Morel, che qui traduce «dans quelque chose <de corporel>» (Morel (a cura di), Aristote. Petits traités d’histoire naturelle, cit., p. 119), così spiega: «L’organe sensoriel principal, à savoir le cœur» (nota 35, ibidem).

[46] De mem. 2, 453 a 14-23, trad. cit., pp. 148-151.

[47] W. James, The princi­ples of psychology, MacMillan and Co., London 1901, I, p. 681. Cfr. Cappelletti, Memoria y reminiscencia, cit., p. 123.

[48] Belardi, Linguistica generale, filologia e critica dell’espressione, cit., p. 140.

[49] Verbeke, La perception du temps chez Aristote, cit., p. 361. Può essere utile citare una serie di parole riportate da Wägenbaur, particolarmente interessanti per la loro parentela semantico-concettuale: «Die “Laute” (the instrument), laut* (loud), Laute* (sounds), lauter* (mere, as in “lauter Erinnerungen” meaning mere recollections), lauter* (pure), “auf der Lauer liegen” (lying in wait), and lauschen* (lying in wait, listening to) [«Words marked with an asterisk are not actually in but implied by the German text», nota 52, p. 19]» (Wägenbaur, Memory and Recollection, cit., pp. 18-19).

[50] Cfr. De sensu 7, 448 a 1 sgg. Certo, è solo con Agostino che si compie il passo ulteriore, quello di intrecciare fra loro i tre elementi: tempo, memoria, musica (canzone). Cfr. Sant’Agostino, Le confessioni, XI, 28, introd. di Ch. Mohrmann e trad. it. di C. Vitali, Riz­zoli, Milano 198710, pp. 333-334 (dove, però, il traduttore discutibilmente rende canticum con carme). A conferma di ciò: «L’orecchio crea il collegamento fra presente e passato, e manda segnali al cervello riguardo a ciò che ci si può aspettare nel futuro. Di una sequenza musicale noi ricordiamo la prima esposizione e la memoria uditiva ci porta ad aspettarci di udirla di nuovo» (Barenboim, La musica sveglia il tempo, cit., p. 32).

[51] Eth. Nic. IV 8, 1124 b 10-15, in Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 20033 (I ed. 1999), traduzione lievissimamente modificata, pp. 146-147. Un tipo di felicità, infatti, consiste nella buona reputazione (eydoxía) presso gli uomini, che nasce «quando si sente [parlare] bene [di sé] » (Divis. 28 col 1. 3-4, in Aristotele e altri autori, Divisioni, a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 242-243).

[52] Cfr. Maniou-Vakali, Some Aristotelian views on learning and memory, cit., p. 50, che parla di “recognition”.

[53] Poet. 16, 1454 b 37 – 1455 a 4, in Aristotele, Poetica, a cura di D. Pesce, Rusconi, Milano 1995 traduzione un po’ modificata, pp. 98-99 (corsivi miei).

[54] Cfr. Probl. VII 5, 886 b 9-34 e XXXV 3, 964 b 33-38; De audibilibus 802 b 29 – 803 a 5.

[55] Probl. VII 5, 887 a 1-3, in Aristotele, Problemi, a cura di M.F. Ferrini, Bompiani, Milano 2002, pp. 124-125.

[56] Vale a dire, «l’auditeur» (Ch.-Ém. Ruelle, Problèmes musicaux d’Aristote, «Revue des Études Grecques», 4 (1891), p. 238).

[57] «En l’entendant de nouveau» (Ruelle, Problèmes musicaux, cit., nota 7, p. 238). «Il theōrêin (lat. spectare, contemplari) è inteso dal Bojesen [F. Bojesen, De Problematis Aristotelis, Hafniae 1836] nel senso di contemplazione filosofica, che talvolta ha in Aristotele: cfr. De anima, II, 1 e Phys., VIII, 3. Meglio traduce l’Egger [cfr. M.É. Egger, Essai sur l’histoire de la critique chez les grecs, suivi de la Poetique d’Aristote et d’extraits de ses Problèmes avec traduction française et commentaire, Durand, Paris 1849]: “c’est un plaisir pour l’auditeur” annotando che qui, come nel probl. 43, “theōrêin et le substantif correspondant theōrós s’appliquent très bien à toutes les sensations que peut donner le spectacle, aux akroáseis comme aux theámata”» (Marenghi (a cura di), Aristotele. Problemi musicali (libro xix), Sansoni, Firenze 1957, nota 2, p. 90).

[58] «A delucidazione, cfr. l’inizio della Metafisica aristotelica 980 a, b, ove si afferma che il conoscere piace e che tutti naturalmente desiderano conoscere. Però va osservato che qualsiasi musica, essendo in genere più difficile di una poesia, discopre i suoi valori per progressivi approfondimenti. Una musica che si sente per la prima volta è difficile che la si intenda tutta: l’audizione del noto, con la possibilità di approfondire, permette ugualmente di “fare scienza” e tanto maggiore quanto più la comprensione del brano sarà raggiunta appieno. Di qui il piacere che arreca la musica nota, non però troppo continuamente ripetuta, a meno che non si tratti di autentico capolavoro, che mai produce tedio» (Marenghi (a cura di), Aristotele. Problemi musicali, cit., nota 3, pp. 90-91).

[59] Probl. XIX 5, 918 a 3-9, trad. cit., pp. 276-277 (cfr. anche il Problema XL). «La prima impressione di un’opera completamente nuova doveva dunque avere per la più gran parte del pubblico antico qualcosa d’indeciso, per conseguenza di poco piacevole. E questo, per il carattere proprio della melodia omofona, “nella cui esecuzione – avverte il Gevaert, Mélopée antique dans le chant de l’église latine, [Librairie générale de ad. Hoste] Gand, 1903, p. 123 sg. – le funzioni armoniche non si determinano per la percezione uditiva che a poco a poco, l’una dopo l’altra, e l’armonia totale non si rivela completamente al senso estetico che con l’ultima nota del periodo musicale, onde la composizione è, per così dire, retrospettiva”» (Marenghi (a cura di), Aristotele. Pro­blemi musicali, cit., nota 4, p. 91, corsivo mio). In effetti, la «musique homophone […] est lente à produire se effets et s’insinue dans l’âme au lieu de l’envahir de force. Elle ne parvient à agir efficacement qu’à la longue, par les souvenirs, les associations d’idées et les réflexions qu’elle suggère» (F.A. Gevaert, J.C. Vollgraff, Les Problèmes musicaux d’Aristote, Librairie Générale de Ad. Hoste, Gand 1899, 1903, p. 330, corsivi miei).

[60] Con la conseguenza che, «in ogni caso, le ripetizioni sono facilmente riconoscibili dall’orecchio educato» (Baren­boim, La musica sveglia il tempo, cit., p. 33).

[61] Probl. XXX 5, 956 a 6-10, trad. cit., pp. 452-453. Maniou-Vakali, Some Aristotelian views on learning and memory, cit., p. 54, riguardo a questa citazione, scrive che essa «is very interesting because it implies the interference idea».

[62] Eth. Eud. VIII 2, 1248 b 1-3, trad. cit, pp. 189 (corsivi miei). Donini, nella sua edizione, traduce: «i ciechi hanno più memoria dato che, venuta meno l’attività intorno agli oggetti della vista, la facoltà della memoria funziona meglio» (Aristotele, Etica Eudemia, a cura di P. Donini, Laterza, Roma-Bari 20052, p. 189).

[63] Da vista e udito «noi deriviamo le conoscenze più estese: la memoria di questi due sensi è la più precisa, specie quella dell’udito […]. […] Torpida l’intelligenza [nel caso di individuo sordo senza opportuna educazione] è torpida la memoria, la quale conduce al linguaggio. […] Secondo le esperienze di L.G. Whitehead [A study of visual and aural memory pro­cesses, «Psychological Review», 3 (1896), p. 258] e C.J. Hawkins [Experiments on memory types, «Psychological Review», 4 (1897), p. 258] la ritentiva è più forte per materie memorizzate con l’udito che con la vista. Il Ferrari ha fatto uno studio comparativo sulla memoria di 24 sordomuti dai 10 ai 19 anni dell’Istituto Pendola di Siena e ne ha concluso per l’inferiore facoltà mnemonica del sordomuto non istruito in paragone dell’udente, a cagione appunto della mancanza dell’immagine verbale uditiva delle parole. […] La via dell’udito, che è la più ampiamente ricettrice fra quelle che conducono le sensazioni estese al cervello, è a loro preclusa: e da questa via ostacolata ne risente danno anche l’archivio delle cose percepite dall’occhio, memoria che di norma non è mai puramente visiva. La mancanza dell’immagine verbale uditiva delle parole è ragione prima della maggiore inferiorità del ricordo del sordomuto in rapporto a quello dell’udente» (G. Bilancioni, Veteris vestigia flammae. Pagine storiche della scienza nostra: la gerarchia degli organi dei sensi nel pensiero di Leonardo da Vinci, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 1922, ristampa fotostatica, Credito Romagnolo, Rimini 1991, pp. 51-53, corsivi miei).

[64] È, tuttavia, anche da registrare il caso eccezionale di Helen Keller, la quale, divenuta cieca e sorda a 18 mesi a causa di una febbre, nonostante tutto imparò a parlare all’età di 10 anni e a 24 anche si laureò. Scrisse alcuni libri, tra cui Il mondo in cui vivo e La storia della mia vita.

[65] Riprendendo la distinzione aristotelica tra funzioni comuni e funzioni speciali degli organi, Araos San Martín sottolinea: «El órgano auditivo […] en cuanto sirve a la percepción del sonido en general, que podemos entender como su función común, es colocado por Aristóteles en un rango inferior al de la vista, porque ésta revela las diferencias más variadas y numerosas de los cuerpos, sus colores, figuras, tamaños, movimientos y números, mientras que el oído no suministra más que las escasas diferencias perceptibles del sonido. Pero en cuanto sirve (aunque sea accidentalmente) a la captación del lenguaje (lógos), el oído cumple una función especial que le otorga en un rango superior al de todos los sentidos, incluida la vista, porque entonces pasa a ser el más importante para la actividad intelectual (noûs) » (J. Araos San Martín, La filosofía aristotélica del lenguaje, Universidad de Navarra, Pamplona 1999, pp. 34-35, corsivi miei).

[66] Sull’interpretazione di questo katà symbebēkós e di quello successivo, cfr. F. Lo Piparo, Aristotle: the material conditions of linguistic expressiveness, «Versus» (Quaderni di studi semiotici), 50-51 (1988), pp. 100-102.

[67] Cfr. P. Bellemare, Symbole. Fondements anthropobiologiques de la doctrine aristotélicienne du language, «Philosophiques» (Montréal Bellarmin), 9 (1982), pp. 274-275.

[68] «In tale prospettiva, l’udito ha la precedenza sugli altri sensi, dal momento che il discorso razionale istruisce appunto grazie al fatto di essere udito» (A. Jori, Aristotele, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 230). Scrive Mary Maniou-Vakali: «The dependence of knowledge of events on perception and especially on the auditory perception of speech is underlined in the Aristotelian texts» (Maniou-Vakali, Some Aristotelian views on learning and memory, cit., p. 49, corsivi miei; cfr. anche p. 50).

[69] «Que signifie le fait que l’ouïe ne contribue à l’intelligence qu’“accidentellement” […]? Rien d’autre qu’il se trouve que le language, cause de l’instruction, est un audible. Et à son tour le lan­guage n’est pas cause de l’instruction en lui-même, mais par accident, puisque le language est composé de noms, et que le nom est un symbole, c’est-à-dire le substitut d’une réalité. La superiorité gnoséologique semble pourtant rester à l’ouïe puisque l’on constate que les aveugles-nés sont plus intelligents que les sourds-muets de naissance» (Romeyer Dherbey, La construction de la théorie aristotélicienne du sentir, cit., p. 133, corsivi miei). Cfr. pure D.N. Sedley, Aristote et la signification, «Philosophie Antique», 4 (2004), nota 15, p. 14.

[70] Cfr. Poet. 20, 1457 a 24-28; Rhet. III 2, 1404 b 2-3 e 26-28; De interpr. 1, 16 a 26-29; Soph. el. 1, 165 a 6-10.

[71] [71]De sensu 1, 437 a 10-17, in Aristotele, L’anima e il corpo, cit., traduzione un po’ modificata, pp. 70-71 (corsivi miei). Cfr. A. Volprecht, Die Physiologischen Anschauungen des Aristoteles, Inaug.-Dissert., Julius Abel, Greifswald 1895, p. 23. Letteralmente phronimóteroi significa più intelligenti, e forse proprio tale traduzione potrebbe avere pesato come una condanna sulla sorte dei sordi: «Può darsi che questa semimaledizione che aveva lanciato Aristotele, lasciando credere che i sordomuti non sono intelligenti, sia stata la causa o una delle cause dell’indifferenza e più spesso del male voluto a questi malaugurati nel corso di numerosi secoli […]. Molti li consideravano più vicini agli animali che agli uomini» (Y. Guerrier, P. Mounier-Kuhn, Storia delle malattie dell’orecchio, del naso e della gola. L’orecchio, vol. I, Editiemme, Milano 1989, p. 137). In realtà, nulla giustifica un’accusa del genere nei confronti del filosofo greco, il quale si era semplicemente limitato a constatare un dato di fatto scientificamente inoppugnabile: il sordo nato, non udendo, non può imparare il linguaggio, il che ne limita considerevolmente lo sviluppo intellettivo, problema valido ancora oggi e risolvibile solo grazie a un adeguato tipo di insegnamento, il più precoce possibile: cfr. L. Selva, Scuole e me­to­di nella peda­gogia de­gli anacusici, Scuola Professiona­le Tipogra­fica Sor­domuti, Bo­logna 19732, pp. 22-23 e R.Th. Enerstvedt, Legacy of the Past. Those who are gone but have not left, Forlaget Nord-Press, Dron­ninglund (DK) 1996, p. 128.