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Giulio Cesare Ferrari e l’esperimento della Colonia libera dei deficienti gravi e dei giovani criminali.
«La migliore, la più felice mia applicazione pratica della psicologia
l’ho fatta a proposito dei fanciulli cui succede di cadere nelle mani della Giustizia, i cosiddetti fanciulli criminali[1].» Con queste parole, a distanza di anni, nell’Autobiografia, a Ferrari piaceva ricordare l’esperimento della Colonia libera a cui aveva dato vita insieme a Gabriella Francia dal 1910 al 1914 nei pressi di Imola. Se è difficile dire se sia stata la sua migliore e più felice applicazione pratica della psicologia, gli va, però, senza ombra di dubbio, riconosciuto il merito e il coraggio di avere introdotto nel campo della delinquenza minorile un metodo di cura innovativo grazie al quale furono ottenuti ottimi risultati.
Lo psichiatra reggiano viveva la fondazione della Colonia libera non come il punto di arrivo della sua ricerca, ma bensì come un luogo di verifica e di studio. Attuare questo progetto significava, infatti, avere la possibilità, di mettere alla prova sul campo le teorie elaborate fino a quel momento
L’idea incosciente che germogliava in me, spingendomi all’azione, era quella di arrivare a trattare nello stesso modo alienati (in senso lato) e criminali. Sentivo l’analogia biologica e sociale che legava questi due gruppi: la dimostrazione pragmatistica della cosa presentava dunque senza dubbio il più grande interesse. Ed era anche naturale dare tale dimostrazione cominciando dai fanciulli[2].
Allo stesso tempo si creava per Ferrari l’occasione di studiare direttamente la psicologia del fanciullo delinquente e le possibilità del loro adattamento alla vita[3].
Una corretta valutazione di tale esperimento dovrà dunque tenere in considerazione questa duplice matrice.
La realizzazione della Colonia libera, oltre ad essere un banco di prova per le teorie riguardanti i giovinetti criminali, lo era anche per le idee che lo psichiatra reggiano aveva sviluppato a proposito sia della cura e della educazione dei deficienti gravi sia della possibilità di inserire nel mondo del lavoro i malati cronici. Confluivano, così, in questa sperimentazione le varie esperienze e i vari studi che Ferrari aveva svolto in ambito psichiatrico e nel campo dei frenastenici. Il vero collante che teneva unito e permetteva uno studio e un trattamento “comparato” di malati che normalmente venivano curati da scienziati appartenenti a discipline diverse va individuato, al di là delle teorie espresse da Ferrari, nell’inserimento da lui effettuato della psicologia individuale nello studio e nella cura degli alienati, dei frenastenici e ora dei giovanetti criminali. Una psicologia che risentendo della influenza jamesiana si basava sullo studio della vita psichica considerandola nella sua complessità e nel suo divenire. Tale approccio permetteva allo psichiatra reggiano di distaccarsi dall’antropologia di stampo positivista così affezionata al riduzionismo e di tentare un metodo terapeutico che si prefiggeva, tenendo conto della personalità di ogni singolo fanciullo, di riuscire ad agire sul subcosciente dei giovanetti grazie all’influenza benefica dell’educatore, del lavoro e dell’ambiente.
La fondazione della Colonia dei deficienti gravi e dei
giovani criminali.
Lasciata la guida dell’istituto medico pedagogico di Bertalia, Giulio Cesare Ferrari, aveva assunto la carica di direttore del Manicomio Provinciale di Bologna in Imola. L’esperimento di Bertalia, come stavano a testimoniare i dati statistici che lo stesso psichiatra reggiano aveva esposto al Congresso tenutosi nel 1907 ad Amsterdam per l’Assistenza dei malati di mente, aveva prodotto scarsi risultati. Tali esiti avevano sì preoccupato Ferrari ma non avevano di certo scalfito il suo ottimismo e la sua voglia di fare tant’è che, nel 1910, aprì a CastelGuelfo, non lontano da Imola, un esperimento di colonizzazione libera per deficienti. La direzione di tale sezione fu affidata ad un’insegnante di Pedagogia la prof. Gabriella Francia[4]. Essenzialmente erano due le ragioni che avevano spinto lo psichiatra reggiano a dare vita a questa esperienza. Da un lato Ferrari, infatti, si trovava a dover risolvere, all’interno del manicomio di Imola, alcuni problemi pratici legati alla sistemazione e all’assistenza dei deficienti. Infatti, nel 1909, l’On. Deputazione decise di ritirare dall’istituto di Bertalia un discreto numero di fanciulli deficienti che erano lì ricoverati a carico della Provincia di Bologna[5]. Il criterio adottato per prelevarli, nonostante Ferrari avesse proposto di fare rientrare gli educabili il cui inserimento sarebbe stato più semplice e meno oneroso, fu quello dell’età. Non potendo gli educabili convivere con gli ineducabili per fini pratici legati all’assistenza, diventava necessario sdoppiare tutti i servizi e far convivere i fanciulli con gli adulti cosa che lo psichiatra reggiano reputava sconveniente per ragioni sia morali sia igieniche. «Credemmo perciò di provvedere utilmente, allontanando dal Manicomio i giovanetti educabili, amorali per lo più, iniziando, per mezzo del nostro patronato dei Pazzi Poveri, un esperimento di colonizzazione libera per deficienti […][6].» Dall’altro Ferrari vi vedeva l’opportunità di dare vita ad un nuovo metodo terapeutico, elaborato partendo dall’esperienza di Bertalia ma arricchito di novità grazie alle quali sperava di ottenere risultati migliori di quelli ottenuti dagli altri istituti che accoglievano i giovani criminali. L’innovazione principale stava nel far condurre ai fanciulli una vita in libertà in una grande Villa (non vi erano né sbarre né lucchetti) nella quale si cercava di riprodurre uno stile di vita che si avvicinasse il più possibile a quella famigliare e che di questa riuscisse a riprodurre i caratteri educativi.
Nello stesso periodo[7], stando all’Autobiografia, il conte Rasponi, Presidente del Tribunale di Bologna, propose allo psichiatra reggiano di annettere alla Sezione per fanciulli deficienti alcuni giovanetti che avevano avuto a che fare con la Giustizia e che dovevano scontare pene detentive all’interno del carcere di Bologna. L’occasione era di quelle da non perdere per chi, come Ferrari, amava studiare e sperimentare direttamente sul campo le proprie teorie e lo psichiatra reggiano non solo accettò «senza troppo riflettere», nonostante le enormi difficoltà, ma si fece addirittura carico delle spese di affitto della villa nella quale poter realizzare il progetto. La villa era provvista di un ampio parco, di un orto, di una vigna e un po’ di terreno adibito ai lavori agricoli. Al suo interno vennero sistemati una quarantina di fanciulli dei due sessi, metà dei quali erano deficienti già ricoverati nel manicomio di Imola e l’altra metà era invece composta da giovanetti criminali già presenti nel manicomio, mentre altri erano “prelevati” da Rasponi nelle prigioni, nei riformatori e negli istituti per l’infanzia abbandonata di Bologna. Unici aiutanti della Direttrice Gabriella Francia erano una sola infermiera e quattro vecchi malati del manicomio. L’esperimento, come osservava la stessa direttrice in una approfondita e puntuale relazione apparsa nella ‹‹Rivista di Psicologia›› nel 1911[8], si presentava arduo. A destare le maggiori preoccupazione, seguendo quasi la legge del contrappasso, erano le stesse innovazioni dalle quali Ferrari si aspettava i maggiori risultati. Prima fra tutte la coabitazione di individui appartenente ad entrambe i sessi parte dei quali avevano un’età superiore ai tredici anni. Infatti, la vita all’interno della villa era stata programmata in modo tale che i fanciulli e le fanciulle condividessero sia i lavori e sia gli svaghi, trovandosi in contatto continuo fra loro. L’unica divisione prevista era quella inerente alle stanze da letto e ai servizi igienici. Al pian terreno furono ubicate le ragazze e le malate adulte, al primo piano i ragazzi e al secondo gli adulti. Ai ragazzi non era permesso di scendere al pian terreno prima delle otto del mattino e senza che l’infermiera avesse dato l’avviso della loro venuta. Gli unici a cui veniva tacitamente concessa maggior libertà erano i bambini dai 6 agli 8 anni.
Il pericolo di comportamenti indisciplinati era un’altra fonte di preoccupazioni. Il regime di libertà al quale era improntata la vita all’interno della villa, da un lato era una delle innovazioni dalla quale ci si aspettava i maggiori risultati, dall’altro era uno dei punti che destava le maggiori preoccupazioni. Era, in effetti, difficile da prevedere la reazione che avrebbero avuto i ragazzi che fino a quel momento erano stati abituati ad una vita di tipo manicomiale con limitazioni della libertà e con la costante presenza di infermieri in grado di dominarli fisicamente e con i mezzi di prevenzione e di repressione che là disponevano. Ad aumentare la preoccupazione concorreva anche la mancata presenza del medico che in ambito manicomiale, grazie al grande ascendente che esercitato sui malati fungeva, solo con la sua presenza, da forza regolatrice per i pazienti.
L’introduzione dell’attività lavorativa metodica e libera era un altro elemento dal quale potevano scaturire disordini a causa della scarsa sorveglianza e dell’atmosfera adatta a far nascere in loro un senso di indipendenza.
All’interno della villa Ferrari aveva anche la possibilità di poter verificare empiricamente la validità della teoria che aveva elaborato per il recupero dei giovanetti criminali. Tale teoria era basata sulla convinzione che vi fosse una affinità fondamentale del carattere tra i veri e propri deficienti e i giovanetti criminali che permetteva di sottoporli al medesimo trattamento. A differenza dei veri e propri deficienti i pervertimenti dei giovanetti criminali erano funzionali e come tali potevano dunque essere modificati volgendo al bene le tendenze anormali o criminose dei fanciulli figlie dell’eredità o dell’ambiente pervertito. Tale idea, pubblicata per la prima volta nel 1907 in un articolo della ‹‹Rivista di Psicologia››dal titolo Giovani irregolari[9], era avvalorata dalla comparazione dei dati degli esami psicologici che Ferrari aveva a disposizione e che pubblicava a sostegno della propria tesi nello stesso articolo:
Così troviamo in tutti una speciale asimmetria psicologica, per cui questi individui presentano l’uno o l’altro tratto della loro personalità ben definito e non di rado eccessivo, mentre tutto il rimanente della loro organizzazione psichica rimane in una condizione di instabilità, di disequilibrio, e solo le circostanze possono chiamare l’uno o l’altra di queste attività mentali residue al primo piano. Queste attività, però, non hanno tutte le medesime possibilità di divenire efficienti.
Alcune, e specialmente quelle che rappresentano gli ultimi e più elevati acquisiti dell’animo umano, quali l’attenzione cosciente, volontaria, e la volontà nella sua forma più evoluta di inibizione, sono quasi sempre permanentemente in difetto […],sono permanentemente deficienti la sensibilità generale, l’immaginativa e l’affettività; mentre sono spesso esagerate la percettività e la memoria ….Pervertiti ed esclusivamente soggetti al predominio della vita istintiva sono infine i poteri associativi e il raziocinio: da cui deriva una logica assolutamente sofistica, ma che ha un potere ferreo per tutti gli affini[10].
Parte di queste osservazioni erano molto probabilmente il frutto del lavoro svolto da Ferrari all’interno dell’Istituto medico pedagogico di Bertalia.
L’accettazione della direzione di questo istituto aveva sancito, innanzi tutto, l’ingresso di Ferrari in un nuovo campo di studi: quello dell’infanzia anormale. Ferrari ne era stato direttore dal 1903 al 1907 anni in cui si era registrato un gran fermento attorno ai frenastenici che aveva portato alla fondazione della Lega, alla nascita di appositi istituti e, a livello scientifico, alla nascita delle prime classificazioni. Fermento a cui Ferrari aveva dato un notevole impulso impostando il lavoro all’interno dell’istituto di Bertalia secondo i criteri della psicologia sperimentale. La grande novità, introdotta non solo da Ferrari ma anche da Montessori, De Sanctis e Montesano, consisteva non tanto nell’inserimento della psicologia sperimentale i cui metodi venivano erano stati da pochi anni introdotti nei pochissimi laboratori presenti nei manicomi o nelle Università[11], ma nei fini che tale approccio si proponeva: studiare la psiche nel suo complesso per conoscerne la tipologia e individuarne, così, le differenze dalla norma.
L’osservazione continua dei frenastenici in “funzione” e l’elaborazione dei dati raccolti aveva evidenziato come all’interno della massa frenastenica si nascondessero, in realtà, diverse tipologie psicologiche aventi diversi gradi di anormalità e di educabilità[12]. Di grande importanza scientifica era stato il riconoscimento da parte dei maggiori studiosi della disgiunzione del livello intellettuale da quello morale. Era dunque possibile che vi si presentassero dei casi in cui ad un livello intellettivo integro si affiancassero delle deficienze del carattere morale e che una vera e propria rieducazione dovesse partire proprio dalla sfera morale. Punto questo particolarmente sottolineato dalla Montessori nel congresso tenutosi a Napoli nel 1901[13].
Le conoscenze che Ferrari possedeva nel campo della delinquenza minorile non erano di certo così approfondite come quelle appena evidenziate per i deficienti. Erano per lo più il frutto di osservazioni di fanciulli criminali che lo psichiatra reggiano aveva incontrato o perché internati nel manicomio o perché mescolati ai frenastenici.
Seppur, prestando fede all’Autobiografia, l’amor per la psicologia in generale e in particolare per la psicologia criminale si era manifestato e si era sviluppato in Ferrari fin dall’infanzia, Ferrari era giunto allo studio scientifico della psicologia seguendo la via percorsa dalla psicologia degli anormali. Quest’ultima che aveva mosso i suoi primi passi in ambito antropologico aveva poi continuato il suo cammino interessandosi allo studio dei frenastenici e successivamente a quello dei giovanetti criminali. E’ in questa ottica, a mio parere, che deve essere inquadrata la teoria e la terapia sviluppata per il recupero dei delinquenti minorenni in cui risulta chiaramente l’influenza della grande esperienza e degli studi che Ferrari aveva maturato sia nel campo dei deficienti sia in quello degli alienati. Una teoria che, sebbene già all’epoca fosse considerata da alcuni troppo semplicistica[14] ha comunque prodotto un metodo dimostratosi efficace per la rieducazione dei giovanetti incappati nelle maglie della giustizia.
Il progetto terapeutico ideato da Ferrari nasceva dalla sua profonda convinzione di poter recuperare e rieducare i fanciulli criminali.
Lo psicologo reggiano era, infatti, convinto che il pessimismo dilagante dell’epoca riguardo all’emendabilità dei giovanetti fosse generato da un errore di classificazione: la mancata distinzione dei giovanetti criminali psicopatici da coloro che invece erano integri mentalmente e aventi una personalità che si differenziava da quella dei loro coetanei per il solo fatto di dare vita a comportamenti che andavano contro i limiti imposti dalla società. Mentre lo studio dei primi interessava la clinica, dei secondi, quelli emendabili, si doveva invece occupare la psicologia[15]. Ferrari finiva così per identificare i giovanetti criminali con coloro che avevano commesso o avevano la tendenza a commettere degli atti contro la legge morale o scritta pur non presentando malattie mentali.
La critica di Ferrari non si arrestava alla classificazione ma si estendeva alla nomenclatura. Troppo grave e inesatto era chiamarli giovanetti criminali, molto più consono al loro stato psicologico e morale chiamarli “anormali del carattere”. Due erano le ragioni che esplicitava a sostegno della sua proposta. Innanzi tutto considerava del tutto arbitrario classificare i giovanetti secondo un criterio esteriore come l’avere o non avere infranto la legge morale o scritta, in quanto il fondo psicologico che generava i comportamenti devianti era presente in misura eguale anche nei bambini che non avevano dei comportamenti scorretti. Era dunque l’occasione che determinava il compimento o meno dell’atto. Inoltre seppure gli atti criminali commessi erano gli stessi degli adulti, il loro valore sociale e la loro genesi psicologica erano talmente diversi che l’appellativo di giovani criminali era da considerarsi moralmente troppo grave e psicologicamente inesatto[16].
La genesi dei comportamenti criminali: il senso morale, l’ambiente e le tendenze naturali dei fanciulli.
Per comprendere fino in fondo la sua proposta e soprattutto la psicologia dei giovanetti criminali, Ferrari invitava i suoi lettori a dimenticare tutto quello che formava il loro fondo del senso morale e le loro abitudini di condotta sociale e a ricordare, invece, come il concetto di dovere morale fosse il frutto dell’educazione[17]. Considerare la morale come il frutto dell’educazione significava, innanzi tutto, riconoscere, da un lato l’influenza dell’ambiente sulla genesi della criminalità minorile e, dall’altro, la possibilità di curare i giovanetti criminali. All’interno del termine ambiente, Ferrari faceva confluire categorie quali la famiglia, gli amici, la società in generale fino ad arrivare alle leggi dello Stato.
Legare la genesi del senso morale all’educazione e non considerala quindi come qualche cosa di dato e immodificabile, era una delle idee basilari del progetto terapeutico dello psichiatra reggiano. Infatti, dopo aver escluso dalla categoria dei giovanetti criminali coloro che non erano integri mentalmente, affermava che il furto e la violenza, i due atti criminali maggiormente commessi dai giovanetti criminali, erano generati da tendenze “naturali” e comuni a tutti i ragazzi. Tendenze che potevano essere o corrette o incanalate per il perseguimento di fini benefici o soppresse solo grazie all’educazione. La posizione così assunta da Ferrari poneva in luce un tema a lui tanto caro anche in campo psichiatrico: la labilità del confine fra i comportamenti anormali e quelli normali, posizione che lo allontanava da quella di Lombroso.
La posizione assunta da Ferrari andava contro anche ad un altro pregiudizio dell’epoca secondo il quale la criminalità minorile riguardava solo gli strati meno abbienti della popolazione. Lo studio della genesi della criminalità aveva, invece, a suo parere, messo in evidenza come i bambini rubando o rendendosi responsabili di atti violenti non facevano altro che rispondere a istinti comuni a tutti i fanciulli indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza[18]. In diversi articoli[19], alcuni dai toni oltre che polemici anche molto aspri, Ferrari evidenziava come il binomio criminalità/bambini poveri fosse generato dall’ottusità della maggior parte di coloro che si occupavano di criminalità minorile. Costoro, incorrendo nello stesso errore commesso dalla medicina, curavano la malattia invece del malato. La sua critica si allargava alla Giustizia. Nei tribunali, infatti, si giudicava il ragazzo in base alla combinazione del numero di un articolo del Codice con quello degli anni del ragazzo non tenendo invece in considerazione che questi fanciulli non fossero diversi dagli altri che per ragioni di contrasto fra un carattere o un temperamento esuberanti e un ambiente inadatto. Ragazzi che con una assistenza intelligente potevano essere messi in corsa insieme ad altri. Assistenza di cui i fanciulli appartenenti alle famiglie agiate potevano godere nelle Scuole per tardivi o negli istituti per deficienti.
La sua critica non si fermava qui ma si spingeva oltre puntando il dito contro la disparità di giudizio e di conseguenze riservate ai fanciulli a seconda della classe di appartenenza:
[…]forse che si rinchiudono nelle Case di salute i giovani delle classi ricche che occupano la loro vita nelle violenze del foo-tball o dell’automobilismo pazzesco, nella dissipazione e nella promiscuità delle bische e dei bordelli, o che, come i volgari teppisti cittadini si gloriano delle ragazzine violentate, del sangue sparso o fatto spargere con un coltello[…]. Neanche per sogno. Ora allo stesso modo appunto in cui costoro, giunti alla maggiore età, divengono consiglieri comunali o deputati che non sfigurano certo fra i loro amici con antecedenti meno movimentati, anche i giovanetti poveri che non si mantengono facilmente fra le guide che l’educazione prescrive, possono, opportunamente consigliati, o anche a loro insaputa sorretti, compiere la loro funzione nel mondo[20].
La differenza della condizione sociale faceva, così, sentire il proprio peso non nel creare dei sentimenti, delle tendenze, dei modi di pensare differenti nei fanciulli appartenenti a classi sociali diverse, bensì nelle differenti reazioni sociali suscitate dal compimento di medesimi atti in contesti sociali diversi[21].
In un processo di crescita e di sviluppo “regolare”nel fanciullo, ad un certo punto, iniziava ad organizzarsi la coscienza della scorrettezza dell’atto commesso. A dare inizio a questo corso erano, inizialmente, il ricordo delle punizioni avute e la paura di una sanzione ritenuta immancabile e fatale. L’evoluzione di tale processo era completata dalla nascita di un senso elementare di solidarietà grazie al quale si iniziava a rispettare i diritti degli altri per avere in cambio il riconoscimento dei propri. «Nei ragazzi nei quali è mancata quest’azione esteriore l’evoluzione è stata naturalmente diversa[22].» La chiave di lettura del problema della criminalità giovanile stava, per Ferrari, proprio nell’individuare gli elementi e i vari processi che stavano alla base di tale diversità.
Alla luce degli studi effettuati sui giovanetti criminali lo psichiatra reggiano aveva, così, stilato una teoria atta ad evidenziare i passaggi e gli elementi fondamentali che generavano i comportamenti criminali dei ragazzi. Seguendo la teoria elaborata da Ferrari, il bambino passava da una prima fase in cui il comportamento criminale scaturiva da abitudini mentali che si formavano naturalmente nel fanciullo, tollerate e favorite dall’ambiente, ad una fase in cui, quelle che prima erano solo tendenze, si trasformavano in comportamenti stabili, fino a diventare necessarie per il colorito estetico che assumono per certi ragazzi. Al raggiungimento di questo ultimo stadio il fanciullo diventava un vero e proprio criminale[23].
Esaminando i bambini durante la prima fase Ferrari aveva, infatti, notato come essi considerassero il loro modo di agire e le loro azioni criminose completamente normali.
Il confronto incrociato fra le risposte date, i risultati di indagini complementari quali sogni e compiti di scuola, e soprattutto con l’esame della loro immaginazione e delle loro associazioni di idee avevano evidenziato come in effetti le loro considerazioni fossero naturali, genuine e corrispondenti al loro fondamentale modo di essere[24]. Il bambino che aveva commesso un atto criminale non aveva mai manifestato di possedere il concetto generale di atto immorale che aveva compiuto, in quanto viveva sempre la sua azione come una risposta ad uno stimolo a cui era stato esposto. Il ragazzo interrogato sulle ragioni di un atto delinquenziale da lui commesso dimostrava chiaramente di non sapere il perché e di avere risposto ad un desiderio o ad un impulso[25]. L’incapacità dei giovanetti di vedere i loro atti in funzione, rendeva praticamente impossibile che fossero in grado di vedere e misurare le conseguenze, che gli atti da loro commessi, potevano avere su altre persone.
I primi tentativi di spiegazione evidenziavano, invece, un elemento fondamentale della condotta dei giovanetti:l’incapacità ad astrarre e a generalizzare[26]. Tutte le risposte erano, infatti, limitate al caso in questione e in nessun modo venivano estese a casi analoghi.
Secondo il parere di Ferrari, ad alimentare ancora di più l’idea che gli atti avessero un valore esclusivamente individuale, concorrevano altri due fattori: uno legato al carattere aleatorio e mutevole della sanzione e l’altro alle capacità logiche limitate data l’età del bambino. Vivendo il bambino in una realtà in cui era poco controllato raramente i suoi atti venivano scoperti e anche quando questo si verificava le sanzioni cambiavano sempre a seconda dei casi[27]. Le capacità logiche del bambino non gli permettevano di coglier il vero valore di questa diversità e lo portavano invece a pensare che ogni caso fosse fine a sé stesso e che le diverse conseguenze dei suoi atti trascendessero la sua persona. Date tali premesse la sanzione veniva vissuta dal fanciullo più come una conseguenza legata alla sfortuna che come l’esito di una sua azione. Tali avvenimenti portavano il ragazzo a non essere in grado di generalizzare il concetto di castigo e di pena e per lui diventava ancora più difficile appropriarsi del concetto di scorrettezza e di criminalità che gli avrebbe permesso di attribuire il vero valore degli atti da lui commessi[28]. Di volta in volta, a seconda del carattere del ragazzo, la sanzione penale veniva allora vissuta dai fanciulli in modo diverso: o come un circostanza inevitabile o come un incerto professionale o come una manifestazione del diritto del più forte da parte delle guardie e dei giudici[29].
A questa prima fase considerata da Ferrrari come la genesi degli atti criminosi in cui il comportamento del bambino, come sottolineato sopra, era visto come la semplice risposta ad uno stimolo, ne seguiva una seconda caratterizzata invece dalla nascita dell’interesse. A destare l’interesse del giovane per la vita criminale, secondo lo psichiatra reggiano, concorrevano due fattori: il primo si riferiva agli atti delinquenziali che, data l’esperienza maturata e il formarsi e il perfezionarsi di nuove abitudini, diventavano più semplici e meno rischiosi da eseguire; il secondo riguardava invece la professione del criminale che era per sua natura una delle professioni più adatte e simpatiche per dei giovanetti poiché permetteva loro di soddisfare, mano a mano che nascevano, le tendenze e gli istinti propri della loro età[30]. Ad attirare i fanciulli era soprattutto la vita fisica esuberante, l’amore per l’avventure e gli imprevisti, l’orrore per la routine e il guadagno materiale spesso elevato. Tendenze comuni a tutti i ragazzi che, i fanciulli abbandonati in condizioni più vicine alla vita primitiva sfogavano rendendosi protagonisti di violenze, furti o vagabondaggi, mentre gli altri fanciulli le irretivano con giochi, sport, letture ecc. ecc. In questo stadio le azioni criminali conservano ancora un carattere individuale quindi più facile da vincere[31].
Quando, invece, il ragazzo inizia a ricercare la perfezione e la bellezza nell’esecuzione di un piano o di un atto delinquenziale era allora che si radicavano in lui quelle che prima erano solo tendenze. Le tendenze diventavano, così, abitudini criminose. La nascita del carattere estetico doveva essere un segnale di allarme per l’educatore in quanto il suo affermarsi rendeva più difficile la buona riuscita dell’intervento terapeutico[32]. Infatti la nascita di questa nuova visione estetica, testimoniava innanzitutto la capacità di astrazione di questi fanciulli la maggior parte dei quali presentava o un’intelligenza più organica o i segni di un principio di educazione e di istruzione che aveva poi subito un’interruzione che gli permettevano di acquisire idee astratte in anticipo rispetto agli altri giovanetti.
La nuova visione estetica, inoltre, sostituiva la mancanza d’interesse specifico per l’azione commessa, caratteristico della fase precedente, con uno immanente e più generale ed inoltre, rendendo più ampio il campo d’azione dell’interesse determinava anche un allargamento dell’interesse stesso in campi affini.
Ad essere enormemente influenzata dalla nuova visione estetica era anche uno dei perni attorno a cui ruotava il comportamento umano: la personalità. Stilando la teoria della formazione della personalità criminale, Ferrari aveva avuto una grande intuizione: che la deviazione verso la criminalità occasionale dei fanciulli, avvenuta per la mancata intonazione con l’ambiente in cui erano nati e cresciuti, fosse sentita dagli stessi fanciulli come un’incompletezza dovuta ad una mancata sintesi personale. Era dunque la criminalità che ora offriva al ragazzo la possibilità di sintesi[33]. Il passaggio dal criminale occasionale a quello d’abitudine coincideva per Ferrari con la creazione della personalità criminale. Alla base di tale creazione, lo psichiatra reggiano, individuava e poneva un bisogno psicologico: la necessità di costituirsi una personalità completa e in armonia con le tendenze più intime e coi bisogni estetici. Essendo stata elaborata dall’individuo stesso alla luce delle proprie condizioni psicologiche è proprio nella sua attuazione che lo stesso individuo troverà le sue migliori applicazioni rendendo assai arduo l’intervento dell’educatore[34].
Il subcosciente e il concetto di personalità
Binet e James, come notato in precedenza, erano stati i due studiosi che maggiormente avevano influenzato il pensiero e l’opera di Ferrari fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Da questo punto di vista l’esperienza della Colonia libera può essere considerata come il punto di incontro delle teorie elaborate da Ferrari seguendo gli esempi dei due studiosi sopra menzionati. Infatti, da un lato all’interno della Villa si studiavano gli individui anormali applicando il metodo dei reattivi mentali di Binet grazie ai quali si ottenevano dei dati che non potevano essere rilevati seguendo altri metodi. Dall’altro, però, gli studi effettuati dallo psichiatra reggiano avevano evidenziato come la personalità per la sua unicità, per la sua particolarità e soprattutto per i suoi legami con il subcosciente, celasse reazioni che i semplici stimoli di laboratorio non potevano di certo evidenziare. Alla luce di tali studi aveva elaborato una teoria e una terapia dove ad essere posti al centro dell’attenzione erano la personalità, il suo legame col subcosciente, il subcosciente stesso e l’affettività nella definizione dei quali venivano citati assai di frequente I Principles di James.
Allo sviluppo della teoria della personalità elaborata da Ferrari aveva contribuito anche la grande influenza esercitata dall’evoluzionismo sia sul positivismo italiano, soprattutto Spencer, sia sul funzionalismo. Tale influenza determinò un cambiamento di interesse nell’ambito della ricerca psicologica. Al centro degli studi veniva dunque posta la personalità del singolo a cui veniva riconosciuta la capacità di modificarsi in rapporto all’ambiente. La personalità finiva così per perdere il carattere di staticità che l’aveva contraddistinta fino a quel momento per assumere quello di dinamicità.
Seguendo l’esempio di Ribot, le teorie sulla personalità elaborate da Ferrari erano il frutto di studi effettuati sui malati di cui aveva avuto modo di occuparsi all’interno dei manicomi nei quali aveva svolto la sua attività di medico psichiatra. Primo fra tutti lo studio della Influenza degli stati emotivi sulla genesi e sullo sviluppo dei deliri e di alcune psicosi[35] pubblicato sulla ‹‹Rivista sperimentale di Freniatria›› nel 1901. In questo studio, infatti, lo psichiatra reggiano volendo dimostrare la sua teoria sugli effetti che la variabilità psichica individuale aveva sulla strutturazione delle sindromi psicopatiche, finiva anche per ricostruire i criteri di formazione della personalità sana e malata.
Ferrari, dimostrandosi ancora una volta un grande osservatore e un attento conoscitore di tutto ciò che avveniva al di fuori dell’Italia, in linea con Freud, individuava l’origine della personalità nel “subcosciente” o “subliminale”.
Sebbene lo psichiatra reggiano non lesinasse critiche all’opera dello psicanalista austriaco, criticando soprattutto il suo carattere pansessuale, gli riconosceva, però, il grande merito di essere stato il primo a sistematizzare e ad unificare le osservazioni di medici, di psicologi e di letterati e di renderli così materiale fruibile per la psicologia scientifica. Il “subcosciente” e la sua influenza esercitata sulle azioni e sui comportamenti degli individui, infatti, pur essendo di “osservazione comune” prima di Freud nessuno si era interessato a studiare né come tale influenza avvenisse né quale fosse la sua origine[36]. Ferrari riconosceva che, come aveva sottolineato lo psicanalista austriaco, l’attività cosciente non era che una minima parte della personalità organica e che anzi la maggior parte dell’attività umana dipendesse da fenomeni che avvenivano al di sotto della soglia di coscienza.
La coscienza infatti illumina distintamente soltanto ciò che non è ancora abbastanza organizzato in noi, come dice Spencer, abbastanza sistematizzato per funzionare in modo indipendente; ora, ciò che è meglio organizzato è il risultato del temperamento che abbiamo ereditato, poi delle abitudini acquisite da, ad un tempo, ciò che ha più forza su di noi e di cui abbiamo meno coscienza, ed è noi, e trasmesse a quell’insieme di essere viventi che costituisce il nostro organismo.
Ora è in questo fondo bene organizzato che giacciono i germi della personalità sana, come quelli che costituiranno la personalità delirante[37].
La personalità veniva così legata indissolubilmente al subconscio al quale veniva riconosciuto di essere da un lato la sede “fisica”dei germi della personalità stessa e dall’altro la base dalla quale poi si ergeva la struttura della personalità.
Subconscio, parte mal distinta, subliminale, corrente di coscienza diverse, erano le terminologie usate da Ferrari per indicare ciò che stava al di sotto della soglia di coscienza. Questa difficoltà da parte dello psichiatra reggiano di far uso di un unico termine può essere interpretata come il frutto dell’ambivalenza che stava alla base dell’idea che lo stesso Ferrari aveva di ciò che avveniva al di sotto della coscienza stessa[38]. Da un lato definendola mal distinta e indifferenziata e considerandola come il punto di convergenza di esperienze filogenetiche e ontogenetiche, Ferrari si ricollegava ai temi cari al positivismo italiano in generale e in particolare soprattutto alla “legge dell’indistinto” di Ardigò. Dall’altro, facendo propria la teoria della “corrente della coscienza” di W. James, lo psichiatra reggiano affermava che la nostra coscienza doveva essere considerata «come qualche cosa che continuamente si svolge, per le azioni dell’ambiente sulla nostra sensibilità o per le reazioni che la nostra personalità fisico-psichica, quale risulta per il fatto della eredità e dell’educazione[39].» L’agire della corrente avveniva quasi interamente al di sotto della coscienza ed era così sottratta al controllo dell’attenzione. «La vita mentale dell’individuo è alimentata continuamente da questa corrente sotterranea; la quale vive a sua volta e si ricostituisce ad ogni momento con gli elementi che derivano da tutte le forme di sensibilità fisica e psichica dell’individuo[40].» Era in questo momento che l’attenzione non più occupata poteva dirigersi sulla “corrente del pensiero” rendendo tangibile la duplicità della corrente. Gli eventi della vita a volte, però, facevano sì che l’individuo si dovesse opporre al fluire della corrente del suo pensiero e così grazie alla volontà, a cui spettava il compito di determinare e dirigere l’ordine di associazione di una seconda serie di associazioni che si sovrapponevano a quelle della corrente profonda, la persona riusciva ad opporsi al fluire della corrente stessa. Una volta che la “seriazione” avveniva in modo automatico la volontà si limitava a dare l’input per attivare il procedimento che poi si snodava autonomamente. Era in questo momento che l’attenzione non più occupata poteva dirigersi sulla corrente del pensiero rendendo tangibile la duplicità della corrente; e, a seconda dell’interesse predominante in quell’istante, a seconda del momento psicologico, o l’Io profondo giudicava (severamente d’ordinario) la persona superiore[…]; o a questa si affacciava la visione di tutta una vita diversa, più rispondente ai bisogni, alle appetizioni sue e che continuava a svolgersi e a modificare forse ogni modo di lui di essere e di sentire[41]. L’uomo era dunque duplice ma di questa sua duplicità solo raramente era consapevole nonostante fosse proprio la parte meno conosciuta che più influenzava il suo vivere.
Ma una volta che l’individuo ne è venuto a conoscenza quale deve essere il suo atteggiamento? La posizione di Ferrari anche a questo riguardo non era ben definita. Da un alto infatti invitava le persone ad usare la propria volontà cosciente affinché imprimesse maggiore forza a quegli atti che si muovevano nella stessa direzione dell’incosciente ostacolando invece quelli che andavano in altre direzioni. In quanto, facendo propria la teoria esposta da James in The Will to belive, la “fiducia in sè”, elemento essenziale per la realizzazione di ogni nostra azione, nasce solo quando vi è perfetta consonanza fra i suggerimenti dell’incosciente e i movimenti e gli atti della vita cosciente[42]. Dall’altro occorreva, però, conoscerlo per poter avere un controllo sul suo svolgimento in quanto non tutto quello che proveniva dall’incosciente aveva una valenza positiva per l’individuo[43], e soprattutto perché era ciò che regolava il nostro adattamento alle condizioni del cosmo. Tale adattamento non avveniva però seguendo i dettami del “sensismo puramente passivo” ma secondo “l’empiricismo radicale” di James secondo il quale i materiali del nostro pensiero provenivano sì dall’esterno ma la forma che l’individuo gli dava era quasi interamente dovuta alla sua spontaneità personale[44]. Elementi costitutivi di questa spontaneità erano l’eredità e l’educazione che determinavano le leggi che stavano alla base dell’associazioni delle nostre idee.
Ma noi dunque cosa possiamo fare? «Ma noi possiamo quasi sempre rendere piacevoli per il nostro pensiero certe vie associative, e ad altre costituire le condizioni di rito meno favorevoli. Questo possiamo contentarci di fare; ma questo dobbiamo fare[45].»
Se il fondo organico racchiudeva in sé i germi della personalità era invece nella cenestasi dove giacevano il fondo e l’origine del senso della personalità stessa e per questa ragione ad ogni alterazione della cenestasi stessa corrispondeva una profonda modificazione della coscienza dell’io[46]. Al ruolo fondamentale per la struttura della personalità riconosciuto al subliminale e alla cenestasi Ferrari affiancava quello altrettanto importante ricoperto dalle emozioni, dai sentimenti, dall’affettività e dagli istinti.
L’importanza del ruolo svolto dal fattore emozionale e affettivo nasceva dal fatto che data l’esigua differenziazione del fondo organico, le sue uniche manifestazioni non potevano che essere o emozionali o affettive[47]. Le emozioni finivano così per ricoprire un ruolo di grande importanza nello sviluppo della personalità in quanto forze dinamiche. La prima conseguenza di tale ragionamento riguardava il ruolo ricoperto dall’intelligenza nella definizione del concetto di “io”. L’intelligenza veniva considerata come una parte e non più come tutta la vita mentale il cui vero movente ora venivano considerati i sentimenti. Erano così gli stati affettivi ad agire sull’intelligenza ma l’effetto della loro azione sulla personalità psichica variava a seconda delle diverse predisposizioni, della diversa resistenza organica e dei diversi condizionamenti, soprattutto quelli ambientali, a cui i vari individui dovevano sottostare.
Il metodo della colonizzazione libera.
L’idea base attorno alla quale era stata pensata e organizzata la vita all’interno della villa si fondava sulla convinzione di Ferrari che i ragazzi pervertiti non erano aggredibili che per la via del subcosciente. All’educatore veniva assegnato il ruolo fondamentale di riuscire ad influenzare il subconscio grazie alla sua capacità di instaurare un rapporto interpersonale con loro basato sulla fiducia e sulla comprensione e quindi secondo la teoria di Ferrari, che lo legava indissolubilmente alla personalità, anche la personalità stessa dei ragazzi. In questa sua opera di correzione delle inclinazioni “amorali”, l’educatore era aiutato dall’influenza positiva dell’ambiente appositamente studiato per stimolare i ragazzi, dallo svolgimento di un’attività lavorativa che si pensava potesse agire sul senso della personalità grazie alle sue valenze curative e dall’impartizione dell’educazione morale e intellettuale attraverso la vita sentimentale.
Il punto di partenza di quella che Gabriella Francia nel suo dettagliato resoconto[48] sull’esperimento della Colonizzazione libera chiamò “la psicoterapia pratica contro le tendenze amorali e criminali dei giovani” era l’osservazione e lo studio dei giovanetti al fine di evidenziare quelle che erano le loro caratteristiche e i loro bisogni individuali e, a seconda dei dati raccolti, elaborare il procedimento più idoneo ad ognuno di loro. Infatti, come sottolineava la stessa Francia, nonostante molti dei difetti riscontrati nei giovanetti presenti nella villa fossero comuni a tutti i ragazzi della loro età e del loro ceto, ogni individuo ne aveva però alcuni che lo caratterizzavano e che erano una sua specialità[49]. Difetti, pregi, bisogni che solo una osservazione attenta e continua che tenesse in considerazione anche dei particolari all’apparenza meno rilevanti era in grado di evidenziare. Lavoro non facile ma necessario soprattutto all’interno di una struttura i cui ospiti oltre ad essere individui di età, sesso e mentalità diverse e quindi già per questo non classificabili, vivevano anche in un regime che oggi definiremmo di semi libertà e senza vigilanza, particolarmente adatto a far nascere quelle reazioni e quelle dinamiche complesse che solo la vita in tutte le sue forme poteva preparare.
A differenza di quello che si verificava nella maggior parte degli altri istituti e dei carceri per minori, all’interno della villa l’educazione morale e intellettuale avveniva seguendo un criterio individuale.
L’educazione morale
Ferrari era fermamente convinto che per essere efficace e sortire dunque i risultati sperati l’insegnamento morale non dovesse mai essere impartito ex chatedra, ma dovesse risultare dagli incarichi che di volta in volta venivano affidati ai ragazzi per testare la forza di dominio che andavano gradualmente acquistando sui loro impulsi[50]. Per il raggiungimento di tale opera educativa occorreva essere in grado di sfruttare le qualità e di saper trasformare gli elementi perturbatori in sorgenti di azioni più corrette suscettibili di consolidarsi in abitudini[51].
Ferrari e la Francia erano consapevoli che numerosi ostacoli si potevano frapporre all’impartizione di tale educazione. Ostacoli che solo la messa in pratica dell’esperimento poteva palesare e aiutare, in questo modo, gli operatori o a prevenirli o a rivedere e rielaborare le teorie o le metodologie che li avevano causati. A tal fine la Francia nell’articolo sulla colonizzazione aveva riportato ed elencato le problematiche nate dal trattamento morale e soprattutto i rimedi da loro adottati per raggirare e ovviare gli ostacoli sorti all’interno della villa. Innanzitutto la Francia sottolineava come gli impedimenti potessero avere una duplice matrice, da un lato infatti potevano essere causati dalle caratteristiche fisiche e mentali dei vari giovanetti, dall’altro potevano invece essere il frutto degli esiti degli effetti secondari che la vita in comune portava inevitabilmente con sé [52].
Il più pericoloso per una buona riuscita dell’azione morale e quindi il primo da dover “rimuovere”, era legato alla formazione di gerarchie di potere all’interno della comunità. La vita in comune a lungo andare sviluppava inevitabilmente dei sentimenti di repulsione o di affinità tra gli individui. Sentimenti relazionali considerati fonte di stimoli assai importanti per i cosiddetti “normali” acquistavano un valore non indifferente per il bilanciamento degli stessi stimoli in individui presentanti delle turbe del carattere o un basso livello mentale. Per questo motivo diventava di grandissima importanza tenere sotto controllo il tipo di relazioni che si sviluppavano tra i ragazzi[53]. Da qui nasceva l’esigenza e la necessità di una osservazione attenta, continua e in fieri. Infatti a prima vista fra i ragazzi sembrava prevalere un sentimento di indifferenza ma un’osservazione più attenta aveva rivelato agli operatori che dietro alla indifferenza, apparente alcuni giovanetti celavano timore e soggezione nei confronti di uno o più compagni mentre altri erano caratterizzati da un profondo egoismo che si manifestava attraverso impulsi prepotenti che contenevano solo in presenza di un “superiore”. La nascita di queste gerarchie era da tenere in massima considerazione in quanto assicurando qualsiasi tipo di complicità era una delle forze che maggiormente si opponevano ai tentativi di educare la morale dei ragazzi. «Disfare queste piccole leghe[…]era lavoro urgente, se non preliminare, ed era pure una prima lezione di sincerità ed un primo richiamo alla coscienza di questi individui verso la fiducia di qualcuno, moralmente superiore ad essi[54].»
All’educatore spettava, infatti, il compito di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia e di confidenza con i ragazzi. Per il raggiungimento di tale scopo due erano le vie percorribili secondo la Francia. La prima consisteva nel far convergere la propria azione con gli interessi che ordinariamente spingevano il ragazzo ad agire in modo tale che il fanciullo fosse portato ad appigliarsi alla nuova fonte di sentimenti piacevoli che l’educatore sapeva fornirgli. Il ragazzo finiva per intraprendere, in questo modo, la strada verso un ordine di emozioni insolite e superiori rispetto a quelle che era abituato a procurarsi[55]. Nel caso in cui la via appena elencata non si fosse rivelata sufficiente, l’educatore poteva usufruire della seconda che consisteva nell’assecondare qualcuna delle inclinazioni devianti la cui soddisfazione finiva per dare la possibilità di individuare i derivativi più adatti ad una determinata personalità[56].
Tale modo di procedere determinava la nascita di un conflitto fra l’intelligenza del ragazzo che lo faceva sentire colpevole davanti all’opinione dell’educatore, se non ancora di fronte alla propria coscienza, stimolandolo così a reagire con modalità aggressive; e la speranza di essere aiutato e in qualche modo giustificato. Il sorgere di questo conflitto era di grande importanza perché era ciò che spingeva il ragazzo verso una completa confessione sancendo in questo modo la nascita del primo legame confidenziale e rispettoso con l’educatore. Allo stesso tempo assicurava a quest’ultimo la possibilità di esercitare un grande ascendente sul ragazzo primo e necessario passo verso una possibile rieducazione[57]. Come sottolineava la stessa Francia e come è stato ampiamente documentato nelle pagine precedenti, questo modo di procedere era uno degli elementi più innovativi apportati dalla Colonia al campo della rieducazione minorile. Normalmente, infatti, negli altri istituti e anche all’interno delle scuole i bambini, che oggi definiremmo devianti e che allora la Francia chiamava “i peggiori”, venivano isolati e non vedevano dei loro educatori o insegnanti «che il viso severo che li allontana. Da cui risulta che un insegnate o un direttore non conoscerà mai dei suoi discepoli che il lato meno buono e li avrà nemici nell’opera che egli crede di moralizzazione[58].»
L’azione dell’educatore era affiancata da un intervento mirato a dividere fisicamente i ragazzi legati fra loro. Il procedimento adottato era quello di distribuire i fanciulli in dormitori diversi in modo tale che si trovassero a contatto con persone in grado o di non assecondarli o di denunciarli e di assegnargli mansioni lavorative che lentamente li portavano alla separazione.
L’educazione morale oltre a non essere mai impartita ex catedra non veniva mai impartita facendo uso di metodi segregativi o punitivi nel senso usuale del termine ma applicando l’isolamento motivato. L’isolamento consisteva nel lasciare il ragazzo a riflettere su quanto da lui commesso cercando di dirigerlo verso un cerchio di idee favorevoli alla moralità grazie all’operato dell’educatore.
Di grande importanza e effetto e assai innovativo, a mio avviso, era soprattutto il messaggio simbolico che il ragazzo riceveva dall’essere da solo all’interno di una stanza la cui porta non veniva mai chiusa. I ragazzi seguendo quanto scritto dalla Francia non uscirono mai anche se ne avevano la possibilità. Il motivo di questo loro modo d’agire veniva fatto risalire dalla direttrice al fatto che i fanciulli pensavano che non fosse una persona a trattenerli, contro la quale si potesse eventualmente agire con la forza, ma una necessità di cui le loro azioni erano viste come la causa. A riprova di quanto affermato sopra, nei casi in cui era stata sperimentata la stanza chiusa i ragazzi avevano sempre reagito violentemente[59].
«La parte, però, più interessante del nostro esperimento è quella che riguarda i ragazzi sui 15 o 16 anni[60].» Per i ragazzi rientranti in questa fascia di età era, infatti, stato possibile fare una prima differenziazione avente come criterio la diversa sensibilità affettiva e non i diversi gradi di mentalità come invece avveniva nella maggior parte dei casi. La distinzione così effettuata era la prova empirica del gran valore che la sensibilità aveva sulla caratterizzazione della personalità e, in un certo grado, anche sulla mentalità. Questi ragazzi infatti pur presentando all’apparenza lo stesso patrimonio intellettivo possedevano della moralità, o meglio di ciò che si poteva e ciò che non si poteva fare, dei concetti completamente diversi ai quali corrispondevano dei comportamenti e delle modalità di gestire i rapporti relazionali altrettanto differenti. Proprio questa grande differenza fra gli uni e gli altri non faceva altro che convalidare e sottolineare nuovamente, se mai ce ne fosse stato bisogno, la necessità sia di interventi mirati e individuali, sia di seguire l’evolversi dell’esperimento lungo i suoi stadi di evoluzione e di adattamento[61].
Tre erano le categorie in cui era stato possibile suddividere i ragazzi a seconda dei loro modi di esternare le loro tendenze e i loro comportamenti al di fuori della norma.
Nella prima categoria rientravano i giovanetti che apparentemente avevano dei comportamenti normali. In presenza dell’educatore lavoravano, ubbidivano e ragionavano seguendo un filo logico ma appena si rendevano conto o della assenza dell’educatore o di avere a che fare con persone deboli, mutavano il loro modo di agire diventando prepotenti e aggressivi[62]. Per riuscire a modificare questo loro modo di agire era di fondamentale importanza che si sentissero soggetti a qualcuno.
Degli espedienti studiati per mantenere vivo il loro sentimento di soggezione due si rivelarono assai proficui: l’idolatria che questo tipo di ragazzi nutriva nei confronti dell’educazione in quanto avevano in generale grande stima della loro furbizia e della loro intelligenza e l’avergli affidato piccoli incarichi di fiducia[63]. Gli incarichi assegnati erano vari dall’essere il custode delle chiavi di qualche camera in cui era depositato del materiale, fino a quello di garantire la sicurezza e di vigilare sul comportamento di alcuni discoli e impulsivi e, in caso di necessità, di moderarli con modi affettuosi. I ragazzi alla sera dovevano poi relazionare all’educatore sulla loro giornata e su quelli dei bambini a loro affidati. Questo modo di agire mirava a raggiungere un doppio intento: da un lato la relazione che il giovanetto doveva tenere sui piccoli a lui affidati molte volte si trasformava in uno scambio di impressioni grazie al quale i concetti morali del fanciullo diventavano più chiari e più completi e i suoi modi di conseguenza più miti. Dall’altro la relazione della sua giornata si trasformava in un racconto avente come soggetto tutto quello che aveva pensato del suo agire e di quello degli altri individui assai simili a lui, favorendo in questo modo sia l’autocorrezione sia la crescita della confidenza e della fiducia nei confronti dell’educatore. Infatti, crescendo la fiducia nei confronti di chi ascoltava i suoi discorsi e si interessava alla sua vita, il ragazzo finiva così per confessare anche le proprie mancanza e per sottoporre, senza volerlo, la propria volontà alla guida dell’educatore[64]. L’esperimento appena descritto oltre a sancire la validità del metodo terapeutico, era anche una prova empirica della validità della teoria sposata da Francia e Ferrari sul modo di impartire l’insegnamento dei valori morali ad individui che o perché di età ancora immatura o perché anormali in senso lato (del carattere, deficienti, frenastenici,ecc…) non avevano ancora una moralità sviluppata. «Prima di subire l’ascendente che una massima morale esercita su un individuo normale, la cui preparazione ad intuirne la verità e a subirne la necessità è congenita, gran parte degli anormali ha bisogno costantemente dell’azione personale di qualcuno che, per la sua mentalità e per i suoi bisogni affettivi rappresenti la perfezione[65].»
Della seconda categoria facevano invece parte quei fanciulli che manifestavano reazioni momentanee ma inattese e incoercibili[66]. Proprio questa loro peculiarità rendeva all’inizio l’educazione di questi individui assai difficoltosa. Lo studio del ragazzo riportato come esempio dalla Francia sottolineava due aspetti assai importanti al fine della rieducazione. La paura, considerata l’emozione inibitrice per eccellenza dal punto di vista morale, aveva dimostrato di essere un valido freno solo momentaneamente e di avere un valore negativo nel campo dell’educazione. Era dunque necessario aiutare il ragazzo tenendo in considerazione le sue passioni assecondandole per quanto possibile; nel caso citato dalla Francia si sfruttò la doppia passione per i cibi e per i vestiti, e dimostrandogli fiducia, affinché le sue inclinazioni fossero abbastanza soddisfatte e allo stesso tempo si destassero in lui le sue forze assopite o ne nascessero delle nuove che lo avrebbero portato ad una maggiore coscienza della propria responsabilità e dei propri obblighi[67].
L’altro aspetto da tenere in grande considerazione era legato all’importanza di non lasciarsi trarre in inganno dall’euforia che poteva nascere all’apparire dai primi miglioramenti. Molte volte in questo stadio della rieducazione l’equilibrio raggiunto era così fragile che era stata sufficiente la comparsa di uno stimolo inconsueto, come una diminuzione di fiducia da parte dell’educatore o la tendenza comune a tutti i fanciulli a fare cose insolite quando nell’ambiente succedeva qualche cosa di insolito, a far riaffiorare le inclinazioni devianti[68].
Nella terza categoria rientravano, invece, quei giovanetti che erano in grado di comprendere quello che potevano fare e quello che non potevano fare solo in una cerchia ristrettissima di casi che, in alcuni fanciulli, si limitavano addirittura ad uno o due[69].
Interessante un caso portato come esempio dalla Francia dove un ragazzo soggetto a periodi di irritazione e di depressione della durata di due tre giorni durante i quali diventava molto aggressivo ma una volta trascorsi non era pericoloso. Durante il periodo di isolamento al quale era stato sottoposto a causa del primo atto violento commesso all’interno della colonia, grazie al tempo trascorso con lui e ai continui inviti a spiegare il suo modo di agire, confessò la causa del suo comportamento: “in certi momenti si sentiva voglia di battere e non si sapeva dominare”[70]. Il metodo adottato consisteva nell’aver persuaso il ragazzo che il suo desiderio di picchiare fosse uguale a qualsiasi altro tipo di male e in quanto tale quando non si sentiva bene doveva ricorrere, come avrebbe fatto per il mal di denti, all’infermiera. Della prima crisi si accorse il personale ma il ragazzo non presentò nessuna obbiezione alla terapia per lui adottata. Per le crisi successive fu sempre il ragazzo a presentarsi spontaneamente e il suo sforzo veniva sempre aiutato e rinforzato consentendogli di non fare dei lavori ai quali si era piegato a fatica e con qualche regalo. A questo trattamento corrisposero una condotta sempre migliore e più attiva nei periodi buoni e alla rinascita di sentimenti di simpatia nei confronti dei più deboli. Soprattutto l’intelligenza pratica si acuì tanto che da riottoso al lavoro iniziò a svolgere mansioni di propria iniziativa. Il sentirsi utile fu una delle molle che determinarono in lui i migliori cambiamenti[71].
Il lavoro come mezzo curativo.
Ferrari, come stavano a testimoniare i numerosi esperimenti lavorativi effettuati all’interno dei manicomi da lui diretti, credeva fermamente che lo svolgimento di un lavoro, consono alle caratteristiche e alla personalità del malato, potesse apportare delle modificazioni al suo modo di manifestare le sue stesse tendenze. Queste sue convinzioni maturate in campo psichiatrico erano state rafforzate dall’apertura, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, di istituti non solo per deficienti ma anche per giovanetti criminali basati sul lavoro agricolo e industriale. Forte delle sue convinzioni e dei feedback positivi che gli giungevano dalle esperienze fatte al di fuori dell’Italia, lo psichiatra reggiano aveva ideato la vita all’interno della villa in modo tale che fosse possibile utilizzare il lavoro come mezzo curativo così nel significato psicologico come in quello morale della parola[72]. Oltre ad avere un valore educativo, per lo psichiatra reggiano, il lavoro doveva avere anche un valore sociale. Ai giovanetti all’interno della villa dovevano essere insegnate delle attività lavorative che gli permettessero di entrare nel mercato del lavoro una volta usciti e di essere così autosufficienti e quindi di non pesare più sulla società. Peso che continuavano ad avere in quanto degenti della Colonia e che le mansioni svolte al suo interno avevano come fine quello se non di abbatterlo almeno di ridurlo.
Dalla personalità e dalle capacità dell’educatore di riuscire a dominare quella del ragazzo, Ferrari e la Francia facevano dipendere la buona riuscita del progetto dato che i ragazzi si erano dimostrati molto più sensibili alla persona che applicava il sistema che al sistema stesso.
Il terapeuta nell’esercizio della sua funzione poteva avvalersi di due metodi, derivativo e simbiotico, che Ferrari si era soffermato a descrivere nell’articolo pubblicato nella ‹‹Rivista di psicologia›› nel 1907[73]. «Infatti egli può fare una cura derivativa, cercando di incanalare le tendenze che sono troppo vigorose per adattarsi alle ornières tra cui si svolgerebbe normalmente la vita di quel giovanetto; oppure può tentare una terapia simbiotica, adattando, cioè, a mestieri utili (anche se sono fuori dal comune e possono urtare i pregiudizi della morale corrente) le tendenze altrimenti dannose[74].»
Delle due terapie la derivativa era considerata la più semplice da applicare in quanto, una volta evidenziate quelle che erano le tendenze fondamentali del giovinetto che minacciavano di pervertirsi, il lavoro da svolgere era circoscritto alla capacità di trovare un impiego che riuscisse ad assorbire tutto l’interesse che il giovane riversava in quelle. Con questa terapia potevano essere dunque trattati i giovani in cui “l’ago della parabola dell’evoluzione criminale”, precedentemente descritta, si trovava nel punto in cui la caratteristica principale era la nascita dell’interesse per l’attività criminale[75].
L’applicazione della terapia simbiotica risultava più problematica e più irta di insidie in quanto la realizzazione del suo trattamento dipendeva dalla capacità di riuscire a mettere a tacere il bisogno e il piacere che stavano alla base delle azioni criminose compiute dai ragazzi. Gli ostacoli maggiori e più difficili da superare per l’educatore erano proprio questo piacere che i giovanetti provavano nel compiere le azioni criminose e il fatto che le medesime azioni fossero, allo stesso tempo, immediatamente comode per i fanciulli[76].
Pur presentando caratteristiche diverse l’uso di un metodo non escludeva l’altro ma anzi il loro utilizzo ottimale consisteva nel alternarli, per periodi lunghi o brevi, a seconda dalle necessità dettate dai caratteri psicologici individuali.
La vita stessa all’interno della colonia era stata progettata in modo tale che i ragazzi, essendo il corpo di “lavoro” formato dalla direttrice, da una sola infermiera e da qualche malato cronico, fossero costretti ad un lavoro continuo per la pulizia e la manutenzione della villa. A questo genere di mansioni si affiancavano quelle legate ai lavori campestri, alle varie attività di sorveglianza e di custodia[77].
Affinché il lavoro riuscisse a svolgere la sua funzione terapeutica, era necessario che il suo svolgimento fosse consono alle caratteristiche di ogni soggetto. Caratteristiche che non dovevano essere evinte solo dalla mentalità dei fanciulli ma anche dalla loro affettività. Infatti se il lavoro svolto fosse riuscito a soddisfare i bisogni sentimentali dei giovanetti avrebbe avuto sulla loro educazione un doppio effetto positivo. Da un lato, risultando gradito, sarebbe stato più facilmente continuato, dall’altro avrebbe fornito una possibile via di scarico agli impulsi congeniti la cui presenza era l’ostacolo maggiore da superare per riuscire ad ottenere una condotta stabile e composta[78].
Ferrari e la Francia, quando parlavano di individui in grado di svolgere lavori utili, si riferivano a quei fanciulli che venivano considerati anormali o del sentimento o della volontà o del carattere. In quanto tali disponevano di un buon potenziale di energie ma che non sapevano sfruttare al meglio perché o ne avevano una coscienza limitata o solo saltuariamente ne riconoscevano le potenzialità o per la loro tendenza costante a farne uso per raggiungere scopi in contraddizione con le leggi che regolavano i rapporti sociali e individuali.
Al fine di riuscire nell’opera di rieducazione dei fanciulli diventava di primaria importanza non solo eccitare le possibili energie latenti ma anche «regolarizzare l’esistenza di quelle energie latenti togliendone il sovrappiù o incanalandolo verso finalità utili; e fare attenuare o spegnere il loro egoismo prepotente da istinti o desideri nuovi che gli contrastino insuperabilmente il passo….In maniera che la risultante fosse il maggior equilibrio delle forze esclusa ogni virtuosità [79].»
Essendo presenti nella villa fanciulli con caratteristiche distintive assai diverse, risultava praticamente impossibile assegnare a tutti la medesima mansione. Per ovviare a questo problema all’interno della Colonia furono inserite attività lavorative che non richiedevano una coscienza evoluta per essere apprezzati ma che dovevano avere attrattive primitive atte a risvegliare gli istinti più radicati nell’uomo quali ad esempio la attività campestri la cui influenza aveva dei benefici notevoli su gli individui eccitabili.
La grande diversità dei fanciulli, unito ad uno dei principi che stavano alla base della ideazione della colonia secondo il quale era necessario garantire ai bambini la coscienza di essere completamente liberi di agire, erano i motivi di fondo che stavano alla base della decisione presa dai dirigenti dell’istituzione di lasciare che i fanciulli scegliessero l’attività da svolgere secondo il loro gusto personale. L’intervento degli assistenti si rese necessario solo nei casi in cui i ragazzi abbandonavano ogni tipo di attività lavorativa a causa di un eccesso o di indolenza o di spirito di contraddizione[80].
Inizialmente i ragazzi venivano lasciati liberi di cambiare la mansione lavorativa ogni qualvolta lo desiderassero per lasciarli altrettanto liberi di provare e sperimentare tutti gli stimoli che gli venivano forniti dagli assistenti. In questa fase di sperimentazioni il compito dell’educatore non era quello di interferire nelle scelte dei giovanetti ma bensì di assecondarlo in modo tale che i ragazzi scegliessero da soli il lavoro più idoneo alla loro mentalità. Una volta trovato i fanciulli vi si dedicavano senza più sentire la necessità di cambiare mansione continuamente[81].
Oltre alla terapia simbiotica e derivativa menzionata in precedenza, l’educatore poteva servirsi di escamotages grazie ai quali il ragazzo veniva aiutato, senza che ne fosse consapevole, a migliorare le sue capacità lavorative. Come si verificava nel campo dell’educazione morale anche nel campo lavorativo se si volevano ottenere dei risultati dai ragazzi occorreva far sentire loro di non essere un numero nella collettività ma che per l’educatore essi avevano un valore. Uno dei metodi migliori per ottenere questo scopo era quello di affidargli la direzione di qualche lavoro in cui doveva trattare i suoi “dipendenti”, solitamente fanciulli o di età minore o con una deficienza mentale più accentuata della sua, come lui veniva trattato dagli educatori: aiutarli, consigliarli, domandare loro spiegazioni prima di attribuirgli una mancanza e annotare i miglioramenti e poi riportarli al loro referente. Il dato interessante emerso consisteva nel fatto che individui che a mala a pena erano in grado di frequentare la terza elementare fossero degli acuti osservatori e che individui che si erano dimostrati violenti e impulsivi quando si erano trovati a vivere in condizioni di passività o di eccessiva compressione dei loro istinti, nel nuovo ambiente e con i nuovi stimoli forniti avevano mutato il loro atteggiamento violento in uno più umano di protezione[82].
Non sorvegliare i ragazzi durante lo svolgimento delle loro mansioni si verificò un’altra tattica assai proficua. Una volta spiegato loro in che cosa consisteva il lavoro che dovevano compiere li si lasciava da soli. All’inizio numerose furono le diserzioni e i lavori non portati a termine. I ragazzi che avevano abbandonato il loro lavori vi venivano riportati senza redarguirli e anzi venivano incitati a riprendere la loro attività. Se chi li dirigeva era disposto a ricondurli anche tre o quattro volte alla attività che avevano abbandonato questa tattica si dimostrava particolarmente proficua perché aiutava a rendere più perfetta l’esecuzione e a migliorare le abilità di ciascuno senza far uso di mezzi coercitivi che nella maggior parte dei casi avrebbero finito per allontanare i ragazzi[83].
I risultati ottenuti grazie alla fiducia concessa ai ragazzi non si fermavano al solo campo pratico ma si estendevano anche a quello morale facendo nascere una coscienziosità e un amore tale per una data mansione che una volta manifestatisi rendeva assai difficile il mutamento della attività lavorativa da parte dei ragazzi. Un esempio lampante erano le manifestazioni di gelosie per gli strumenti adoperati o per alcuni luoghi di lavoro.
L’attività lavorativa scelta e il modo in cui veniva svolta non si limitava solo a far ricadere i suoi effetti positivi sulla condotta morale ma era importante anche per evincere i caratteri di moralità propri di un individuo essendo il lavoro una delle espressioni più evidenti della personalità. Metodo applicato soprattutto nel campo dei frenastenici dove, prima che venisse sottoposto a qualsiasi tipo di test, uno dei caratteri dal quale si poteva formulare un giudizio su un soggetto era la sua capacità di adattabilità ad un’occupazione qualsiasi tenendo, ovviamente, in debita considerazione il suo grado di deficienza mentale. Veniva così evidenziato ancora una volta come fosse importante sia per una corretta chiave di lettura degli individui in generale e degli anormali in particolare sia per trovare una corretta soluzione del problema un approccio basato sull’individuazione e sulla iterazione delle varie forze in campo[84].
Educazione intellettuale attraverso la vita sentimentale.
Anche l’educazione intellettuale come quelle morale, all’interno della villa, veniva impartita partendo dagli stati affettivi. Seguendo una delle convinzioni più radicate in Ferrari, secondo la quale nella valutazione dei ragazzi troppa importanza veniva attribuita alle capacità intellettuale a discapito di quelle affettive che erano invece in vero centro propulsore e quindi rilevatore della personalità e della capacità dei ragazzi, all’interno della Colonia il metodo usato partiva dagli stati affettivi per riuscire a raggiungere un progresso anche in campo intellettuale.
I maggiori miglioramenti erano previsti soprattutto per coloro che presentavano, come caratteristica predominante, uno squilibrio affettivo. La tecnica usata era quella di cercare da un lato di riuscire ad incanalare e riordinare le tendenza che danneggiavano l’armonia della personalità dei fanciulli e dall’altro di rendere duratura l’associazione fra le emozioni normali suscitate e i rispettivi pensieri. I pensieri, sorti secondariamente, divenivano predominanti contribuendo in questo modo alla stabilità degli stati affettivi stessi e all’apertura di sbocchi pratici per l’attività intellettuale[85].
Trattando il tema della importanza dello spirito di iniziativa la Francia toccava[86], a mio avviso, un tema caro a Ferrari e una delle innovazioni più importanti da lui apportate nello studio dell’anormalità: indipendentemente dal loro grado di malattia o anormalità gli individui continuavano ad avere, anche se in misura minima, degli aspetti di normalità.
Il richiamo, anche nel campo dell’educazione intellettuale, era allo studio e alla conoscenza dell’individuo nelle sue particolarità.
Particolarità quali i sentimenti di amor proprio, di vanità e di affezione che diventavano di vitale importanza soprattutto quando gli interessi, a cui si cercava di rendere sensibili i ragazzi, non potevano essere associati a nulla che potesse essere per loro uno stimolo valido. A questo punto, grazie alla buona volontà e alla sensibilità dell’educatore, era possibile “attaccare” gli interessi che si volevano suggerire a quello, tra i sentimenti sopra citati, a cui il ragazzo era più sensibile[87].
Quando tale associazione sia stabilita, si vedrà indubbiamente, come abbiamo visto noi, il lavoro mentale orientarsi per via che vi abbiamo tracciata e perfezionarsi e divenire ingegnoso perché trova così, non il solo compenso dell’istinto soddisfatto, ma tutti i compensi morali e materiali che vi accumuliamo intorno, esagerando, se occorre, l’apprezzamento, finché l’abitudine non si formi. Noi avremo così degli individui che imparano a pensare e ad agire perché li abbiamo educati, innanzi tutto, a sentire[88].
Il passaggio dalla soddisfazione delle tendenze amorali a quello delle inclinazioni normali era uno dei momenti più critici per il buon esito della terapia. Nonostante l’educatore cercasse di aiutare i ragazzi ad inibirsi con il suo aiuto tenendolo il più possibile nell’ambito della sua sfera di influenza per intere settimane il subcosciente dei ragazzi si ribellava. In alcuni casi i sogni diventavano agitati, in altri i ragazzi diventavano molto irrequieti e altri ancora, diventati ipersensibili, cadevano nella disperazione più profonda per un non nulla. Il metodo migliore da adottare si era rivelato quello di non dare troppa importanza a questi fenomeni e in alcune occasioni volgere in scherzo l’accaduto.
Ma una verità esce da questa nostra esperienza: ed è che dopo l’educazione sensoriale, la quale, naturalmente, per i nostri soggetti occupa il primo posto in ordine di tempo e di necessità, è da collocare l’educazione degli istinti, e per conseguenza l’azione diretta, con mezzi strettamente adatti all’individuo pel il quale sono disposti, sulle emozioni e sui sentimenti legati a questi istinti. Si può e si deve contare sul carattere di transitorietà che alcuni istinti hanno e sulla possibilità, mediante una serie di atti o di suggestioni, per via d’esempio o di persuasione, di legare alle soddisfazioni di quelli che rappresentano la parte migliore dell’individuo, emozioni e sentimenti abbastanza forti, da renderli predominanti. Non bisogna soprattutto trascurare gli stati mentali connessi a questi stati affettivi, poiché il loro valore può essere tale da indurci a constatare, non solo un progresso morale, ma altresì un progresso intellettuale nella persona in cui si verificano[89].
Conclusioni
L’esperimento di colonizzazione libera iniziato nel 1910 a Castel Guelfo per mezzo del Patronato dei Pazzi Poveri terminò la sua attività, con grande rammarico da parte di Ferrari, il primo novembre del 1914 fondamentalmente e ufficialmente per la mancanza di fondi. Fondi che erano stati sempre scarsi e che la guerra incombente aveva reso pressoché nulli. La ristrettezza economica era stata una caratteristica che aveva accompagnato l’esperimento fin dalla sua nascita al punto che Ferrari, per attuare il suo progetto, si era visto costretto a pagare l’affitto di tasca propria. La mancanza della sicurezza economica aveva fatto sentire i suoi effetti anche a livello dirigenziale dove, non essendo garantito l’avvenire, nessuna delle persone a cui era stata affidata la direzione “osò rimanervi”[90]. Per questa ragione la stessa Gabriella Francia che insieme a Ferrari aveva dato vita all’esperimento dopo due anni di attività aveva lasciato l’incarico di direttrice, anche se almeno per il terzo continuò a dare le direttive generali, per andare a ricoprire il posto di insegnante di pedagogia che le era stato offerto in una Scuola Normale di Sassari[91]. Si ebbe così all’interno della villa un avvicendamento continuo a livello dirigenziale che, dato il ruolo chiave che il direttore o la direttrice si trovavano ad occupare, di certo rallentò e rese più difficoltoso l’attuazione del metodo terapeutico.
Dietro ai problemi di matrice economica se ne nascondevano, però, altri legati al profondo senso di abbandono da parte delle istituzioni che non solo non avevano mai appoggiato la Colonia ma neanche avevano mai manifestato nessun tipo di riconoscimento per il valore dell’opera svolta. Tale atteggiamento aveva fatto nascere in Ferrari rabbia, rimpianto e un sentimento misto di impotenza e rassegnazione che forse più delle ristrettezze economiche lo avevano spinto a chiudere i battenti della Colonia come si evince dalla relazione che Ferrari inviò al Presidente della Deputazione Provinciale di Bologna il 3 dicembre 1914:
Per gli educabili, invece, credo dovrebbe continuare a provvedere il Manicomio, nei modi che le circostanze dimostrano possibili o opportuni. Fra questi, certo, il più ideale sarebbe quello dell’assistenza libera, come abbiamo fatto prima a Castel Guelfo, poi alla Villa Carducci. Ma, sebbene la nostra fiducia nell’eccellenza del metodo sia sempre più fondata e più viva, pure, dopo ormai quattro anni di fatiche, di preoccupazioni, di responsabilità morali e penali gravissime, non allietata mai dal riconoscimento aperto della bontà dell’opera nostra, che solo ha giovato ai nostri piccoli ricoverati e al buon nome del Manicomio, non ci sentiamo più di riprendere la via faticosa per conto del Patronato[92].
A consolare Ferrari vi erano però i risultati ottenuti, risultati più che soddisfacenti per quanto riguardava sia i frenastenici sia i giovanetti criminali, risultati che nel caso dei giovanetti criminali erano confortati anche dai dati numerici che lo psichiatra reggiano citava nell’Autobiografia con grande orgoglio. ‹‹Dei 18 ragazzi che il Tribunale ci aveva inviati[…]soltanto due isterici sono ricaduti nelle mani della Giustizia (uno dopo aver guadagnato tre medaglie d’argento in guerra per straordinari atti di valore), due sono morti gloriosamente di fronte al nemico; gli altri di ambo i sessi hanno continuato onestamente la loro vita[93].»
I miglioramenti che andarono oltre ad ogni più rosea aspettativa, come sottolineava la stessa Francia scrivendo le conclusioni dell’esperimento della colonizzazione, furono quelli che si verificarono nel campo dei sentimenti morali dove malati, che fino a quel momento venivano considerati ‹‹refrattari›› a questo genere di fenomeni, impararono ad auto controllarsi e a usare le loro tendenze per raggiungere scopi non più in contrasto con le regole sociali. La Francia, in pieno accordo con Ferrari, riconduceva il raggiungimento di questi esiti positivi al metodo adottato basato sull’azione indiretta sull’incosciente degli individui senza destare in questi il ben che minimo sospetto. Tale azione faceva così nascere nell’individuo un nuovo stato di coscienza dal quale l’individuo si sentiva attratto. Una volta nato questo nuovo sentimento, l’esperimento aveva dimostrato che per avere buone probabilità di renderlo duraturo, occorreva che l’ambiente riuscisse ad interessare il ragazzo a questo nuovo stato di coscienza. Sottolineando così ancora una volta, a mio parere un concetto molto importante e innovativo per l’epoca, come il miglioramento non derivasse da un progresso della cultura o della condotta dovuto all’imitazione o ad altre cause ma dipendesse dal fatto che «Questi ragazzi erano stati aiutati a formarsi una certa personalità, senza dare o senza togliere nulla alla loro individualità, ma semplicemente indiziando a fini utili le tendenze non buone che esistevano in essi, o deviando per vie innocue gli eventuali eccessi della loro vitalità[94].»
Nel caso dei frenastenici è particolarmente rilevante notare come questi anormali si adattarono alla vita famigliare per la quale fino a quel momento erano stati considerati inadeguati.
Al di là della grande importanza che potavano avere i risultati ottenuti l’attuazione dell’esperimento della colonia libera rappresentava già di per sé un enorme passo avanti nel campo della rieducazione della delinquenza minorile. Gli anni in cui fu portato avanti tale progetto erano gli stessi anni in cui in Europa e nel Nord America in generale e in Italia in particolare si era registrato un forte aumento della criminalità minorile che fra gli altri temi aveva riportato prepotentemente alla ribalta quello dei carceri e degli istituti per minorenni. Nonostante i buoni propositi e le idee valide che avevano dato vita alla Riforma Doria, la situazioni delle carceri e degli istituti per minori italiani, salvo qualche raro caso, non era migliorata di molto. Diversi erano i fattori che avevano concorso a determinare tale situazione. A mio avviso il fattore che maggiormente fece sentire la sua influenza negativa, soprattutto per i suoi effetti “a pioggia”, fu la mancata approvazione, nonostante la Commissione nominata da l’On. Quarta, di una legge del livello del Children Act entrata in vigore in Inghilterra nel 1909. Questa legge aveva avuto, infatti, il merito da un lato di regolamentare l’andamento dei tre diversi istituti previsti dalla legislazione inglese dando vita così ad un progetto unitario, e dall’altro di istituire magistrati e Tribunali per i soli minorenni. Mancando in Italia una legge di questo tipo non essendo previsti né magistrati né Tribunali per minorenni si finiva così per considerare i minorenni alla stregua degli adulti o al massimo come degli adulti in miniatura quando gli studi di Pedagogia e di Psicologia avevano già da tempo evidenziato la grande differenza esistente fra le due categorie.
L’assenza di un progetto unitario da parte dello Stato, che in fondo finiva per tradursi in una mancata presa di coscienza del problema stesso, che fosse in grado di coordinare il lavoro dei vari istituti che si occupavano di delinquenza minorile aveva finito non solo per non apportare nessun miglioramento ma anche per rendere maggiormente difficoltosi i pochi tentativi ben riusciti grazie all’intraprendenza di privati cittadini ai quali non fu quasi mai garantito il ben che minimo sostegno.
Il problema legato al numero dei posti disponibili negli istituti o nei carceri per minori, assai al di sotto delle esigenze dell’epoca, era una delle prime conseguenze della mancanza di un progetto unitario che finiva per avere come risultato pratico l’invio della maggior parte dei minori nelle carceri per adulti. I fanciulli si trovavano così inevitabilmente a condividere la cella con maggiorenni con tutte le conseguenze che tale condivisione comportava per i fanciulli stessi.
I ragazzi che avevano la fortuna di essere inviati in istituti per minori, salve poche eccezioni, si trovavano a vivere in istituti in cui, in realtà, vigeva un vero e proprio regime carcerario a partire dalle sbarre alle finestre e alle porte fino ad arrivare al personale lavorante che invece di essere degli educatori erano, per lo più, delle vere e proprie guardie carcerarie. In Italia si era dunque ancora molto più vicini a un modello di istituto basato sul sistema repressivo che al modello diffuso in molti degli stati nord europei e nord americani la cui funzione principale era invece quella di educare, di insegnare una professione e di istruire.
Date queste premesse l’esperimento della Colonia realizzato da Ferrari era portatore di numerose innovazioni per il sistema di rieducazione italiano e non solo. Innanzitutto il luogo scelto, sottolineando ancora una volta l’importanza che lo psichiatra reggiano attribuiva all’ambiente, non era né un carcere, contro i quali Ferrari si era sempre battuto allontanandosi in questo modo dalle posizioni assunte dalla Scuola Classica e da quella Positiva, né un istituto ma bensì una villa dotata di un ampio parco e di un orto. Una villa in cui vigeva un regime di semi libertà mancando le sbarre sia alle finestre sia alle porte e essendo affidato il controllo dell’ordine alla direttrice, ad una infermiera e a quattro vecchi malati. La scelta della semi libertà era dettata da due convinzioni care allo psichiatra reggiano: la prima si rifaceva all’idea secondo la quale ad ogni restrizione della libertà corrispondeva una diminuzione dell’io cosciente, la seconda aveva invece le sue radici nella importanza riconosciuta al valore del carattere simbolico.
Particolarmente rilevante e innovativo, soprattutto alla luce dei risultati positivi ottenuti, è da considerare il tentativo di coeducazione effettuato all’interno della villa. La coeducazione, infatti, in Italia era sostenuta, in quegli anni, praticamente dai soli DeSanctis e Ferrari. A destare le maggiori preoccupazioni era soprattutto il campo della sessualità, date le tendenze spiccate che alcuni degenti presentavano. In realtà nella Colonia non si verificò nessun genere di problema ma anzi fu la dimostrazione che se si era in grado di incanalare o disciplinare le energie in sovrabbondanza, grazie allo svolgimento di una attività lavorativa interessante, regolare continuato e variegato; di una educazione morale corretta, dello svolgimento di una attività muscolare; di divertimenti e di una corretta alimentazione, non solo la coeducazione era possibile ma permetteva di ottenere dei benefici durevoli.
Interessante notare, ai fine della terapia, che si creò un certo antagonismo fra i due gruppi che portò ad un rapido miglioramento del contegno delle ragazze e nei ragazzi una maggior compostezza dei modi e del linguaggio. I ragazzi inoltre si dimostrarono molto più sensibili ai rimproveri se questi venivano fatti in presenza di ragazze[95].
Affidando poi la direzione a Gabriella Francia e assegnandole come aiuto una infermiera, Ferrari concretizzava quella che fu una convinzione per la quale si batté durante l’arco di tutta la sua vita:
«Io non credo, cioè, che l’opera di raccolta e di educazione dei minorenni traviati possa essere opera di uomini[…]ma…deve essere affidato a delle donne, purchè siano delle vere donne, intendiamoci[96].» Le mansioni affidate alle donne dovevano in realtà estendersi a tutto ciò che concerneva l’infanzia traviata includendo anche il ‹‹magistrato dei minorenni›› poiché «Solo con la donna il bambino ha confidenza, d’istinto, forse, perché la sente più simile a sé, più vicina, perché la donna come il bambino ha un subcosciente più ricco, più spontaneo, più pronto ad affiorare, a mettersi in contatto con quello che sia con esso consonante[97].»
Ferrari proponeva e concretizzava, così, nel campo della rieducazione dei giovanetti criminali da un lato quello che, come osservava Babini, era stato un topos della lettura medica in generale e degli scritti di igiene mentale in particolare: il ruolo centrale della donna come ‹‹apostolo›› della scienza. Dall’altro ripercorreva la stessa strada percorsa da Itard quando, rifacendosi alla sua esperienza educativa del selvaggio di Aveyron, considerava essenziale la figura femminile per l’insegnamento dell’educazione ‹‹morale››[98]. Strada a cui probabilmente Ferrari era giunto seguendo le vie battute da coloro che si erano occupati dell’infanzia anormale.
All’interno della villa, Ferrari aveva portato, soprattutto, la psicologia individuale. Una psicologia individuale, che seguendo i dettami jamesiani, era stata improntata allo studio della psiche nella sua complessità e nel suo divenire permettendo a Ferrari di allontanarsi dall’antropologia di stampo positivista strettamente legata al riduzionismo. A livello pratico l’introduzione di tale psicologia aveva permesso di improntare il metodo terapeutico in modo tale che fosse possibile individuare le caratteristiche di ogni fanciullo così da poter stilare, in base ai dati raccolti, una terapia individuale che grazie al rapporto con l’educatore, fosse in grado di aiutare il ragazzo a costruirsi una personalità che pur tenendo nella dovuta considerazione le tendenze di ognuno, gli permettesse, però, agendo sul suo inconscio di: o dirigerle verso fini utili o dove questo non fosse possibile di trovare una via di scarico innocua in modo tale che il ragazzo non entrasse più in conflitto con le regole della comune convivenza. Le innovazioni apportate dalla psicologia individuale si intrecciavano così ad altri due capisaldi della “psicoterapia pratica contro le tendenze amorali e criminali dei giovani” messa a punto da Ferrari: l’introduzione della figura dell’educatore e l’importanza riconosciuta al sub-cosciente.
La possibilità di redimere i giovanetti, infatti, passava per Ferrari essenzialmente dalla capacità e dalla possibilità dell’educatore di riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia e stima con i ragazzi a lui affidati. Grazie alla nascita di questo rapporto diventava possibile “aggredire i ragazzi per la via del sub-cosciente” considerato dallo psichiatra reggiano l’unico metodo per riuscire a mutare gli atteggiamenti dei ragazzi essendo la personalità indissolubilmente legata al sub-cosiente[99].
A Ferrari andava inoltre riconosciuto il merito di avere sperimentato in Italia, seguendo l’esempio delle colonie di lavoro del Nord Europa e del Nord America, l’introduzione dell’insegnamento di una attività lavorativa a fini sia terapeutici sia sociali.
I successi ottenuti all’interno della Colonia erano, probabilmente, stati possibili anche grazie al criterio di classificazione adottato da Ferrari e sostenuto anche da numerosi addetti ai lavori tra i quali De Sanctis. Nella schiera dei giovanetti criminali, secondo lo psichiatra reggiano, occorreva distinguere coloro che avevano violato la legge perché psicopatici, da coloro che, integri mentalmente presentavano la sola tendenza a vivere al di fuori delle leggi di convivenza sociale. Dei primi in quanto malati si doveva occupare la clinica, dei secondi la psicologia, evitando in questo modo di applicare metodi e teorie a individui che non ne potevano trarre nessun giovamento. L’analisi di Ferrari andava oltre, affermando che la maggior parte dei reati commessi da questo secondo gruppo non era altro che il frutto di tendenze “naturali” comuni a tutti i ragazzi, tendenze che l’ambiente e la mancata educazione avevano spinto a manifestarsi attraverso comportamenti antisociali. Lo psichiatra reggiano sottolineava così anche nel campo della psicologia della delinquenza minorile un tema a lui caro: la labilità del confine fra comportamenti normali e anormali posizione che lo allontanava decisamente dalle posizioni assunte da Lombroso.
Dando vita all’esperimento della colonia, Ferrari aveva affermato che a spingerlo ad attuare il progetto erano state fondamentalmente tre motivazioni: studiare sul campo la psicologia dei giovanetti criminali all’epoca quasi sconosciuta, verificare la possibilità del loro adattamento alla vita e testare la validità della sua teoria sull’analogia biologica e sociale che legava gli alienati e i criminali[100].
Se sui primi due punti si può essere d’accordo con Ferrari della positività dei risultati ottenuti sul terzo punto a mio avviso occorre fare una distinzione. E’ vero che il trattamento dei tardivi intellettuali e dei giovani criminali aveva dato per entrambi degli esiti positivi ma a mio avviso dovuti non tanto agli effetti positivi della loro coeducazione ma alla validità del metodo messo in campo.
L’esperienza della Colonia terminò nel 1914 ma con essa non cessò l’interesse di Ferrari per la psicologia e per le sorti dei giovanetti criminali come stanno a testimoniare la sua partecipazione in qualità di membro della Commissione per la riforma del codice penale presieduta da Ferri e istituita da Ludovico Mortasa nel 1919. Nel 1921 a Bologna grazie al suo sforzo volitivo nasceva sotto le ali del Patronato dei Minorenni una “sezioncina” per 27 minorenni inquisiti dotata di scuola, laboratorio e di tutto il necessario[101]. Il tempo era importante ma i numerosi articoli pubblicati da Ferrari e soprattutto i temi ricorrenti, quelli a lui cari da sempre, stavano a testimoniare come, anche dopo quasi venti anni, la situazione non fosse cambiata di molto: il bisogno di istituire un’opera seria di profilassi, i tentativi di richiamare l’attenzione dello Stato soprattutto sulla necessità di un suo intervento diretto e di una riforma organica che prevedesse una collaborazione e una pianificazione comune tra Stato, Province e Comuni, la necessità sempre più impellente di istituire una magistratura, Tribunali e una legislazione per minorenni e di togliere finalmente i ragazzi dai carceri. Dei i tanti un monito, a mio avviso, mantiene ancora oggi valida la sua efficacia «Si tenga sempre presente che ogni ritardo costa sangue, lacrime e denaro; che della criminalità tutti siamo un po’ responsabili, più o meno direttamente, anche per il sol fatto di vivere in questa società; che chiunque di noi, dei nostri figli, può esserne vittima[102].»
[1] Cfr. G. C. Ferrari, Autobiografia, op. cit., p. 20.
[2] Ibidem, p.24.
[3] Ibidem, p. 24.
[4] G. Francia da quanto si evince dal carteggio Francia-Ferrari, era stata chiamata a Bologna da Ferrari per dirigere l’esperimento di colonizzazione libera per deficienti. Infatti, le lettere in cui è menzionata l’offerta di un incarico alla Francia da parte di Ferrari sono datate 1909.
Le notizie che sono stata in grado di recuperare a riguardo di G. Francia provengono dallo scambio epistolare che ebbe con Ferrari e dagli articoli che scrisse sulla «Rivista». Proprio la «Rivista», a mio parere, può essere stato il loro “luogo” d’incontro. La Francia era un’insegnante di Pedagogia interessata alle possibilità di conoscere la psiche grazie all’uso dei test. Ne aveva elaborato uno lei stessa e di questo, infatti, discorreva con Ferrari nella lettera datata 31 marzo 1908, nella quale tra le altre cose affermava di leggere la «Rivista». Nello stesso anno veniva pubblicato il suo primo articolo nella «Rivista» dal titolo. Sul problema dell’auto-consolazione.
[5] Nella lettera inviata da Ferrari al Presidente della deputazione Provinciale di Bologna non viene menzionata la ragione che spinse la Deputazione Provinciale a compiere questo spostamento. Gli articoli e le lettere scritte da Ferrari sottolineavano, a più riprese, le ristrettezze economiche in cui versava il Manicomio di Bologna in Imola e la pochezza dei fondi che la Provincia destinava a questi. E’ molto probabile, a mio avviso, date queste premesse che la decisione di spostare un certo numero di malati da un istituto privato, come era quello di Bertalia, al Manicomio Provinciale di Imola avesse come fine quello di cercare di ridurre le spese a carico della Amministrazione stessa.
[6] Cfr. Atto n. 1562 del 3 dicembre 1914, Archivio Provinciale di Bologna.
[7] L’esperimento di colonizzazione libera per i soli deficienti durò quattro mesi. A questo primo esperimento segui quello della colonizzazione libera dei deficienti gravi e dei giovani criminali. Cfr. G. Francia, carteggio Francia – Ferrari, Fondo Ferrari, Padova, Riprodotto in Appendice, Vercelli, 21-Febbraio-1967. Da quanto è possibile evincere dal carteggio G. Francia era stata chiamata da Ferrari a Imola proprio per dirigere l’esperimento di colonizzazione libera per deficenti.
[8] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., p. 2.
[9] Cfr. G.C. Ferrari, Giovani irregolari, op. cit., pp. 463- 474.
[10] Ibidem, p. 469.
[11] Quattro erano i laboratori esistenti all’epoca locati: uno presso il manicomio di Reggio Emilia, altri tre all’interno dell’Università uno di Roma diretto da Sergi e l’altro di Firenze diretto invece da De Sarlo e l’ultimo di Torino diretto da Kiesow
[12] Cfr. V. P. Babini, La questione…, op. cit., p. 173.
[13] Ibidem, pp.108-110, 112-113.
[14] Cfr. C. Tumiati, Giulio Cesare Ferrari e la rieducazione dei Giovanetti criminali, Estratto da «L’Educazione Nazionale»- fascicolo 1, 1933, ora in Scritti di Pedagogia…, op. cit., pp. 6-7.
[15] Cfr. G. C. Ferrari, La psicologia…, op.cit., p. 335.
[16] Cfr G. C. Ferrari in La psicologia dei giovanetti criminali, op. cit., pp. 336-337.
[17] Ibidem, p. 339.
[18] Ibidem, pp. 339-342.
[19] G. C. Ferrari, Giovani irregolari, op.cit., e La psicologia dei giovanetti criminali, op. cit.
[20] Cfr. G. C. Ferrari, Giovani irregolari, op. cit., p. 6.
[21] Cfr. G. C. Ferrari, Appunti sparsi, Fondo Ferrari, Padova.
[22] Cfr. G. C. Ferrari, La psicologia dei giovanetti criminali, op .cit., p.340.
[23] Ibidem, pp. 338.
[24] Ibidem, pp. 340-341.
[25] Ibidem, pp. 341-342.
[26] Ibidem, p. 342.
[27] Ibidem, p. 343.
[28] Ibidem, p. 343.
[29] Ibidem, p. 343.
[30] Ibidem, pp. 335-336.
[31] Ibidem, pp. 335-336.
[32] Ibidem, p. 346.
[33] Ibidem, p. 347.
[34] Ibidem, pp.346-348.
[35] Cfr. G. C. Ferrari, Influenza degli stati…, op. cit.
[36] Cfr. G. C. Ferrari, Psicologia…, op.cit., p. 247.
[37] Cfr. G. C. Ferrari, Dei deliri…., op. cit., p. 423.
[38] Cfr. V. Buongiorno, Giulio Cesare Ferrari e il concetto di personalità, in G. C. Ferrarri nella storia…, op. cit., pp.190-92.
[39] Cfr. G. C. Ferrari, La grande importanza delle cose insignificanti, in «Rivista di psicologia applicata», V, 1909, p. 2.
[40] Ibidem, p.2.
[41] Ibidem, p.3.
[42] G. C. Ferrari, L’educazione dell’incosciente, op. cit., pp.75-76.
[43] G. C. Ferrari, La grande importanza…, op. cit., pp.5.
[44] W. James, I Principi, Milano, 1909.
[45] Cfr. G. C. Ferrari, La grande importanza…, op. cit., p. 5.
[46] G. C. Ferrari, Dei deliri…op. cit., pp. 380-381.
[47] Ibidem, p. 386.
[48] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit.
[49] Ibidem., p. 26.
[50] Cfr. G. C. Ferrari, La psicoterapia delle tendenze criminali nei giovani, in ‹‹La critica medica››, 6, Milano, 1911, ora in Scritti di Pedagogia…, op.cit., p. 488.
[51] Ibidem, pp. 488-489.
[52] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., pp. 2.
[53] Ibidem, pp. 24-25.
[54] Ibidem, p. 25
[55] Ibidem, p. 25.
[56] Ibidem, p. 26.
[57] Ibidem, p. 26.
[58] Ibidem, p. 25.
[59] Ibidem, p. 28.
[60] Ibidem, p. 28.
[61] Ibidem, pp. 28-29.
[62] Ibidem, p. 30.
[63] Ibidem, p. 30.
[64] Ibidem, pp. 30-31.
[65] Ibidem, p. 31.
[66] Ibidem, p. 33.
[67] Ibidem, pp. 33-35.
[68] Ibidem, p. 33.
[69] Ibidem, p. 33.
[70] Ibidem, pp. 36.
[71] Ibidem, pp. 36-37.
[72] Ibidem, p.12.
[73] G. C. Ferrari, Giovani irregolari, op. cit., 1907.
[74] Ibidem, p. 469.
[75] Ibidem, p. 470.
[76] Ibidem, pp. 470-472.
[77] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op.cit., p. 9.
[78] Cfr. G. C. Ferrari, La psicoterapia…, op. cit., p. 487.
[79] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., p. 13.
[80] Ibidem, p. 12.
[81] Ibidem, pp. 21-22.
[82] Ibidem, pp.14-15.
[83] Ibidem, pp.15-16.
[84] Ibidem, pp. 22-23.
[85] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op.cit., pp.38-39.
[86] Ibidem, p.39.
[87] Ibidem, pp.39-40.
[88] Ibidem, p. 40.
[89] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., pp. 38.
[90] Cfr. G. C. Ferrari, Lettera all’Ill/ mo Sig. Presidente…, op.cit.
[91] G. Francia, in realtà, già alla fine del 1910 aveva lasciato una prima volta la direzione della Colonia libera, per un incarico di sostituzione temporanea d’insegnante di Pedagogia. Terminato l’incarico ritornò, ad Imola, molto probabilmente nell’agosto del 1911 per poi lasciare definitivamente la Colonia libera alla fine del 1911. Cfr. Lettera del 15-XII-1910.
[92] Cfr. G. C. Ferrari, Lettera all…, op. cit.
[93] Cfr. G. C. Ferrari, Autobiografia, op.cit., p.26.
[94] G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., p.46.
[95] Cfr. G. Francia, Primo esperimento…, op. cit., p. 43.
[96] Cfr. G. C. Ferrai, Per lottare contro la criminalità minorile, op. cit., p. 96.
[97] Ibidem, p. 97.
[98] V. P. Babini, La questione…, op.cit., p. 76.
[99] G. C. Ferrari, Per lottare contro…, op. cit., p. 95.
[100] Cfr. G. C. Ferrari, Autobiografia, op. cit., p. 24.
[101] Cfr. G. C. Ferrari, Psicologia Applicata. Contro la criminalità minorile, «Rivista di Psicologia Applicata», XVII, 1922, p. 118.
[102] Cfr. G. C. Ferrari, Per lottare contro la criminalità…, op. cit., p. 98