La formazione scientifica, la vita e le opere

Giulio Cesare Ferrari nacque a Reggio Emilia il 27 ottobre 1867. Si iscrisse alla facoltà di medicina «in seguito ad una osservazione corrente in quell’epoca materialistica: che i medici avevano sostituito i preti nella direzione delle coscienze[1].» Terminati gli studi presso l’Università di Bologna nel 1892 entrò come assistente nell’istituto S. Lazzaro di Reggio Emilia diretto da Augusto Tamburini. Alla luce dell’attività svolta dal Ferrari in seguito si può considerare l’esperienza presso il manicomio di Reggio Emilia come il punto di svolta per la sua formazione. Arrivando al S.Lazzaro considerandosi digiuno di ogni nozione psichiatrica – «non sapevo niente di psichiatria», scriverà poi nell’Autobiografia, – ebbe possibilità di lavorare in un ambiente scientifico all’avanguardia e molto stimolante che gli diede gli strumenti e l’opportunità di approfondire e sviluppare i propri interessi. Qui infatti incontrò il metodo sperimentale a cui si improntavano le indagini all’interno del Frenocomio, la ‹‹Rivista sperimentale di freniatria›› attraverso la quale venne in contatto con gli studi scientifici internazionali e l’immensa biblioteca da cui attinse un gran numero di libri per approfondire le proprie conoscenze. Lo stesso Ferrari riconosceva proprio al manicomio di Reggio Emilia di essere stato, nel 1880,la culla della nascente psicologia sperimentale italiana grazie agli studi cronometrici effettuati da Buccola e portati avanti, inseguito, soprattutto da Guicciardini[2].

La ‹‹Rivista sperimentale di frenatria›› era stata fondata nel 1875 da Tamburini, Morselli e Livi Giulio Cesare Ferrari ne diventa redattore capo nel 1894 e lo rimarrà fino al 1907. La «Rivista sperimentale di frenatria», facendosi testimone della convinzione dei suoi fondatori secondo la quale la psichiatria doveva aprirsi alle nuove scoperte effettuate in campo biologico ed antropologico, era una delle poche in Italia ad ospitare i primi lavori di psicologia a carattere sperimentale. Ferrari, grazie anche alla padronanza delle lingue (conosceva inglese, francese e tedesco), cogliendo quello che era lo spirito della rivista, cercò, con le sue recensioni, di colmare il divario esistente tra l’Italia e gli altri paesi europei soprattutto in campo scientifico[3]. La strada da percorrere per raggiungere tale intento era quella di pubblicare dibattiti, esperimenti e tutto quello che poteva essere utile per venire a conoscenza di ciò che accadeva nelle aree più avanzate. Questa sua attenzione per tutto quello che avveniva all’estero era probabilmente anche dovuta ad una ricerca personale. Pur interessato da sempre alla psicologia e «allo studio scientifico della psiche umana[4]» si sentiva lontano dall’impostazione metodologica e da”la psicologia di Wundt e di molti altri.”[5] così lontani da”gli elementi di quella cosa misteriosa che mi colmava di entusiasmo»[6]. Grazie alla lettura del primo volume di «Année psychologique» finalmente tutte le nozioni acquisite precedentemente da Ferrari assumevano un valore ed un senso «Egli non poteva certo immaginare di aver saputo ordinare il caos di nozioni disparate e confuse che avevo immagazzinato nel mio cervello.»[7]

 

 

L’incontro con Binet: studio e applicazione dei mentaltest.

 

Nel 1896 grazie ad una borsa di studio, Ferrari si recò a Parigi dove ebbe l’opportunità di lavorare nel laboratorio di Binet. Qui ebbe la possibilità di studiare i “mentaltests.”[8] I test elaborati da Binet consistevano in una serie di quesiti e compiti atti a misurare. Binet in queste sue ricerche era mosso da un fine pratico: individuare le differenze individuali per evidenziare la normalità o l’anormalità e poter poi intervenire sull’anormale. Queste ricerche rispondevano ad un vuoto lasciato dagli studi effettuati nel laboratorio di psico-fisiologia di Wundt nel quale l’accento era posto sull’uniformità del comportamento piuttosto che sulle differenze individuali e dove la ricerca non aveva un fine applicativo. Wundt inoltre non si era dedicato allo studio della psiche superiore. Ferrari si sentì subito in sintonia con questo nuovo modo di fare psicologia tant’ è che al suo rientro in Italia, nel 1896, grazie anche all’appoggio di Tamburini, istituì, presso il manicomio di Reggio Emilia, un laboratorio di Psicologia «figliazione diretta del più moderno e del più pratico fra i Laboratori esistenti, quello di Binet di Parigi.» Ferrari teneva a sottolineare che fosse il primo[9] in Italia dedicato esclusivamente a ricerche di Psicologia sperimentale. In realtà tale laboratorio nasceva dalle ceneri di quello in cui Buccola[10] aveva compiuto i suoi primi esperimenti di cronometria i cui risultati vennero pubblicati nel volume La legge del tempo nei fenomeni del pensiero[11] poi abbandonato dopo la partenza dello stesso Buccola. Buccola era stato l’unico in Italia a condurre ricerche di carattere sperimentale in laboratorio apprezzate anche all’estero. Il laboratorio allestito a Reggio Emilia non differiva molto da quello di Lipsia per i mezzi ma molto diversi erano gli intenti: Wundt studiava le menti degli adulti normali con attenzione alle generalizzazioni, Buccola studiava gli alienati ponendo in evidenza le eccezioni.

 

E’ una gloria italiana, meglio ancora, è nella storia di questo nostro Istituto psichiatrico il primo accenno all’applicazione metodica dei sistemi della Psicofisica ai malati di mente. Poco dopo il 1879,- l’anno famoso in cui Guglielmo Wundt fondò in una modesta camera del Convitto di Lipsia, il suo primo laboratorio di Psicologia sperimentale,- Gabriele Buccola, qui da noi, cercò di completare questa filologia dell’anima, che s’andava formando ed evolvendo, con tutta la luce che poteva dare lo studio attento della Psicopatologia.

 

Queste sono le parole con cui Ferrari apriva l’articolo I testi mentali per l’esame degli alienati pubblicato insieme a Guicciardini sulla «Rivista sperimentale di Freniatria» nel 1896 poco dopo il suo rientro da Parigi. Innanzitutto sottolineava che nello stesso periodo in cui il “padre” della psicologia sperimentale fondava il suo laboratorio a Lipsia, anche in Italia, all’interno di un manicomio, veniva fatta una psicologia scientifica, sperimentale non filosofica ma medica[12]. Il sottolineare che la psicologia fosse medica e non filosofica era di grande importanza in un momento in cui era aperta la discussione sullo statuto epistemologico della psicologia essendo in atto una critica e un superamento della filosofia e dei modi di pensare dei positivisti. Il problema era molto sentito e non era solo italiano. Tant’è che Ferrari, di ritorno dal 3° Congresso di Psicologia, sottolineava nella sua relazione come, sebbene i partecipanti studiassero l’animo umano seguendo le vie più diverse, tutti erano consapevoli che per salvaguardare l’indipendenza della ricerca psicologica occorreva renderla indipendente sia dalla filosofia sia dalla fisiologia[13]. L’idea guida di Ferrari era quella di contribuire a dotare la psicologia sperimentale di uno statuto scientifico[14]. Per fare questo occorreva andare oltre sia al “modello ardigoghiano”, poiché se da un lato proponeva una psicologia “positiva” allontanandola in questo modo dalla tradizione spiritualistica italiana dall’altro considerava la psicologia come parte della filosofia, sia al modello proposto dal Sergi[15] in cui la psicologia veniva assimilata alle scienze biologiche ed antropologiche. Quindi una psicologia né filosofica né biologica – meccanicistica. Il metodo doveva essere quello sperimentale tenendo però sempre presente che la psicologia è soprattutto una scienza di osservazione in quanto in laboratorio è possibile riprodurre solo una minima parte dei fenomeni psichici[16]. Il laboratorio aveva svolto e svolgeva un ruolo determinante per lo sviluppo della psicologia sperimentale:

 

Ma poi è soltanto il lavoro assiduo dei Laboratori che rende facile e pronto sotto la mano di chi studia il materiale di esperimento ed è solo con successive variazioni sistematiche delle condizioni di esperimento che si riesce a stabilire delle leggi generali, finalità suprema d’ogni opera veramente scientifica. Per questo appunto il fiorire della Psicologia sperimentale è intimamente collegato al moltiplicarsi dei relativi Laboratori[17].

 

Nello stesso articolo Ferrari illustrava come fosse la vita in un laboratorio e in particolare in quello di Reggio Emilia.

In laboratorio la maggior parte degli studi erano focalizzati a misurare grazie agli esperimenti di psicofisica l’intensità dell’eccitamento e grazie a quelli di psicometria la velocità e la durata di un fenomeno di coscienza. A questi metodi di indagine che si servivano dell’ausilio di varie apparecchiature tra cui il cronoscopio di Hipp e l’ergografo di Mosso veniva affiancato l’uso dei “mentaltest”. La possibilità di studiare i fenomeni psicologici più complessi come la memoria, l’attenzione e la volontà sondando le differenze individuali attraverso prove uniformi era la grande innovazione apportata dai mentaltest.

A chi dovevano essere sottoposti i test? «A  tutte o al meno alla maggior parte delle persone per cui è stato fatto[…]; così sebbene più difficile, deve essere praticabile la stessa cosa sugli alienati, sui delinquenti, sugli anomali in genere[18].» Ferrari era stato il primo ad applicare i “mentaltests” agli alienati in questo forse stimolato o influenzato dall’esperienza di Buccola al quale non mancava di riconoscere il merito di aver capito i grandi vantaggi che la psicologia poteva trarre dalla sua applicazione alla Psicopatologia.

Infatti lo studio degli alienati permetteva di sondare quei fenomeni complessi della mente umana che per altre vie non era possibile:

 

Ma quello che la morale e la legge impedirebbero a noi di fare, la Natura, la Grande Madre, troppo spesso matrigna, lo fa ogni giorno, e popola i nostri manicomi di infelici, che scontando forse qualche colpa dei progenitori, ci presentano delle manchevolezze, talvolta assolute, di date facoltà, della memoria in generale o di qualche sua parte, per esempio, o dell’attenzione, o della volontà, o della sensibilità o della motilità, ecc[19].

 

Inoltre Ferrari era fermamente convinto che l’applicazione dei test ai malati di mente avrebbe gettato luce  non solo sulle manifestazioni psicotiche ma anche sulla psicologia normale. «perché la pazzia non è che una deviazione più o meno profonda, più o meno permanente, della personalità primitiva[20]

L’innovazione era soprattutto metodologica: la Psicologia individuale forniva alla Psichiatria dei mezzi di indagine obbiettivi da affiancare al metodo soggettivo allora in uso nei manicomi. L’uso di un metodo non escludeva l’altro anzi i due erano complementari in quanto «Anche quando i metodi obbiettivi si saranno sviluppati e resi più completi, sarà sempre necessaria una mente sintetica che coordini e dia il loro valore a ciascuno dei sintomi che il metodo individuale mette in luce[21].» Ferrari era molto critico nei riguardi di quanti, non avendo capito l’innovazione, continuavano ad applicare solo la pura osservazione che nella maggior parte dei casi finiva con l’essere niente altro che uno «sfoggio delle nozioni dell’osservatore[22].» Un modello di indagine in cui il malato era visto alla luce della malattia a lui diagnosticata senza tener conto delle sue caratteristiche individuali. Soprattutto «nessuno parve accorgersi che, stabilito un certo numero di ricerche, se ne sarebbe ricavato un metodo di indagine non certo inferiore a quello che presenta l’esame obbiettivo per la diagnosi delle malattie fisiche[23]

Quello che Ferrari metteva in discussione con le sue teorie era l’idea di cura e di malattia mentale così come veniva proposta dal modello positivista e al quale si rifaceva la psichiatria dell’epoca. Un modello la cui ricerca era orientata a cercare la causa generale della manifestazioni psicopatologiche al quale Ferrari opponeva un modello che doveva tenere conto delle differenze individuali e di una molteplicità di sintomi ai quali, al lato pratico, corrispondevano interventi terapeutici mirati[24]. Questa probabilmente la causa del poco seguito che ebbe l’uso dei test per lo studio degli alienati mentali nonostante l’opera di divulgazione e i risultati ottenuti dallo stesso Ferrari.

 

La scoperta de I Principles e del Pragmatismo: Ferrari e William James

 

Se l’incontro con Binet aveva fornito allo psichiatra reggiano un nuovo metodo di ricerca fu grazie alla lettura dei Principi di psicologia di James che Ferrari ebbe la possibilità di conoscere una psicologia diversa da quella di stampo positivistico. Per caso Ferrari ebbe l’occasione di leggere qualche pagina dei Priciples of Psycology nel 1898 a casa del filosofo Mariller. Subito fu attratto dalla personalità dell’autore e dall’importanza scientifica dell’opera. Meravigliato che in Europa il libro non fosse maggiormente conosciuto, decise di tradurlo in italiano nella speranza che «un’opera così bella avrebbe potuto fare il miracolo di risvegliare da noi l’interesse per la psicologia scientifica[25].» Prese subito contatto con lo stesso James ed iniziò a lavorare alla traduzione del monumentale libro dell’autore americano. Il successo di pubblico che ottenne il libro alla sua prima uscita nel 1901[26] in Italia dava di certo ragione a Ferrari: in soli tre anni vennero vendute più di duemila copie. In questa edizione, che era stata preceduta da dispense pubblicate a puntate nel 1899-1900, lo psichiatra reggiano utilizzava alcune parti de Briefer course of psychology pubblicato da James nel 1892. La traduzione integrale usciva nel 1909[27]. Ma che cosa aveva fatto si che i Principles  diventassero uno dei libri più venduti in Italia? Parte del merito va attribuito al lavoro svolto da Ferrari come traduttore al quale Vailati riconosceva il grande pregio di «far sì che chi conosce lo stile di James non si accorga quasi nemmeno di leggerlo tradotto[28].» Ferrari non si era però limitato alla semplice traduzione ma, ottenuto dallo stesso James il permesso di intervenire sul testo in qualunque modo, fatta eccezione per l’ultimo capitolo[29], aveva cercato di aggiornare il testo integrandolo con i risultati che la ricerca aveva ottenuto dopo la stesura dei Principles[30]. Alla fine di ogni capitolo venivano citate le ricerche e i lavori scientifici degli ultimi dieci anni con particolare attenzione a quelli italiani (Sergi, Luciani, Seppilli, Buccola, Tamburini e soprattutto Morselli). A questa integrazione puramente bibliografica se ne aggiungeva una più ampia e sostanziale in cui Ferrari mostrava la sua preparazione sia in campi a lui più vicini come la psicopatologia e la neurofisiologia ma anche in campi a lui più lontani come la filosofia(citava soprattutto Ardigò).

Ferrari aveva trovato nei Principles una psicologia a cui veniva finalmente riconosciuto lo statuto di scienza naturale e lontana da ogni ingerenza filosofica. Una psicologia che rifiutava ogni determinismo o riduzionismo biologico. Al centro dei suoi studi vi era l’uomo nel concreto di una complessa situazione evolutiva il cui pensiero «nessun schema, nessun diagramma poteva rappresentare»[31] in quanto vive di movimento.

“Stream of consciousness” è la metafora usata da James per descriverne il flusso continuo e l’impossibilità sia di separala in pezzi sia di darne una definizione definitiva. Una psicologia attenta allo studio di ogni manifestazione della psiche: dai fenomeni paranormali all’anormale, dal patologico all’ipnosi. Una psicologia che aveva attirato l’attenzione di Ferrari, anche per i cambiamenti che introduceva a livello applicativo sia in psicologia sia in psichiatria. Ad interessarlo, da questo punto di vista, erano soprattutto i capitoli dedicati all’attenzione, all’emozione e alla volontà ai quali lo psichiatra emiliano si rifaceva per l’elaborazione di quelli che vengono considerati fra i suoi contributi più originali in campo psicologico-psichiatrico. Ferrari riprendeva la teoria delle emozioni di James nello studio sulla loro influenza sulla genesi dei deliri e delle psicosi[32]. Tale teoria dava sostegno ad un concetto che era stato condiviso da insigni alienisti ma espresso in modo chiaro ed esplicito dal solo Morselli nel suo Trattato di semiotica dove sosteneva che le diverse sindromi psicopatiche altro non fossero che puri semplici effetti della variabilità psichica individuale. Tale definizione non aveva mai trovato, però, la sua base naturale in una serie di osservazioni cliniche ed era quello che Ferrari si apprestava a fare animato dalla convinzione che il concetto fosse soprattutto interessante per le conseguenze teoriche e pratiche che poteva apportare sia alla psicologia generale sia alla psicopatologia. I casi studiati evidenziavano come alla base dell’evoluzione normale dei deliri vi fosse l’interpretazione di una condizione organica che si elaborava progressivamente secondo le condizioni psichiche individuali dei soggetti, soprattutto secondo il loro modo di reazione sentimentale. Se questo fatto accomunava le paranoie alle forme psicotiche senza substrato anatomico nelle quali si ha a che fare con una esagerazione di uno stato emotivo allora poteva valere anche per queste la teoria delle emozioni jamesiana secondo la quale le emozioni consistono nel senso che abbiamo delle modificazioni fisiche che seguono alla percezione del fatto eccitante[33].

Dimostrare che ciò che prima si altera, nel caso dei malati, non era, come voleva il pregiudizio intellettualista, “l’intelletto”, ma ciò che si trovava nell’ambito delle loro tendenze, della loro affettività, nella parte più profonda e meno differenziale della loro personalità intima, significava anche ristabilire l’intima continuità del malato con il sano di mente in quanto le prime modificazioni della personalità alienata hanno origine dal fondamento che genera anche l’attività psichica normale. Concetto questo carico di conseguenze pratiche che Ferrarri riassumeva in uno dei suoi articoli più significativi:

 

Per un lato dovremmo vedere e giudicare gli atti degli uomini in funzione delle loro determinanti individuali, per così dire, e non come se appartenessero ad una immaginaria, ipotetica  individualità tipo; e d’altra parte dovremmo sapere scorgere questo elemento individuale, personale, singolare, quasi in ciascuno dei malati di mente con cui ci avvenga di dover trattare. Allo stesso modo, cioè, in cui non possiamo (meglio non dovremmo) trattare un malato come un “paranoico”, come “un melanconico”, come, cioè, un prototipo o un paradigma di una data “malattia”, ma la nostra azione deve dirigersi peculiarmente a quel tanto di uomo razionale che trasluce ,deformato dalla paranoia o dalla malinconia, allo stesso modo in ogni uomo noi dovremmo cercare di vedere ciò che egli è realmente, quale è stato fatto e ridotto dall’ambiente, dalle circostanze, ecc senza ricorrere (come invece ordinariamente noi facciamo) a quel canone di homo sapiens che solo la convinzione ha creato e che la realtà non ci presenta quasi mai[…][34].

Le idee di Ferrari in campo psichiatrico

 

Alle classificazioni astratte di malattie proprie della tradizione positivista Ferrarri contrapponeva uno studio dell’individuo considerato nella sua complessità. Complessità che non poteva più essere studiata tenendo solo in considerazione le esigenze metodologiche di rigore e di controllo sperimentale ma a queste doveva essere affiancato un approccio globale e multidisciplinare della persona e degli stessi fatti psichici. I malati non erano più considerati come pure astrazioni nosografiche ma come persone da curare. Da curare, secondo lo psichiatra reggiano, agendo soprattutto sull’inconscio considerato dallo stesso Ferrai il centro propulsore della personalità individuale. Solo attraverso relazioni concrete e personali fra un medico ed un malato era possibile, per Ferrari, venire a contatto con il mondo dell’altro, andando oltre le superficiali apparenze per scoprire la causa profonda degli atteggiamenti altrui[35].

Questa posizione pose Ferrari in netto contrasto con la psichiatria dell’epoca ancora arroccata dietro un punto di vista organicista Alla quale per altro Ferrari non risparmiava di certo critiche accusandola di aver trasformato i manicomi in ricoveri per cronici e di aver fatto si che si diffondesse l’idea della incurabilità dei pazzi. Conseguenze queste della chiusura mentale di quei medici che basandosi solo su osservazioni di disturbi fisici avevano completamente tralasciato i vantaggi che l’approccio psicologico portava alla cura degli alienati.

La cura e il miglioramento delle condizioni dell’alienato dovevano essere gli obbiettivi principi della psichiatria. Occorreva innanzitutto riformare il sistema manicomiale in modo tale che ritornasse a svolgere la sua vera funzione di cura. Il primo passo da fare era quello di porre rimedio alla situazione di sovraffollamento che caratterizzava i manicomi dell’epoca paralizzando in questo modo ogni intervento terapeutico. L’idea di Ferrari era quella di lasciare in manicomio solo coloro che potevano ancora essere curati e raccogliere in strutture extra – manicomiali tutti gli altri. Ferrari fu un convinto sostenitore delle colonie e della assistenza famigliare sia per i vantaggi economici, tema che stava molto a cuore alla psichiatria dei primi del novecento, sia per gli effetti benefici che la libertà e la strutturazione della vita all’interno della colonia avevano sulla rieducazione dell’alienato alla vita sociale. Per agevolare il passaggio dalla reclusione manicomiale alla vita libera Ferrari  aveva anche fondato La “Casa del Patronato”, in cui viveva un piccolo numero di degenti non ancora dimessi e non ancora guariti ai quali il manicomio passava vitto e alloggio ma «per ottenere quel tanto di diversivo nella vita, senza di che non val mai la pena di vivere[…]essi devono lavorare fuori del Manicomio, nella libera competenza della vita[36]

Alle relazioni con il personale medico e paramedico era invece legato l’esito della cura dei degenti del Manicomio. A loro era assegnato il compito di aiutare la rinascita e l’affermazione della dignità personale degli alienati facendo leva sul loro subcosciente. Da qui la battaglia combattuta da Ferrari per la formazione del personale curante soprattutto degli infermieri ai quali riconosceva una grande importanza a livello terapeutico in quanto, «essendo tutto il giorno a contatto con gli ammalati possono più direttamente influenzarli.» Una volta scelte gli affidava incarichi di responsabilità lasciandogli ampia libertà d’azione.

Ferrari non si poneva in questo modo solo nei confronti delle infermiere, ma tale atteggiamento faceva capo ad un’idea di organizzazione del lavoro manicomiale basata: sul decentramento, sull’autonomia, sulla responsabilizzazione degli operatori, e sul riconoscimento delle capacità tecniche e emozionali dei singoli[37].

Una buona riorganizzazione del sistema manicomiale non poteva di certo tralasciare di recuperare il valore curativo della terapia del lavoro che col passare degli anni era andato perduto. Ferrari puntava, anche in questo caso, sulla validità del suo metodo psicologico.

A dimostrazione del valore delle sue idee, nel 1932, pubblicava[38] i risultati ottenuti nell’atélier per malate agitate da lui fondato presso il manicomio di Bologna. Le numerose dimissioni stavano a testimoniare come un lavoro in grado di occupare i degenti in un’attività che impegnasse sia la loro volontà sia la loro intelligenza, che li responsabilizzasse e che fosse in grado di far sorgere nel loro subconscio delle impressioni positive e inibire quelle negative, fosse l’elemento base della ricostituzione delle malate.

 

 

Manualetto per l’educazione di una volontà “libera, diritta e sana”

 

Era ancora James ad ispirare Ferrari nella stesura del suo Manuale pratico di educazione della volontà. Preoccupato degli effetti nefandi che la suggestione avrebbe potuto causare  in campo sia pedagogico che sociale Ferrari aveva sentito l’urgenza di scrivere un Manuale pratico di educazione della volontà[39]. La volontà, lo aveva affermato già nella premessa, era una reale forza psicologica non un principio metafisico come voleva Shopenhauer. Si poteva parlare di volontà, per Ferrari, solo quando le volizione si traducevano in atti pratici, fin a quando erano solo un intenzione nella nostra mente non vi era volontà.

L’atto volontario si differenziava dagli altri atti perché vi era sempre un fiat che, interrompendo la vita delle abitudini, liberava una situazione di stallo creata dal conflitto fra i vari elementi che continuamente lavoravano all’interno del nostro animo. La scelta ricadeva su quella che in quel dato momento sembrava essere la soluzione più utile per l’individuo. Il “meccanismo” non era così semplice ammoniva Ferrari poiché le leggi che regolano la volontà, avendo la loro origine nel fondo organico, sfuggono in realtà al controllo della nostra ragione. L’educazione della volontà, dunque, se vuole riuscire nel suo intento deve rivolgersi alla costituzione psicologica dell’individuo. Ma quale era allora il punto da cui si doveva partire per riuscire a modificare la volontà degli individui? Ferrari indicava le contrazioni muscolari come punto di partenza per poter agire sulle manifestazioni volontarie. Questa sua convinzione era il frutto di studi che lo avevano portato ad osservare come le volizioni fossero sempre accompagnate da contrazioni muscolari e che queste ultime, oltre ad essere un fatto esterno, visibile e misurabile, erano dunque anche il punto sul quale poter agire sulle manifestazioni volontarie. Il metodo proposto da Ferrari, che, come notava Santucci, non differiva molto dalle teorie moderne della rieducazione psicomotoria[40], consisteva nel ripercorrere a ritroso le sequenze degli automatismi che sottostavano all’esecuzione dell’atto volontario. Il punto di partenza era sentire e distinguere i movimenti muscolari dell’azione tramite la loro esecuzione. La divisione in parti della sequenza permetteva all’attenzione di concentrarsi su ognuna di esse e di renderle quindi consapevoli. Una volta pensate in successione le azioni passavano dalla sfera cosciente alla subcosciente e quindi potevano essere compiute automaticamente. L’atto diventava così volontario. «Si vede allora l’effetto dinamico di una idea chiara prepotente, in quanto determina sollecitamente l’azione, perché entra in giuoco quel legame misterioso che passa fra il pensiero e i centri motori: e gli organi fisici obbediscono naturalmente.» Era dunque possibile far sorgere nuove abitudini. Il pericolo del riduzionismo era così scongiurato. La strada da battere era, allora, quella indicata anche Da Lotze nel suo Medizinische Psychologie e nel quarto capitolo dei Principles: aiutare a migliore la conoscenza delle possibilità personali che la natura di ognuno di noi nasconde nel suo seno.

La pratica aveva dimostrato l’efficacia della teoria e del metodo e questo era quello che contava. Ferrari non aveva dubbi si poteva non solo educare la volontà ma si poteva educare una volontà «libera diritta e sana.»

 

 

I Principles e l’incontro di Ferrari con la filosofia “pragmatica”

 

La sola che gli fosse veramente congeniale, libera da tradizioni ingombranti e da formulari di scuola: il pragmatismo era attento al significato delle asserzioni e teorie e lo indicava nei loro effetti sperimentali, si proponeva come un metodo o un insieme di metodi e mai come un sistema, reagiva alle soluzioni verbali e alle cattive ragioni a priori. Chi lavorava in laboratorio, sul campo, non poteva che condividere quel atteggiamento e venire spinto a chiarire la sua posizione epistemologica, la sua critica dei vari assolutismi[41].

 

Pur essendo Ferrari più vicino all’aspetto psicologico che a quello filosofico dell’opera jamesiana, i Principles, attraverso la psicologia, erano riusciti a risvegliare, in Italia, l’interesse per un nuovo pensiero: il pragmatismo, e per le altre opere di James: Will to believe[42] e Varietes[43], come affermava lo stesso Papini in una lettera indirizzata a Ferrari. Il seguire linee diverse, Vailati e Caderoni si rifacevano al primo Peirce mentre Papini e Prezzolini agli idoli della tradizione e in un sapere capace di dominare l’universo, non ostacolò la fondazione del «Leonardo». Lo stesso James aveva avuto del «Cenacolo del Leonardo» un ottima impressione quando aveva avuto occasione di incontrarli a Roma, tanto che, venuto a conoscenza della morte di Vailati e della probabile malattia di Papini, in una lettera al Ferrari, scriveva «It is evident that some eclipse has come over the most meteoric and brillant of all contemporary intellectual careers[44]

Se le parole con le quali Ferrari si riferiva ai “pragmatici” nella Autobiografia «Inoltre, era più necessario, secondo me, alimentare l’esuberante giovinezza dei Prezzolini, Papini, Galletti, Vailati, Calderoni, ecc.[45]» sembrino avvalorare una battuta ironica di Prezzolini:

 

Più tardi ho saputo che il dott. Ferrari aveva “addomesticato” parecchi dei Suoi ospiti del manicomio assumendoli al servizio della propria casa, considerando che questa prova di fiducia sarebbe stata la migliore medicina per curarli. Quando seppi questo, mi venne in mente che forse anche l’ospitalità offertaci dalla rivista di psicologia era stata un po’ dello stesso genere, e che il dottore Ferrari ci aveva considerato un po’ come dei “picchiatelli” e aveva voluto provare una cura di fiducia, lasciandoci scrivere quello che volevamo nella sua rivista [46].

 

Subito dopo aggiungeva «O forse mi sbaglio e fu la comune ammirazione che avevamo per James […]che gli fece aprire la porta della sua Rivista[47].» In realtà, l’ampio carteggio, soprattutto con Vailati, Calderoni e Papini, stava a dimostrare come alla base del loro legame intellettuale con Ferrari vi fosse proprio il pragmatismo di James come aveva indicato Prezzolini.

 

 

L’esperienza all’istituto di Bertalia e la fondazione della Rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia

 

Fu un momento felice, essendo l’interesse pei deficienti nella sua fase ascendente, fondai, incitato dagli amici (Vailati, Papini, Calderoni), la mia rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia, […]Questa Rivista, vivendo soltanto del mio desiderio di creare delle simpatie alla psicologia […][48].

 

Se il momento era felice per i deficienti, a Ferrari di certo non era sfuggito quanto il momento fosse critico e importante per la psicologia italiana. Roma, non senza qualche perplessità, era stata designata come la sede del V Congresso Internazionale di Psicologia e era stato bandito, per la fine di ottobre, dal ministro della pubblica istruzione Bianchi, il concorso per l’assegnazione delle prime cattedre di Psicologia in Italia. I tempi sembravano maturi per la pubblicazione della prima rivista dedicata interamente alla psicologia.

Il primo numero della ‹‹Rivista di Psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia›› usciva nel febbraio del 1905, bimestrale in fascicoli di circa 60 pagine[49]. Ferrari ne era il direttore, lo sarebbe rimasto fino alla sua morte avvenuta nel 1932, e Morpurgo, aiuto presso la clinica psichiatrica di Padova, il caporedattore. La «Rivista» si dichiarava senza preconcetti e senza pregiudizi aperta a tutti senza esclusioni come si conviene ad una «Rivista» osservante dell’empiricismo più radicale.

Era ai giovani e alle loro ipotesi che Ferrari si affidava per sviluppare la psicologia in un momento in cui, come faceva dire a James, «l’unica cosa sicura fosse ormai l’insufficienza delle varie interpretazioni che oggi reggono il campo»[50] al quale si affiancava «un interesse vivace per tutte le nuove ipotesi, per quanto mal definite ed incerte[51].» Il compito della ‹‹Rivista›› era allora quello «di coordinare il lavoro dei singoli, ponendolo a confronto coll’esperienza di quanti lavorano e studiano animati da uno stesso ideale[52]

A questo fine generale se ne aggiungeva un altro altrettanto importante affidato alle numerosissime rassegne che avrebbero avuto il compito di informare i lettori sulla «possibilità di applicare alla vita i principi della scienza». Il richiamo alla realtà concreta, tanto cara a Ferrari, veniva rafforzato dal fatto che la ‹‹Rivista›› si presentava anche come il giornale dell’Istituto di Bertalia «lo specchio per così dire di una sperimentazione in vivo[53]

Ferrari era stato nominato direttore dell’istituto di Bertalia nell’ottobre del 1903. Per lo psichiatra reggiano non era la prima esperienza nel campo della rieducazione dei deficienti. Ancora una volta era stato il manicomio di Reggio a fargli da “nave scuola”, infatti, anche se per un breve periodo (1901-1902), era al S. Lazzaro che aveva potuto studiare gli effetti che la psicologia sperimentale e la neuropsichiatria infantile potevano avere sulla rieducazione dei così detti fanciulli anormali. Una passione, quella per l’infanzia anormale, che condividerà con De Sanctis, Maria Montessori e Motesano e che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita.

Ad attirare Ferrari, a livello scientifico, era stata, probabilmente, la possibilità di poter applicare concretamente i principi della psicologia jamesiana all’infanzia anormale, convinto che il loro apporto sarebbe stato notevole a livello sia conoscitivo sia rieducativo.

Applicare la psicologia Jamesiana voleva dire, innanzitutto, abbandonare il riduzionismo, tanto caro all’antropologia di stampo positivista, e dedicarsi allo studio della vita psichica dei frenastenici nella sua complessità e nel suo divenire. Era, allora, l’osservazione attenta e continua dei medici, degli infermieri e soprattutto degli insegnanti che permetteva di gettare luce su degli aspetti della personalità dei frenastenici che le prove di laboratorio non avrebbero mai evidenziato. L’istituto assumeva così le sembianze di un grande laboratorio in cui era possibile studiare i giovani frenastenici in funzione. Nuovi strumenti scientifici, attrezzature migliori nelle officine, maggior igiene, corsi di formazione per gli infermieri, valorizzazione e riconoscimento dell’importanza del lavoro svolto dagli insegnanti, il coinvolgimento dei degenti nei lavori da svolgere all’interno dell’istituto erano la traduzione in atti delle idee di Ferrari. Idee che avevano portato Bertalia al livello dei migliori strutture europee. Proprio questa esperienza sarà la base da cui decollerà la fondazione della Colonia libera dei deficenti gravi e dei giovani criminali di Imola[54].

Dell’Istituto di Bertalia la ‹‹Rivista›› era il quotidiano e in quanto tale importante fu il contributo dato dagli articoli dei maestri e della maestre dell’istituto soprattutto nei primi anni di pubblicazione del periodico. Importanza non solo numerica, il maggior numero degli interventi riguardava la psicologia applicata e la pedagogia, ma anche qualitativa (conoscitiva). I loro articoli, basati su un osservazione attenta e diretta, testimoniavano la scoperta di un nuovo mondo mentale quello dei frenastenici.

Ampio spazio fu lasciato anche ai pragmatisti che in questo modo ebbero la possibilità di rendere note le proprie idee. Ma nella ‹‹Rivista››, mantenendo fede alla premessa, trovava ospitalità chiunque «avesse qualche cosa da dire di interessante.» Se da una parte questo ha reso possibile non solo la presenza di molti giovani ma anche, per esempio, la comparsa del primo articolo sulla psicanalisi, dall’altra ha fatto sì che, non escludendo nessuno, il quadro generale non fosse particolarmente armonico e sia l’approccio sia il linguaggio non propriamente tecnici. Quest’ultimo aspetto, congiunto alla professata fede per il pragmatismo jamesiano, ponevano la «Rivista» in una posizione anti-accademica e in contrasto con la cultura dominante[55].

 

 

La nascita delle prime cattedre e la battaglia per la difesa dell’autonomia della Psicologia.

 

Come osserva Babini, se contrastanti erano le opinioni sulla fisionomia della rivista e sul suo carattere composito[56] di certo non si può negare che la sua fondazione sia stata un’altra lancia spuntata a favore dell’autonomia della Psicologia. In difesa di tale autonomia Ferrari combatté una lunga battaglia affinché l’ insegnamento della Psicologia fosse inserito nel sistema scolastico italiano a partire dalle Scuole Medie fino all’Università. Mentre nelle scuole secondarie la psicologia era già presente dagli ultimi anni dell’Ottocento, per la sua l’autonomia didattica nell’Università italiana occorrerà aspettare fino al 1905 anno in cui venne indetto un bando di concorso a cattedre per la Psicologia Sperimentale nelle Università di Roma, Torino, Napoli.

Il grande successo riscosso dalla traduzione dei Principles in Italia aveva di certo contribuito ad accelerare i tempi dell’uscita del bando di concorso, ma molto del merito, in realtà, andava riconosciuto alle pressioni esercitate a livello ministeriale dagli amici della psicologia: Mosso, Morselli, Tamburini, Labriola, Turbiglio, Bianchi. Molti di loro erano psichiatrim, fra i quali Bianchi, che nel breve tempo in cui aveva rivestito la carica di ministro della Pubblica istruzione fondò le tre cattedre di Psicologia sperimentale.

Le sorti dell’autonomia della psicologia italiana finivano per dipendere, ancora una volta, dal forte legame che le univa alla psichiatria. A conferma di questo rapporto preferenziale due cattedre su tre furono affidate a medici alienisti: DeSanctis e Collucci; la terza ad un fisiologo allievo di Mosso: Kisow.

Nel 1906 Ferrari ottenne un incarico ministeriale per l’insegnamento della Psicologia sperimentale presso la scuola di Magistero che era stata istituita a Bologna all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 1909 gli venne concessa la libera docenza in Psicologia sperimentale presso La Regia Università di Bologna. Nel 1912 gli fu assegnato l’incarico di psicologia sperimentale presso la Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università della medesima città. Incarico che gli venne poi rinnovato annualmente fino al 1932,anno della sua morte.

La psicologia sembrava così ormai essere entrata a far parte della cultura ufficiale italiana. Come stavano a testimoniare gli incarichi ricevuti da Ferrari, i filosofi non avevano tardato a prendersi una rivincita: avevano infatti ottenuto che l’insegnamento della Psicologia sperimentale si svolgesse nell’ambito delle Facoltà di Filosofia. «La filosofia ci sostenne con la stessa cordialità con cui la corda sostiene l’impiccato»[57] notava poi Ferrari in una lucida analisi nella quale tracciava il percorso che aveva portato la Psicologia italiana dalla sua nascita «a vivere in aria rarefatta[58]

L’anno era il 1927 e molte cose erano cambiate da quando Ferrari, nella recensione al V Congresso Internazionale di Psicologia, si era dichiarato ottimista per il futuro della psicologia. Il clima culturale e politico era mutato. L’idealismo, con le sue idee anti-naturalistiche, aveva iniziato a diffondersi fra gli intellettuali italiani. Gli effetti di tale mutamento di rotta non tardarono a farsi sentire anche sull’insegnamento della psicologia.

Nel 1916 venne emanata una riforma delle “Scuole di Perfezionamento per i licenziati dalle scuole normali” nella quale venivano soppressi tutti i corsi che non fossero: Pedagogia, Lettere italiane, Igiene e Legislazione scolastica, più in quinto corso che veniva deciso anno per anno. L’insegnamento della psicologia veniva così tolto dalle scuole magistrali. Una riforma che Ferrari non esitava a definire assurda, in un articolo scritto per la sua ‹‹Rivista››, nel 1917, in difesa dell’insegnamento della psicologia sperimentale[59]. Togliendo tale insegnamento non solo si condannava l’Italia ad una condizione di arretratezza culturale «mentre da per tutto, e per non dire altre nazioni, nel Nord-America, la psicologia sperimentale applicata alla pedagogia, moltiplica i suoi cultori, i suoi laboratori, si afferma nei manuali, nelle memorie numerosissime, da noi, con un decreto si disfa quel poco che per solo entusiasmo si era fatto»[60] ma si privava anche i maestri di uno degli apporti conoscitivi fondamentali per la conoscenza dei comportamenti individuali e collettivi degli scolari e:

 

Se non si studiano gli scolari singolarmente e in gruppo, con tutti i metodi della scienze biologiche e della psicologia moderna […]non si può parlare di sviluppo della memoria e del pensiero nelle varie età, di attitudini intellettuali e di lavoro, di capacità di apprendimento, di lavoro muscolare e mentale, di stanchezza e di fatica, di istinti e di adattamento sociale, di suggestibilità e così via[61].

 

Bisognava continuare a lavorare e a lottare per le proprie idee. L’invito era soprattutto rivolto ai professori ordinari e a coloro che avevano ricevuto l’incarico di psicologia sperimentale e che quindi non potevano essere soppressi. Occorreva resistere e Ferrari lo avrebbe fatto mettendo le sue conoscenze a disposizione dell’insegnamento della pedagogia e di tutti i maestri che avrebbero scelto di frequentare il laboratorio di psicologia pedagogica dell’Università di Bologna[62].

Gli sforzi di Ferrari risultarono vani, la riforma Gentile, nel 1923, aboliva l’insegnamento della psicologia dalle scuole italiane sostituendolo con quello di storia della filosofia. Una volta eliminata dalle scuole medie la psicologia, ridotta a puro elemento informativo della cultura dei futuri insegnanti, rischiava di sparire anche dalle Università e così dal panorama culturale italiano. Da qui la necessità di indire un convegno, a Bologna, in cui poter discutere degli argomenti vitali per le sorti della psicologia italiana. Ferrari interveniva con una relazione che aveva come tema l’ “Insegnamento della psicologia in Italia[63].”

La causa dei mali della psicologia veniva individuata, da Ferrari, nella incapacità della stessa Psicologia di ridefinire la propria posizione culturale alla luce dei nuovi parametri scientifici. La psicologia sperimentale era rimasta, infatti, all’interno della Facoltà di Filosofia dove, la reazione idealistica contro la scienza riconosceva alla Psicologia di essere sì una parte importante della fenomenologia dello spirito, ma non le riconosceva nessuna qualifica sperimentale in senso stretto.

Rinunciare al laboratorio e all’ indagine empirica significava perdere tutta una serie di informazioni sull’uomo che solo l’indagine psicologica poteva rivelare. Tale impostazione non solo metteva in discussione la stessa esistenza della psicologia ma privava, nello stesso tempo, altre scienze di un apporto basilare per il loro sviluppo[64]. Non era la psicologia ad essere morta ma era «il terreno in cui veniva coltivata ad essere magro; per cui basterà che mutiamo il terreno, che ci trapiantiamo, per rinnovare la fertilità e l’interesse della psicologia[65]

Essendo il processo sperimentale riconosciuto come processo investigativo valido per la definizione gnoseologica di una scienza la psicologia sperimentale, come scienza empirica, poteva quindi essere annoverata tra le singole scienze. Se dunque si riconosce lo statuto di scientificità alla psicologia sperimentale bisogna:

 

toglierla […]dalle Facoltà di filosofia, per inserirla adeguatamente nella Facoltà di medicina o in quella di scienze, dove potrebbe prestarsi utilmente come fondamento o come complemento dell’insieme di studi che dovrebbero costituire quelle lauree speciali che Giovanni Gentile ricordava in un recente articolo su La riforma universitaria[66].

[1] Cfr.G. C. Ferrari, Autobiografia, traduzione di Paola Ferrari Mondiano, Bologna, Zanichelli Editore, 1933, pp. 13–14.

[2] Cfr. G.C.F., L’insegnamento della psicologia sperimentale nelle Università e nelle scuole medie, in ‹‹Rivista di psicologia››, XXII,1927, ora a. c. di M. Quaranta in G. C. Ferrari, Scritti di psicologia, Bologna, Pitagora Editrice, 1985, p.164.

[3]Alla base dell’ampia opera di recensione svolta dalle riviste italiane tra la fine Ottocento e primi Novecento vi è proprio questo intento pedagogico di aggiornamento della cultura italiana in cui si sono distinti oltre a Ferrari, Prezzolini, Morselli, Groppali, Enriques. Mi riferisco all’opinione espressa da M. Quaranta in Per la storia della psichiatria recensioni 1893/1907 , a c. di M. Quaranta, Bologna, Pitagora, 1984, Premessa, pp. XIV-XV.

[4] G. C. Ferrari, Autobiografia, op. cit., p. 15.

[5] Ibidem, p.15.

[6] Ibidem, p.15.

[7] Ibidem, p.15.

[8] L’espressione ” test  mentale”  e stata introdotta per la prima volta da J. M. Cattel in un articolo pubblicato nel 1890  Mental tests and their measurement. Con questa espressione faceva riferimento a prove a cui aveva sottoposto studenti appartenenti a fasce di età diverse con lo scopo di  determinare il loro livello intellettivo. I test erano sensori e motori poiché Cattell era convinto che vi fosse una connessione fra le capacità senso motorie e l’intelligenza. Gli aspetti di questi studi  che più interessarono Binet furono la possibilità di studiare la psicologia individuale tramite i tests e la loro applicazione in ambito scolastico.

[9] Ferrari considerava il laboratorio istituito a Reggio Emilia il primo di psicologia sperimentale fondato in Italia in quanto quello fondato da G. Sergi nel 1889 a Roma era ” intimamente fuso con quello di  Antropologia. In realtà il primo centro autonomo italiano di ricerche psicologiche sarà considerato il laboratorio istituito a Firenze nel 1903 da De Sarlo.

[10] Gabriele Buccola nonostante la sua breve vita viene considerato uno dei fondatori della psicologia scientifica in Italia.La passione per la tematiche evoluzionistiche che lo animava fin dai  tempi del liceo si approfondì con il passare del tempo seguendo l’insegnamento di Mantegazza, Haeckel e Specer fino a diventare il punto di riferimento per i suoi studi di psicofisica. Laureatosi in Medicina a Palermo nel 1879, lavorò prima dal 1980 al 1981 all’Istituto psichiatrico di Reggio Emilia sotto la guida di Tamburini e poi, dal 1981, chiamato dall’allora direttore Morselli, in quello di Torino. Amareggiato a causa del ritiro del bando di concorso per una cattedra di psichiatrica per il quale concorreva si trasferì nella Clinica psichiatrica di Gudden in Germania. dove pochi mesi dopo morì. La sua morte privò il positivismo italiano di uno dei suoi maggiori esponenti e la scienza italiana di una delle sue migliori menti. Per ulteriori approfondimenti si veda R. Luccio, Gabriele Buccola in N. Dazzi e G. Cimino La  psicologia in Italia, LED, Milano, 1998, pp.109 – 175.

[11] Milano, Dumolard, 1883.

[12] V. P. Babini, La questione dei frenastenici , Milano, FrancoAngeli, 1996, pp. 130-132.

[13] G. C. Ferrari, Il 3° Congresso internazionale di psicologia  ( Monaco 4 – 7 agosto 1896), in ‹‹Rivista sperimentale di freniatria››, Vol , 3°, 1896 ora in Scritti di psicologia, (a cura di) M. Quaranta, Pitagora Editrice, Bologna, 1985, p.142

[14] La posizione di Ferrari era condivisa soprattutto da coloro che avevano una formazione medico – psichiatrica tra i quali De Sanctis e Col lucci. Posizione assai diversa è quella assunta da De Sarlo e da altri studiosi di formazione filosofica i quali, pur riconoscendo una certa valenza alla psicologia empirica e sperimentale, la considerano comunque sempre dipendente dalla fiosofia essendo comunque sempre quest’ultima a proporle temi e problemi. N. Dazzi e G. Cimino La psicologia , op cit., pp.26 – 27.

[15] La psicologia come scienza positiva pubblicata da Ardigò nel 1870 e il libro i Principi di Psicologia di G. Sergi del 1873/4 si contendono l’atto di nascita della Psicologia scientifica italiana.

[16] G. C. Ferrari 3° Congresso di Monaco, op.cit.

[17]  G. C. Ferrari, Il Laboratorio di Psicologia a Reggio Emilia, in «Emporium», ora in Sritti di tecnica manicomiale e di clinica psichiatrica, (a cura di) P. Soriano, Milano, Idami, 1968, p. 220.

[18]Cfr. G. C. Ferrari e G. Gucciardini, I Testi mentali per l’esame degli alienati, in ‹‹Rivista sperimentale di Frenatria››, 1896, ora in Scritti di tecnica manicomiale e di clinica psichiatrica a.c. di P. Soriano, Idami, 1968, p. 144.

[19] Cfr. G. C. Ferrari, Il laboratorio di psicologia di Reggio Emilia in «Emporium», vol.VII, 40, Giugno 1898, ora in Scritti di tecnica… op. cit., p. 221.

[20] Cfr. G. C. Ferrari, Metodi pratici per le ricerche psicologiche individuali da adottarsi nei manicomi e nelle cliniche, Relazione al X° congresso della Società freniatrica,10 – 14 ottobre 1899, Napoli, p. 791 ora in G. C. Ferrari, Scritti di psicologia, (a cura di) M. Quaranta, Bologna, Pitagora, 1985, p. 77.

[21]Ibidem, p.77.

[22] Ibidem, p. 75.

[23] Ibidem, p.75.

[24] S. Lazzari – M. Quaranta, Giulio Cesare Ferrari, in La Psicologia in Italia a. c. di G. Cimino e N. Dazzi, Led, Milano, 1998.

[25] Cfr.G.C. Ferrari, Autobiografia, op. cit. p. 18.

[26] Milano, Società Editrice Libraria.

[27] Ferrari non aveva inserito in questa edizione i Briefer course of psychology poiché Tarozzi stava lavorando ad una loro traduzione integrale che in realtà non fu mai pubblicata. Tarozzi pubblicò, invece, nel 1911 Compendio dei Principi di psicologia di W. James, con l’introduzione Il pensiero di William James e il tempo nostro, Milano, Società Editrice Libraria. L’intento era quello di aggiornare e di rendere più facile la lettura dei Principles.

[28] Cfr. Vailati G., Epistolario, a c. di G. Lanaro, Einaudi, Torino, 1971.

[29] W. James, 26 ottobre 1900.

[30] N. Dazzi, G. C. Ferrari traduttore di James, in Giulio Cesare Ferrari nella Storia della Psicologia italiana, (a cura di) G. Mucciarelli, Pitagora Editrice, Bologna, 1986, p.89.

[31] Cfr. G. C. Ferrari, Le emozioni e la vita del sub cosciente, in ‹‹Rivista di psicologia››, 1912, p.94.

[32] G. C. Ferrari, Influenza degli stati emotivi sulla genesi e sullo sviluppo dei deliri e di alcune psicosi, in ‹‹Rivista sperimentale di Freniatria››, 1901, ora in Scritti di tecnica…, op. cit., pp. 367-439.

[33] La teoria proposta da James si contrapponeva a quella dominante secondo la quale prima si aveva la percezione poi l’emozione ed in fine le manifestazioni somatiche. Numerose furono le critiche a sostegno delle quali venivano riportati i dati che dimostravano che la sperimentazione della teoria aveva dato esiti negativi. Nonostante tutto la sua influenza fu notevole.

[34] Cfr. G. C. Ferrari , Psicologia e Psicopatologia in Rivista di Psicologia, 1924 ora in Scritti di Tecnica…, op. cit., p.242.

[35] Cfr., F. Giacanelli, Giulio Cesare Ferrari nella storia della psichiatria italiana: spunti di Riflessione, in Giulio Cesare Ferrari nella storia…, op. cit., pp. 160 e M Quaranta , S. Lazzari,Giulio Cesare Ferrari, op. cit., pp. 235 – 237.

[36] Cfr. G. C. Ferrari, L’ assistenza dei malati di mente nel prossimo avvenire, in ‹‹Quaderni di psichiatria››,Genova, anno XVI, 1929 N. 7-8 , ora in Scritti di tecnica manicomiale, op.cit., p.104.

[37] Cfr. F. Giacanelli, Giulio Cesare Ferrari nella storia…, op. cit., p.155.

[38] G. C. Ferrari, Un metodo originale di applicazione delle malate agitate al lavoro metodico ma attivo, in Rassegna di studi psichiatrici, Bologna, 1930 ora in Scritti di tecnica …, op. cit,. pp. 111-122.

[39] Il manuale fu presentato nel 1927 al Concorso Brioschi. Nello stesso anno ne furono pubblicate pochissime copie; ora è in Scritti di pedagogia e rieducazione dei giovani, a cura di G. Mucciarelli, Bologna, Pitagora, 1984, pp. 129-187. da cui sono stati tratti tutti i dati della pagine seguenti inerenti alla teoria della educazione della volontà.

[40] Cfr. A. Santucci, G. C. Ferrari e la cultura…, op. cit., p. 37.

[41] Cfr. A. Santucci, Giulio Cesare Ferrari e la cultura positivistica, in G. C. Ferrari nella storia della psicologia italiana, op. cit., p. 33.

[42] Furono tradotti da Ferrari nel 1902 per la Società editrice libraria di Milano.

[43] Pubblicati nel 1904 per la Bocca, Milano. La traduzione fu opera di Ferrari e M. Calderoni.

[44] Lettere di James a Ferrari sono nel Fondo Ferrari a Padova.

[45] Cfr G. C. Ferrari, Autobiografia, op. cit., p.18.

[46] Cfr.G. Prezzolini, Nota su Giulio Cesare Ferrari, in ‹‹Rivista di Psicologia››, 1956, Fascicolo giubilare, p.25.

[47] Ibidem, p.25.

[48] Cfr. G.C. Ferrari, Autobiografia, op cit., p.19.

[49] Nel 1908 diventava ‹‹Rivista di Psicologia Applicata›. Nel 1912 è l’organo ufficiale della Società Italiana di Psicologia e dell’Istituto di Psicologia Sperimentale dell’università di Roma. Assume la denominazione di ‹‹Rivista di Psicologia›. Nel 1913 diventa anche l’organo dell’Istituto di Psicologia Sperimentale dell’università di Torino. Nel 1920 diventa trimestrale e nel1921 assume il titolo ‹‹Rivista di Psicologia e Rassegna di Studi pedagogici e filosofici››. Nel 1922 muta indirizzo e ridiventa ‹‹Rivista di Psicologia›› .Nel 1933,dopo la morte di Ferrari; il direttore diventa Mario Cannella che muta La denominazione in ‹‹Rivista di Psicologia Normale e Patologica› ,accentuandone le finalità applicative per farla sopravvivere all’ostracismo idealistico. Nel dopo Guerra è assente e ricompare nel 1955con la denominazione di ‹‹Rivista di Psicologia››.

[50] Cfr. G. C. Ferrari,, Programma, in «Rivista di Psicologia», 1905, 1, p. 1.

[51] Ibidem, p.1.

[52] Ibidem, p. 1.

[53] Cfr. Babini, La questione dei frenastenici, Milano, FrancoAngeli, 1996, p. 148.

[54] Per ulteriori approfondimenti consultare V. P. Babini, La questione dei frenastenici, op. cit.

[55]Cfr. M.Quaranta S.Lazzari, Giulio Cesare Ferrari, op. cit., pp. 238 e V. P. Babini, La questione dei frenastenici, op cit. , p. 167.

[56] Cfr. V. P. Babini, La questione …, op. cit., pp. 147.

[57] Cfr. G. C. Ferrari, L’insegnamento della psicologia sperimentale nelle Università e nelle Scuole Medie, in ‹‹Rivista di Psicologia››, XXII, 1927 ora in Scritti di psicologia, a. c. di M Quaranta, Bologna, Pitagora Editrice, 1985, p.164.

[58] Ibidem, p.163.

[59] Cfr. G.C. Ferrari, Per l’insegnamento della psicologia sperimentale, in ‹‹Rivista di psicologia››, XVIII, 1917, ora in Scritti di psicologia, op. cit., pp. 157-159.

[60]Ibidem,. p. 159.

[61] Ibidem, p.159.

[62] Ibidem, p.160.

[63] Cfr. G. C. Ferrari, L’insegnamento della psicologia .., op. cit. , p.163.

[64] Ibidem, pp.167-168.

[65] Ibidem, p.168.

[66] Ibidem, p. 169.