Il bambino al centro della scena. Dall’infanzia normale, all’anormale, alla delinquenziale.

La nascita della scienza dell’infanzia

Lo studio e l’osservazione del comportamento infantile avevano avuto un certo sviluppo ed una loro prima vera sistematizzazione solo nella seconda metà dell’Ottocento grazie alla pubblicazione degli articoli On the acquisition of language by children[1] e A biographical sketch of a child scritti rispettivamente da Hyppolyte Taine e da Charles Darwin e pubblicati su ‹‹Mind›› nel 1877. A questi aveva fatto seguito l’opera dell’embriologo tedesco Wilhel Preyer L’anima del bambino pubblicata nel 1881.

Chi aveva precorso i tempi ed aperto la strada sia ad un nuovo genere letterario sia ad un nuovo modo di fare ricerca era stato il filosofo tedesco Dietrich Tiedemann che nel 1787 pubblicò una monografia-diario sui primi quattro anni di vita di uno dei suoi figli dal titolo Osservazioni sullo sviluppo delle attività psichiche nei fanciulli. Molti altri studiosi di psicologia infantile, infatti, in seguito condussero le loro ricerche sui propri figli o nipoti[2] fra questi Darwin, Taine, Preyer, Baldwin, Vygotskij, Piaget e Stern.

Alle opere precedentemente citate seguirono quelle pubblicate, alla fine dell’Ottocento, da Stanley Hall[3] e da James Mark Baldwin.[4] Il grande merito di Hall fu di aver individuato e studiato, in tutte le sue manifestazioni psichiche e sociali, l’adolescenza. Baldwin fu il primo vero teorico di uno certo spessore dello sviluppo psichico infantile. Alla base della sua teoria vi era la convinzione che il pensiero si
sviluppasse in quattro stadi: (pre-logico, quasi logico, logico, iper-logico) e che l’iterazione fra la mente e l’ambiente avvenisse attraverso dei processi di assimilazione che permettevano di integrare degli elementi esterni in strutture e schemi in evoluzione o in completamento, e di accomodamento, che rendevano, invece, possibile il mutamento e lo sviluppo delle strutture e degli schemi. L’opera dei due professori della Baltimora University stava a testimoniare come, quella che oggi chiameremmo psicologia dell’età evolutiva, si trovava, fra Otto e Novecento, al centro di un interesse e di una profondità di studi sempre maggiori. Studi ed interessi che ebbero un impulso notevole sia a livello teorico sia empirico negli anni 20 e 30 del XX secolo[5].

Prendendo in considerazione la nascita e lo sviluppo della psicologia dell’infanzia non si può fare a meno di evidenziare come il successo e la diffusione delle teorie del positivismo e in particolar modo di quelle dell’evoluzionismo abbiano dato un impulso notevole al fiorire di quel interesse scientifico per il mondo del bambino appena descritto. L’evoluzionismo, considerando l’uomo il frutto da un lato dell’evoluzione filogenetica cioè della specie e dall’altro di quella ontogenetica cioè dell’individuo, evidenziava come, per una sua vera e completa comprensione, fosse necessario lo studio della psicologia sia dell’età evolutiva sia delle specie animali[6]. Nell’ambito dell’evoluzionismo un discorso a parte merita la teoria dello sviluppo come processo di individuazione e specializzazione elaborata da Spencer sulla falsa riga di quella sviluppata dall’embriologo Karl Von Baer. La motivazione è triplice: per il ruolo importante svolto all’interno dell’evoluzionismo, per l’influenza che esercitò sulle scienze mediche-antropologiche e umane soprattutto in Italia, e per l’impulso che la teoria di Von Baer ripresa da Spencer aveva dato alla concezione moderna dell’infanzia come sviluppo[7].

Spostando l’attenzione alla situazione degli studi dell’infanzia negli anni 80 dell’Ottocento, in Italia, i due maggiori scritti furono di Luigi Ferri Osservazioni e considerazioni sopra ad una bambina e a quello di Corrado Ricci L’arte nei bambini[8]. A queste due opere, frutto del lavoro di non medici, si affiancava un filone di studi legato all’antropologia e all’igiene pubblica. L’interesse per il mondo dell’infanzia da parte dell’igiene aveva fatto registrare un notevole aumento attorno agli anni 90 del XIX secolo. L’igiene, cercando forse di dare una risposta alle nuove problematiche figlie dei cambiamenti economico-sociali che caratterizzarono quell’epoca spostava la propria attenzione dal singolo e dalla famiglia alla collettività. Luoghi di studio e di osservazione diventano allora le scuole, le fabbriche e i posti di lavoro.

L’igiene privata, nata nei primi anni successivi all’unità d’Italia dalla necessità di un azione preventiva ad ampio raggio atta a modificare sia le condizioni di lavoro sia quelle ambientali considerate cause di patologie gravi o addirittura mortali, lasciava così il posto all’igiene pubblica[9].

La nascita di un forte interesse per il mondo dell’infanzia all’interno di questo nuovo ambito di ricerca, basato sullo studio della collettività e delle sue malattie, diventava una conseguenza quasi naturale. Di questo mondo erano soprattutto due aspetti ad attirare l’attenzione dell’igiene: la necessità di osservare e conoscere la popolazione infantile poiché in pratica sconosciuta a livello di grandi numeri e la necessità di una corretta profilassi atta a tutelare e difendere i bambini ed i giovani poiché i bambini ed i giovani d’oggi sarebbero diventati gli adulti di domani e come tali “rappresentanti” del futuro della “razza”[10]. La scuola, raccogliendo un gran numero di bambini, diventava il laboratorio nel quale poter osservare e studiare il mondo dell’infanzia ma, oltre a costituire un occhio privilegiato sulla popolazione infantile, era anche l’ambito all’interno del quale era possibile intervenire per correggere e educare i fanciulli. Proprio la diversa idea d’intervento in ambito scolastico tracciava la linea di demarcazione tra le due branche della medicina che più avevano dato impulso allo studio dell’infanzia: l’igiene e l’antropologia. Se l’igiene, grazie all’opera degli insegnanti, cui aveva delegato il proprio sapere, si era limitata a svolgere una campagna di sensibilizzazione e d’ educazione sanitaria all’interno della scuola, l’antropologia, invece, metteva in discussione il sistema educativo allora vigente considerato superato sia per i metodi usati sia per la formazione impartita al personale docente. Occorreva dunque rinnovarlo alla luce delle recenti scoperte scientifiche che avevano portato ad una nuova concezione della mente e dell’organismo del fanciullo. Alla pedagogia gli antropologi rimproveravano di non essere una vera e propria scienza basata sull’osservazione dei fatti e sullo studio delle cause che possono
influenzarla[11].

La scuola veniva ancora una volta indicata come luogo di ricerca scientifica in cui ai maestri, a differenza di quanto avveniva nel campo dell’igiene, veniva affidato il compito sia  di sottoporre sia di raccogliere i dati scientifici senza perdere di vista la concezione dell’uomo sottesa a quelle indagini. Da qui la necessità di dotare gli insegnanti di una formazione scientifica al passo con le nuove concezioni inerenti al mondo dell’infanzia[12]. Così l’antropologia, che per prima negli anni 80 dell’ Ottocento si era dedicata allo studio dell’universo infantile per cercare di gettare luce su questa popolazione ancora sconosciuta, investiva i maestri dell’importante compito di compilare le schede biografiche degli alunni. Attraverso la “mappatura” degli studenti si cercava di conoscere la loro individualità e la loro storia famigliare indagando sia sullo stato della salute fisica e morale sia sulle condizioni ambientali e sociali. Se i dati così raccolti permettevano al pedagogo di impartire un’educazione e un’istruzione mirata, gli stessi dati permettevano invece all’antropologo, preoccupato per le sorti future dell’umanità, di individuare le caratteristiche comuni, le differenze regionali della razza italiana giovane e i “degenerati” per poter intervenire tempestivamente.

In un momento in cui la questione della razza aveva una vitale importanza la presenza dei degenerati era vissuta come un forte pericolo per il futuro della nazione e come tele diventavano nello stesso tempo un problema politico e scientifico.

Se l’igiene e l’antropologia, come abbiamo visto in precedenza, erano state le prime discipline mediche ad occuparsi dell’infanzia sollevando la questione della cura della salute del bambino e dell’adolescente, per lo studio dei degenerati era stata la psichiatria a scendere in campo al fianco dell’antropologia. Considerati sia dall’antropologia che dalla psichiatria come il “prezzo dell’evoluzione” la loro presenza imponeva soluzioni sia per il quid et ora e sia per il futuro. Alla degenerazione la medicina sociale opponeva un progetto di rigenerazione basato sulla prevenzione e sul recupero dei degenerati il cui caposaldo era l’educazione. Si pensava, infatti, che l’educazione potesse essere uno strumento valido non solo per il recupero dei degenerati ma anche come forza in grado di plasmare l’organismo e la personalità dei giovani. Un’azione quest’ultima che se basata su criteri fisiologici diventava di una certa rilevanza nella lotta per la prevenzione della follia e della devianza[13].

Era stato grazie al Traité des maladies mentales che Morel pubblicò nel 1860 che il termine degenerato veniva conosciuto. La teoria esposta da Morel si fondava su due punti principali: che la tara ereditaria che si poteva trasmettere da padre in figlio non era sola fisica ma anche morale e che gli stati morbosi si aggravavano di generazione in generazione fino alla decadenza finale[14]. Il concetto di degenerazione ebbe un’ampia diffusione in campo medico soprattutto in Italia dove Lombroso non si limitò solo a rilanciarlo ma ne ampliò il concetto stesso comprendendo in tale termine forme di devianza intellettuale, morale, politica e sociale[15]. Grazie a questo ampliamento del concetto di degenerato, patologie quali ad esempio l’idiozia e le deficienze più o meno gravi, che prima di allora non venivano considerate dalla psichiatria di sua competenza, diventarono oggetto di dibattito scientifico. S’iniziò così ad indagare scientificamente il mondo sconosciuto dei frenastenici.

A tale mutamento di prospettiva aveva contribuito anche il sorgere in Europa, soprattutto in Francia, Germania e Inghilterra, dei così detti istituti medico – pedagogici per la cura e l’educazione dei deficienti. La peculiarità di questi istituti consisteva nel metodo di cura nel quale un metodo educativo speciale veniva abbinato a cure mediche specifiche che un neurologo-alienista assegnava ad ogni singolo paziente. La terapia, quindi, oltre a prevedere un livello medico ed uno educativo di intervento ne prevedeva uno anche individuale[16].

 

 

La nascita degli istituti per frenastenici in Italia

 

Quando alla fine degli anni ottanta dell’ottocento in Italia s’iniziò ad affrontare la questione dei frenastenici il ritardo del nostro paese rispetto al resto dell’Europa era notevole. Non solo non vi erano istituti specifici ma si dovevano ancora affrontare i problemi legati alla classificazione. Elemento determinante ai fini di una terapia individuale.

I primi istituti italiani erano sorti grazie ad iniziative private di alcuni maestri e educatori che partendo dalla propria esperienza personale nel campo della educazione dei sordo muti avevano dato vita, nel caso di Luigi Oliviero all’”Ipocofocomico” italiano fondato a Milano nel 1887, e nel caso di Gonnelli Cioni ad un istituto sorto nel 1889 a Chiavari. A queste due esperienze aveva fatto seguito nel 1894 la scuola “Pro idiotis” diretta da Cristina Segatelli e sostenuta dal Comune di Milano[17].

Questi primi tentativi di risposta al problema dell’infanzia degenerata di stampo pedagogico dovevano, però, avere vita breve. Alle difficoltà oggettive che i loro promotori avevano trovato sia a sensibilizzare l’opinione pubblica sia a reperire i fondi per il proprio mantenimento si aggiungevano le pressioni che branche della medicina, quali l’antropologia e la psichiatria, esercitavano sulla pedagogia. In ballo non vi era solo a chi spettasse definire il metodo di cura per gli idioti ma per l’antropologia e la psichiatria dimostrare l’inefficacia della pedagogia nel campo dei deficienti significa anche evidenziare lo stato di arretratezza in cui versava la stessa pedagogia e da qui a non considerala all’altezza di risolvere il problema della educazione della nazione italiana il passo era breve[18].

Il confronto, in realtà, nasceva dall’opposizione di due culture aventi matrici diverse: un’umanistica e cattolica basata su un sapere empirico fondato su una lunga esperienza maturata nel campo dell’assistenza ai sordi muti e a cui si rifacevano i primi tentativi concreti di risposta ai problemi dei frenastenici; ed una laica e scientifica legata ad un sapere medi-copsichiatrico che, forte dei consensi dell’epoca, non esitava a chiedere il passo[19].

In un periodo in cui tutti gli istituti sorti in favore dei deficienti erano tutti nati al di fuori delle istituzioni grazie all’interessamento e al lavoro di singoli studiosi e di privati cittadini diventava di vitale importanza, per il loro futuro e per il loro riconoscimento, gli agganci e il carisma che i loro fondatori potevano vantare sia a livello politico sia all’interno della categoria sia rappresentavano. Se la questione dei frenastenici, a partite dagli ultimissimi anni del 1800, fu inglobata dalla psichiatria molto, infatti, si deve ai singoli psichiatri che si occuparono dei deficienti.

Se il 1898 può essere considerato, come osservava lo stesso Ferrari nella relazione letta nel 1902 al Congresso internazionale di Anversa[20], il turning point per l’assistenza dei fanciulli degenerati italiani, si deve soprattutto alla caparbietà e all’intraprendenza di due psichiatri di gran fama: De Sanctis e Bonfigli. Infatti in quel anno, a Roma, Sante De Sanctis aveva dato vita ad un asilo scuola per fanciulli deficienti al quale nel 1899 aveva affiancato una casa di cura per bambini appartenenti a famiglie benestanti e Clodimiro Bonfigli, forte della sua doppia carica di direttore e di deputato e della forte stima che l’aristocrazia e il mondo intellettuale romano nutriva nei suoi confronti, fondava, sempre a Roma, il Comitato della Lega nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti[21].

Dal Comitato, fondato a dicembre, nasceva nel gennaio del 1899, la Lega. Il suo programma si articolava su tre punti fondamentali: la fondazione di istituti medico-pedegogici per l’educazione intellettuale e morale degli idioti più bassi, una capillare opera di diffusione e di sensibilizzazione del progetto e l’organizzazione di corsi di formazione per il personale insegnante[22].

Se tale programma divenne operativo nell’arco di pochi anni molto si deve all’operato di due valenti collaboratori di Bonfigli: Maria Montessori e Giuseppe Montesano.

La Montessori, oltre ad incaricarsi di divulgare e di spiegare gli scopi della Lega attraverso un ciclo di conferenze nelle maggiori città italiane, era, insieme a Montesano, l’asse portante della Scuola magistrale ortofrenica che la Lega aveva aperto a Roma il 7 aprile del 1900. Sebbene il presidente fosse Bonfigli, spettava ai due assistenti, incaricati di svolgere le lezioni principali, di insegnare ai maestri come istruire e educare i deficienti. Gli insegnanti, una volta usciti dalla scuola Ortofrenica, dovevano essere in grado di procedere alla messa a punto della anamnesi, alla compilazione della carta biografica, e alla valutazione delle funzioni di senso della attività psichica. A tale fine la scuola si era anche dotata di un vero e proprio laboratorio di psicologia scientifica. La scienza faceva così il suo ingresso nel mondo dei frenastenici[23].

Dopo l’apertura della scuola, il lavoro per l’attuazione del programma della lega non si era di certo fermato e di lì a pochi mesi nel dicembre del 1900 fu fondato, a Roma, il primo istituto per deficienti della Lega. A Bonfigli, nell’ambito di questo progetto, stava soprattutto a cuore sottolineare come l’educazione dei deficienti, necessitando questi ultimi di una sorveglianza continua e di un’ assistenza medica speciale, non potesse essere impartita seguendo i soli precetti della pedagogia[24]. Questo concetto esposto all’incirca con le stesse parole sopra riportate era il concetto che era alla base dell’art. 2 del capitolo I Titolo e scopo dello statuto della Lega. Nella disputa tra medicina e pedagogia, Bonfigli, perorava sì la causa della medicina ma senza voler espropriare la pedagogia. Dietro quest’atteggiamento pacato, forse, c’era la consapevolezza di tutti i reali giochi che avvenivano dietro la questione dei frenastenici, forse il riconoscimento di quanto fosse importante avere il più largo appoggio della opinione pubblica per la buona riuscita della appena nata Lega, forse più di tutto dietro quelle parole c’era la convinzione che la cura dei frenastenici dovesse seguire le vie congiunte della medicina e della pedagogia.

Se dopo le barricate ora era diventato possibile una collaborazione tra medici-psichiatri e pedagoghi nel campo dei frenastenici molto si doveva all’intervento di Maria Montessori al Congresso pedagogico nazionale. La dottoressa, sfruttando lo sgomento che regnava tra i pedagoghi dopo l’annuncio che la regina d’Austria era stata uccisa per mano di un italiano, prese la parola. Cogliendo al volo l’occasione che gli avvenimenti di politica estera le offrivano, incentrò il suo discorso sulla necessità di integrare e di educare i giovani degenerati che se abbandonati a loro stessi, come il regicidio stava a dimostrare, finivano per diventare gli extra sociali o gli anti sociali di domani. La pedagogia, se voleva veramente incidere sul sociale, doveva riformare la scuola e i metodi educativi tenendo conto dei degenerati che fino a quel momento aveva escluso. Avanzò, dunque, la proposta di inserire le classi aggiuntive e di impartire un’ educazione speciale per bambini aventi caratteri degenerativi. Grazie alla sua grande abilità di conferenziera, in cui, forse, in questa circostanza l’abilità maggiore era stata quella di sfruttare la suggestione del momento, ottenne, per acclamazione, l’accettazione della sua proposta[25].

Accettando la proposta della Montessori i pedagoghi aprivano così una breccia nel muro che la questione dei frenastenici aveva creato tra la pedagogia e la medicina, inaugurando così una collaborazione tra pedagoghi e psichiatri che se come effetto immediato aveva quello di rendere più facile la costituzione della Lega, come effetto a lungo termine aveva quello di aver aiutato a rendere possibile la formazione di quella che poi fu chiamata la “scuola italiana”. Con questo nome s’intendeva indicare quel grande movimento e interesse che caratterizzò il campo della rieducazione dei frenastenici in Italia dall’inizio del ‘900 fino allo scoppio della prima Guerra mondiale avvenuto nel 1915.

E’ in questo periodo, che Ferrari con sguardo retrospettivo non esitava a definire l’età dell’oro[26],che si registrarono le maggiori innovazioni, per tale settore, sia a livello teorico sia applicativo. Innovazioni che furono il frutto, soprattutto, dell’operato di un pool di quattro medici-psichiatri: Giulio Cesare Ferrari, Maria Montessori, Giuseppe Montesano e Sante De Sanctis[27].

La fondazione della Lega, evidentemente, dava risposta ad un
problema molto sentito da coloro che si occupavano dei degenerati, poiché, a pochi mesi di distanza dalla sua fondazione, oltre probabilmente le più rosee aspettative, si erano già istituiti, a Roma, in Toscana, in Piemonte e in Emilia dei Comitati per provvedere in modo scientifico all’educazione e al ricovero dei bambini deficienti.

Sotto il patronato degli psichiatri Francesco Roncati, Augusto Tamburini e Raffaele Brugia, direttori, rispettivamente, dei manicomi di Bologna, Reggio Emilia e Imola, il Comitato emiliano apriva, nel 1899, a S. Giovanni in Persiceto il primo istituto medico-pedagogico per frenastenici in Italia battendo sul tempo anche il sopra citato istituto fondato dalla Lega nazionale a Roma sotto la direzione di Bonfigli. A questi seguirono, sempre nel 1899, l’Umberto I a Firenze diretto dal prof. Eugenio Modigliano coadiuvato da Tanzi e, nel 1900, quello di Torino la cui direzione sanitaria fu affidata al prof. Marro e quella didattica alla prof. ssa Ida Faggiani[28].

L’istituto medico pedagogico era stata solamente la prima tappa di un progetto ambizioso che la Lega Emiliana si era impegnata a portare avanti nel campo della rieducazione dei degenerati. Nel 1902 nasceva a Crevalcore la scuola di pedagogia sperimentale aperta a tutti i maestri e non solo a coloro che si dedicano espressamente alla cura dei frenastenici, «ma che non possono che guadagnare dalle cognizioni che loro permettono di valutare in modo esatto e scientifico la capacità mentale dei fanciulli affidati alle loro cure[29]

Tale idea, appoggiata da Tamburini, era però figlia del lavoro che Ugo Pizzoli da anni svolgeva in ambito scolastico. Un lavoro animato dalla convinzione che un sistema pedagogico serio e scientifico dovesse basarsi su un sapere positivo. A tale fine istituì, a proprie spese, un Laboratorio di pedagogia scientifica, a Crevalcore, nel quale fosse possibile effettuare secondo i dettami del metodo sperimentale un esame antropologico e psicologico di ogni soggetto. L’attenzione era al particolare, al minimo scarto, all’apparentemente superfluo. Dotava, così, il suo gabinetto di tutte le apparecchiature necessarie sia per gli studi di antropometria, di psicofisica e di psicometria, sia per gli esperimenti[30]. Come ben sintetizzavano le parole di Ferrari sopra riportate, i corsi di Pizzoli si proponevano il fine di rendere fruibile agli studiosi di pedagogia quelle conoscenze, quegli strumenti e quelle idee che animavano il suo Laboratorio al fine, appunto, di poter stilare un’analisi completa e razionale della psiche di ciascun alunno. Studioso attento non si era lasciato sfuggire i grandi vantaggi che l’introduzione nella scuola dei reattivi mentali, più noti come mentaltest, poteva apportare al livello conoscitivo e educativo. La sua opera di propaganda a favore dei mentaltest si affiancava a quella svolta da Ferrari che dei reattivi mentali, come già notato in precedenza, era stato un gran estimatore e fautore[31]. A loro, infatti, De Sanctis riconosceva il merito di aver diffuso, in Italia, tale metodo di accertamento scientifico dell’anormalità[32].

Affianco a tutto questo movimento che la Lega direttamente o indirettamente aveva creato attorno alla questione dell’educazione dei deficienti prendeva corpo, nel 1898, l’idea che De Sanctis coltivava fin dal 1895 di fondare, a Roma, un Asilo-Scuola per deficienti indigenti.

De Sanctis, considerando gli istituti medico-pedagogici un metodo non più all’avanguardia per la risoluzione del problema dell’infanzia degenerata, insieme a Giuseppe Sergi non aveva aderito alla Lega neppure come consigliere.

Le divergenze di opinioni nascevano dal criterio di classificazione adottato dagli istituiti medico-pedagogici basato sulle capacità intellettuali e morali e sulla minore età che DeSanctis criticava sia a livello teorico sia per le conseguenze negative che la sua applicazione pratica determinava. Infatti, adottando tale criterio, venivano mescolate all’interno degli istituti persone con personalità diverse e non compatibili ai fini terapeutici. A suo modo di vedere, date queste premesse, la maggior parte degli istituti medico-pedagogici finivano per non essere altro che dei luoghi di ricovero. Stessa sorte prevedeva per le classi differenziali alle quali era ovviamente contrario[33].

Vale la pena, a mio avviso, di sottolineare come questa divergenza di punti di vista tra i maggiori studiosi italiani, che più si adoperarono per la questione dei frenastenici e degli anormali, non fu l’unica, altre se ne aggiunsero nel corso degli anni ma mai impedirono i loro rapporti di collaborazione che anzi furono una delle risorse più preziose per la diffusione e la soluzione delle problematiche legate all’infanzia anormale.

Alla fine degli anni novanta del 1800 anche l’Italia, grazie alla fondazione dell’istituto medico-pedagogico di Roma e all’Asilo scuola di De Sanctis, riducendo in qualche modo il gap con il resto di Europa, aveva, finalmente, l’occasione di poter osservare, studiare, comparare concretamente le patologie che affliggevano i frenastenici.

Le cause del ritardo con il quale in Italia ci si affacciava allo studio scientifico dei deficienti, come ben sintetizzava De Sanctis, erano da ricercare negli elementi di debolezza che la questione dei frenastenici portava con se: indecisioni e confusioni intorno alla nomenclatura; ignoranza del numero per difetto di buone statistiche; lotta fra indirizzo medico e indirizzo pedagogico nella educazione e nell’assistenza[34]. Se questo ultimo punto, al nascere dei primi istituti per deficienti, come abbiamo visto  si poteva considerare in qualche modo risolto non altrettanto si poteva dire per i problemi legati alla nomenclatura e alla statistica.

 

 

Le prime classificazioni

 

La questione della nomenclatura non era una questione di poco conto soprattutto perché portava con se conseguenze che poi si riflettevano nella statistica stessa, nella classificazione, nella selezione e nelle forme di assistenza.

I primi resoconti degli studi che Maria Montessori, Giuseppe Montesano e Sante De Sanctis resero noti, i primi due al Congresso di Napoli ed il secondo a quello di Ancona entrambi tenutisi nel 1901, offrivano un ottimo spaccato della situazione italiana. Alla base dei tre diversi tipi di classificazione che gli studiosi proposero vi erano motivazioni sia teoriche sia pratiche.

Nell’Asilo scuola e a Villa Amalia i bambini venivano ospitati per la sola giornata, quello che oggi definiremmo Day hospital, e tra di loro non vi erano idioti gravissimi essendo gli istituti per anormali dell’intelligenza e del carattere selezionati dalle scuole pubbliche. L’Asilo era soprattutto una scuola autonoma per sede, per direzione, per organizzazione disciplinare, didattica ed educativa che si proponeva come fine di preparare alla vita, attraverso l’istruzione e l’avviamento al lavoro professionale, quelli che De Sanctis definiva “anormali-veri”. Gli studi portati avanti dalla Montessori e da Montesano erano invece basati su giovani deficienti che vivevano all’interno dell’istituto la maggior parte dei quali provenivano dal manicomio S. Maria della Pietà a cui l’istituto era annesso[35].

Il sorgere all’ombra dei grandi Manicomi dai quali prelevavano i bambini era una caratteristica che accomunava tutti gli istituti fondati dai vari Comitati regionali della Lega. Tale situazione si era creata a causa della diffidenza che le Amministrazioni provinciali o le OO. PP. che amministrano i manicomi nutrivano nei confronti degli asili privati i quali, ai loro occhi, non davano sufficienti garanzie perché temevano che ad animarli non fosse un intento terapeutico ma bensì di lucro. I casi in cui i deficienti furono affidati ad istituti privati si verificarono solo quando a capo dell’istituto vi era un medico-direttore di grande autorità e di chiara fama[36].

Alla diffidenza si aggiungevano motivazioni di ordine economico-burocratico. L’Amministrazione provinciale oltre ad essere l’unico ente a cui potesse spettare il mantenimento dei frenastenici era anche quello sulle cui spalle gravava il carico generale del mantenimento degli alienati a questo aspetto se ne aggiungeva uno puramente pratico: il reclutamento del personale. Agli inizi non avendo personale qualificato gli istituti medico pedagogici avevano finito per prendere il loro personale educatore dai manicomi[37].

Da questo punto di vista la nascita dello stesso esperimento della Colonia libera per deficienti e giovanetti criminali, di cui tratteremo in modo esteso nel terzo capitolo, seguiva la falsa riga che aveva caratterizzato l’apertura degli istituti medico- pedagogici. Era, infatti, grazie al prestigio ed alla fama di Ferrari che l’Amministrazione aveva affidato alle cure della Colonia libera trentadue deficienti provenienti da diversi istituti rendendone così possibile l’apertura. Se non nasceva proprio all’ombra del manicomio, essendo stata in un primo momento aperta nei pressi di Castel Guelfo e successivamente, spostata in una villa a Imola, nasceva per lo meno nelle sue immediate vicinanze poiché, oltre ai degenti già menzionati, anche gli aiutanti della prof.ssa Francia, quattro vecchi malati ed un’infermiera, provenivano dal manicomio e senza dimenticare che lo stesso Ferrari, all’epoca, ricopriva la carica di Direttore del manicomio di Imola.

D’altra parte lo psichiatra reggiano, come sottolineava Mucciarelli, aveva travasato, anche se con obiettivi più dilatati e con una consapevolezza scientifica maggiore, nella Colonia libera di Imola l’esperienza maturata nell’istituto medico-pedagogico emiliano di cui era stato direttore dal 1903 al 1907[38].

Alla base delle diverse classificazione sopra descritte alle differenze di ordine pratico si aggiungevano quelle di ordine teorico. Infatti, De Sanctis preferiva una distinzione su base eziologica con una valenza pedagogica che lo portava a distinguere i deficienti in cerebropatici, vittime di una malattia del cervello diagnosticabile sopravvenuta durante una delle fasi del periodo evolutivo intra o extra-uterino e in biopatici, i quali non mostrano segni grossolani di malattie volgari del sistema nervoso centrale; non hanno paralisi propriamente dette. A questi due gruppi tenendo in considerazione sia la sintomatologia sia l’eziologia, ne aggiungeva un terzo quello dei bio-cerebropatici. Tale classificazione aveva per De Sanctis anche un valore pedagogico poiché, a suo modo di vedere, i cerebropatici risultavano meno educabili dei bio-patici, un’educabilità che variava da soggetto a soggetto e la cui riuscita dipendeva da fattori che non erano solo bio-patologici[39].

Maria Montessori, puntando su quello che era stato il suo cavallo di battaglia al Congresso di Pedagogia di Torino, stilava una classificazione che aveva come scopo principale di individuare le varie tipologie al fine di una profilassi sociale[40].

La dottoressa ci teneva a sottolineare come fosse necessario assumere come criterio discriminatorio delle varie tipologie il carattere morale in perché, alla luce degli studi da lei intrapresi, dall’intelletto dipendevano solo le varietà del tipo.

Se lo scopo dichiarato era la profilassi sociale e il criterio discriminatorio il carattere morale Maria Montessori non mancava di considerare un elemento che, caro alla psichiatria dell’epoca, era stato poi trapiantato nei vari campi del sapere che la psichiatria stessa si era annessa. Mi riferisco al problema economico che la questione della cura, della rieducazione e del mantenimento di coloro che non essendo produttivi perché o vagabondi o pazzi o frenastenici o criminali, portava con sé. Partendo da tali premesse la dottoressa proponeva di distinguere i bambini frenastenici in invalidi e validi. Al primo gruppo appartenevano coloro che perché malati in atto, pazzi e nevrotici, non venivano considerati educabili. A questi si aggiungevano coloro che messi in ambienti artificiali e con l’ausilio di mezzi specializzati potevano essere parzialmente educati. In tale categoria, denominata degli infermi, rientravano i paralitici, gli afasici, i sordomuti e gli amaurotici.

Il gruppo dei validi invece racchiudeva coloro che venivano considerati educabili completamente poiché in grado di divenire produttivi. A seconda del tipo di profilassi i validi venivano distinti in deficienti, di cui facevano parte gli amorali, gli istintivi, gli imbecilli e gli idioti, per i quali si metteva in atto una profilassi contro la criminalità e in subnormali, tardivi e nervosi, ai quali occorreva indirizzare una profilassi contro la pazzia[41].

A sua volta Montesano proponeva una classificazione basata su un criterio che era essenzialmente pratico. Le tre categorie di riferimento alle quali dovevano corrispondere tre istituti diversi venivano così nominate: degli incompleti, degli irregolari e dei tardivi. Della prima facevano parte coloro la cui educazione dei sensi e dei movimenti era assai difficoltosa a causa di un arresto dello sviluppo o di lesioni avvenute a seguito di processi patologici. Della secondo i frenastenici in cui erano preponderanti le anomalie inerenti alla sfera sentimentale e alla condotta. Della terza i deficienti la cui peculiarità era una generale debolezza nelle manifestazioni psichiche accompagnata da difficoltà di apprendimento, da amorfismo del carattere e da passività[42].

A queste prime classificazione si aggiungeva quella stilata da Ferrari e riportata dallo stesso psichiatra reggiano al Congresso della assistenza degli alienati tenutosi ad Anversa nel 1902.

Anche se nel 1901 aveva ottenuto la libera docenza in Psichiatria presso l’università di Modena e l’anno successivo gli era stato affidato l’incarico di vice direttore del Manicomio di S. Clemente di Venezia, Ferrari non aveva di certo rifiutato la nomina a membro della commissione di sorveglianza che proprio in quegli anni gli era stata conferita dalla Associazione emiliana per la protezione dei fanciulli deficienti. Nomina che era in realtà un riconoscimento per il lavoro svolto da Ferrari nell’ambito dell’istituto medico pedagogico emiliano. Tale esperienza aveva fatto maturare in lui un’idea ben precisa di come doveva essere un istituto medico pedagogico e della via da perseguire per far sì che le proprie idee divenissero realtà. Come nota Valeria Babini nel suo libro, a muovere Ferrari verso lo studio dei frenastenici era stato il suo amore per la psicologia e in modo particolare quella concezione della psicologia descritta in precedenza che lo stesso psichiatra emiliano si era andato formando soprattutto attraverso l’influenza di Binet e James[43].

Se Tamburini aveva caldeggiato l’ingresso di Ferrari nell’orbita dell’istituto di Bertalia proprio per i suoi interessi psicologici non bisogna però dimenticare l’altra anima di Ferrari quella dello psichiatra che lo faceva risultare altrettanto idoneo a lavorare in un campo, quello dei frenastenici, che la psichiatria si era da poco annessa.

A Ferrari premeva innanzitutto che nella cura e nello studio dei deficienti non si compiessero gli stessi errori che si erano compiuti nella cura e nello studio dei pazzi. A suo parere occorreva evitare che gli istituti medico-pedagogici diventassero come i manicomi dei semplici ricoveri e non dei luoghi di educazione, di studio e di attività scientifica come invece era sua intenzione trasformarli. L’educazione, condividendo l’opinione espressa da De Sanctis, doveva essere tecnica e manuale e non intellettuale in quanto i suoi effetti dimostrati sui deficienti erano nulli.Per tutti coloro che erano a carico dello Stato o delle amministrazioni provinciali diventava una spesa in pura perdita[44]. Spettava all’istituto medico pedagogico dare ai deficienti un’educazione tecnica individuale che li rendesse capaci se non a mantenersi completamente per lo meno a contribuire alle spese del proprio mantenimento. L’istituto diventava un mezzo di risparmio per la società non solo per la ragione appena descritta ma anche perché attraverso una diagnosi precoce era possibile intervenire tempestivamente in modo da curare o incanalare attraverso terapie mirate tendenze che altrimenti sarebbero sfociate in atteggiamenti anti-sociali. La spesa per la prevenzione era irrisoria in confronto a quella che la società si sarebbe dovuta sobbarcare nel caso in cui le tendenze si sarebbero trasformate in atti criminali o in vere e proprie patologie. Nello stesso tempo l’istituto svolgeva anche una funzione sia di profilassi sociale sia di difesa della società[45].

Per l’attuazione di questo progetto Ferrari auspicava un intervento diretto dello Stato che prendendo sotto la propria ala protettrice l’esercizio di tutti gli istituti medico-pedagogici avrebbe permesso al personale medico di osservare e studiare i bambini deficienti per tutto il tempo necessario per fare una diagnosi il più esatta possibile di ogni bambino povero che il medico specialista presente in ogni scuola, valutata la segnalazione di anormalità presentata dal maestro, inviava all’istituto. L’istituto doveva quindi funzionare come un Asilo di osservazione o di deposito dove i bambini una volta arrivati venivano classificati e smistati a seconda della tipologia a cui appartenevano[46].

Per ottimizzare questo procedimento Ferrari proponeva una classificazione rapida e provvisoria basata su tre categorie: i deficienti correggibili comprendevano coloro che si pensava si potessero appunto correggere dal punto di vista intellettuale o che non avessero che delle deficienze morali per i quali era previsto l’insegnamento di un mestiere che li mettesse in grado di svolgere una vita libera e indipendente anche se sempre sotto la tutela di Società di Patronato riconosciute dallo Stato; dei deficienti più gravi facevano invece parte chi, presentando anomalie grossolane, rendeva limitata l’aria d’azione dell’educatore il cui compito diventava allora quello di modificare le manifestazioni di tali anomalie in modo che non fossero nocive per la società e di sfruttare la loro tendenza all’automatismo per insegnarli semplici lavori meccanici in modo da renderli in grado di svolgere attività lavorative troppo difficoltose per una macchina e troppo noiose per un individuo normale.

La terza categoria era invece rappresentata dai bambini assolutamente ineducabili caratterizzati da una grande debolezza fisica che li rendeva inoffensivi. Per loro, una volta divenuti capaci di autogestirsi, si auspicava l’affidamento a famiglie residenti in campagna in modo che potessero almeno godere della vita libera, dell’aria pura e dei benefici di un’assistenza individuale[47].

I criteri posti alla base delle diverse classificazioni mettevano così in luce le varie ragioni che avevano determinato l’aumento d’interesse per lo studio dei frenastenici e dunque le stesse classificazioni e le stesse terapie ad esse associate cercavano ovviamente di dare una risposta alle tematiche che le avevano ispirate. Vi era dunque chi era più sensibile alle ragioni scientifiche, chi a  quelle morali, chi a quelle economiche e  chi a quelle sociali. Le classificazioni evidenziavano anche un altro elemento importante il diverso valore che veniva dato al livello intellettuale e a quello morale dai vari autori. Veniva, inoltre, sostenuta per la prima volta nel campo dei frenastenici sia l’importanza della variabilità individuale sia la teoria secondo la quale  non solo il livello intellettuale era disgiunto da quello morale  ma anzi sosteneva che il carattere morale fosse la base sulla quale poi  agiva quello intellettuale.

 

 

La criminalità minorile tra ‘800 e ‘900

 

Quando Ferrari, nel 1910, insieme a Gabriella Francia, diede vita alla Colonia libera dei deficenti gravi e dei giovani criminali presso Castel Guelfo, erano già stati pubblicati, sia in Italia sia all’estero, numerosi articoli e libri inerenti alla criminalità giovanile, ai quali avevano fatto seguito nuove proposte di legge e la creazione di istituzioni speciali. Tale interesse era dovuto al grande incremento della delinquenza minorile, fenomeno che interessava non solo l’Italia ma anche gli altri stati europei e l’America, sin dai primi anni del 1880.

I dati statistici pubblicati dai diversi Stati nell’arco di tempo compreso tra il 1880 e i primi del ‘900 evidenziavano un costante aumento della delinquenza minorile che, in alcuni casi, come Germania e Italia assumeva proporzioni a dir poco allarmanti[48]. In entrambe le Nazioni l’aumento in percentuale dei delinquenti minorenni era stato notevole, in Germania la percentuale dei condannati minorenni sul totale dei condannati passava dal 21,1% del 1882 al 36,1% del 1899 e in Italia dai 30008 condannati del 1890 si raggiunse quota 44047 nel 1898. Cifre che assumevano proporzioni enormi se paragonate alla lieve diminuzione che invece si era registrata in Inghilterra tra il 1983 e il 1899.

L’analisi dei dati evidenziava come la situazione italiana fosse  particolarmente grave. Infatti, come osservava Guarnieri-Ventimiglia, la criminalità minorile era aumentata sia nelle cifre assolute sia in quelle proporzionali, nella recidiva: il numero di minorenni recidivi passava dai 5769 del 1890 ai 6852 del 1895, in tutti i gruppi di età, in rapporto alla delinquenza degli adulti, in rapporto alla popolazione, al suo numero assoluto, alla sua densità, al suo incremento annuale[49].

Ma quali erano i reati di cui si macchiavano questi giovani criminali? Prevalevano i delitti contro la proprietà (furti, truffe, appropriazioni, frodi) – in alcuni paesi come l’Italia rappresentavano i 4/5 – , ai quali si affiancavano le lesioni gravi e gravissime in continuo aumento soprattutto in Italia, Germania e Austria.

Le proporzioni dei crimini commessi variavano, inoltre, a seconda delle fasce di età considerate In Germania, Italia e Inghilterra il maggior numero di reati veniva commesso nella fascia tra i 18 e i 21 anni con la sola differenza che in Italia, che vantava il primato della criminalità in genere, l’indice rimaneva elevato fino ai 30 anni invece in Inghilterra si abbassava velocemente. Elemento questo che portava gli studiosi inglesi a pensare che la delinquenza si concentrasse sulla fascia ancora più giovane. Supposizione confermata dalla statistica penitenziaria inglese che nel 1902-1903 affermava che il numero dei minorenni delinquenti aumentava nella sola fascia tra i 16 e i 21 anni. Dato questo che sembrava avvalorare la teoria di Tarde[50]. secondo la quale, come vedremo meglio in seguito, lo sviluppo della criminalità minorile era correlato con l’ordinamento della scuola e l’istruzione obbligatoria.

I delitti variavano a seconda della fascia di età considerata. In Italia gli studi effettuati nel periodo compreso fra il 1880 e il 1890 dimostravano come il 45% dei minori di 14 anni erano stati condannati per furto semplice e il 23% per furti qualificati od aggravati. I condannati per delitti contro la proprietà erano per la maggior parte sempre ragazzi dai 14 ai 18 (68%) e dai 18 ai 21 (48%). In queste classi di età iniziava ad essere consistente l’incremento dei condannati per reati di sangue: il 17% dai 14 ai 18 anni e il 28% dai 18 ai 21 anni. Quest’ultima fascia, essendo quella in cui si verificava il maggior numero di reati, rappresentava anche quella in cui la tipologia dei crimini, e quindi delle condanne, si manifestava con aspetto  più ampio. Era, infatti, fra i 18 e i 21 anni che le lesioni gravi e gravissime, i furti semplici e qualificati e i reati contro il buon costume, tra i quali soprattutto le violenze carnali, gli atti di libidine, gli oltraggi al pudore e alla corruzione dei minorenni, facevano registrare il loro picco massimo.

I dati diffusi dai diversi Stati relativi alla distribuzione geografica della delinquenza minorile mettevano in luce da un lato come questa trovasse terreno fertile nelle aree industrializzate e soprattutto nelle grandi città, – la Germania ne è un esempio lampante -, dall’altro, è il caso dell’Italia, sottolineavano come le percentuali dei minorenni delinquenti fossero molto più elevate nel Sud agricolo che nel Nord industriale.

Tali esiti, all’apparenza decisamente contrastanti, testimoniavano, in realtà, l’enorme influenza che l’aspetto economico aveva sullo sviluppo della criminalità minorile. Il diffondersi dell’industria aveva, infatti, determinato un mutamento degli orari lavorati che unito all’entrata delle donne nelle fabbriche aveva agito come elemento disgregante dei rapporti familiari. Nei casi, come nel sud dell’Italia, era invece la povertà a spingere i minorenni ad ingrossare le file della criminalità

La statistica inerente ai delitti dei minori in base al loro sesso di appartenenza dimostrava come la delinquenza minorile femminile fosse, per frequenza, un quinto o un sesto di quella maschile fino a scendere, in alcune nazioni, ad un ventesimo. Nei casi in cui faceva registrare un aumento, inoltre, rapportato a quello annuale maschile,
non ne seguiva lo stesso andamento.

Belgio, Inghilterra e Svizzera facevano registrare un tasso significativamente basso di delinquenza minorile. Tale andamento sembrava essere correlato sia alla grande opera di prevenzione svolta dal sistema educativo e assistenziale, sia alle riforme legislative volte a proteggere giuridicamente i minori.

Se dunque lo studio della delinquenza minorile non può prescindere dal prendere in considerazioni le leggi e i suoi sistemi di correzione e prevenzione tanto meno può prescindere dallo studio delle cause dalle quali direttamente dipende l’attuazione dei rimedi e in parte il loro successo.

 

 

IL Codice penale e i minori: la procedura, il grado di punibilità e la nozione di responsabilità

 

Nella storia della delinquenza minorile, come notava Guarnieri – Ventimiglia[51], il dualismo tra repressione e prevenzione, tra il principio sociale di assistenza e di protezione, era sempre stata una caratteristica costante.

Nel decennio che segnò il passaggio dall’Ottocento al Novecento, nella maggior parte degli Stati così detti moderni, si faceva sempre più insistente la pressione effettuata da antropologi, sociologi, psicologi, psichiatri, giudici e magistrati, nell’ambito della criminalità minorile, per un passaggio dai sistemi di repressione e correzione a quelli di assistenza ed educazione. Tale mutamento di prospettiva faceva sì che la funzione sociale e il compito dello Stato nei confronti dell’infanzia degenerata diventasse duplice. Da un lato, come profilassi, occorreva assisterla e proteggerla dall’abbandono morale e materiale dell’ambiente in cui viveva, dall’altro redimerla grazie ad un’educazione e ad un’istruzione atte a stimolare lo sviluppo morale e l’apprendimento di un’attività lavorativa.

Toccando la questione della criminalità giovanile, sia il campo sociale, sia quello del diritto penale, il porre alla base di tale questione l’assistenza e l’educazione inevitabilmente comportava, in campo giuridico, la messa in discussione e la rielaborazione oltre che delle nozioni di delitto, di condanna, di pena e di recidiva anche delle norme, dei principi e degli istituti giuridici che stavano alla base del codice penale in vigore.

Una delle questioni che diedero maggiormente adito a lunghe e numerose discussioni era quella riguardante l’imputabilità dei minorenni. Se, da un lato, veniva largamente condivisa l’idea che al minore reo dovesse essere assegnata una pena inferiore a quella dell’adulto dall’altro persistevano opinioni assai contrastanti su quali criteri adottare per stabilire le giuste pene.

Fin dall’antichità, anche nelle legislazioni più severe, si teneva in considerazione l’età del colpevole per l’attribuzione delle sanzioni penali. Infatti, già nel sistema legislativo degli Egizi, dei Persiani,degli Ebrei e nella Legge delle XII Tavole del diritto romano erano previste, a parità di reato, per i minorenni delle pene meno severe di quelle per l’adulto[52].

Tuttavia, l’età del colpevole non era sempre stata il criterio usato per determinare l’imputabilità Il diritto arcaico prevedeva una progressiva acquisizione della capacità di intendere e di volere che si considerava terminata con il raggiungimento della completa pubertà fisiologica Nelle leggi in vigore presso i barbari, invece, la maturità veniva raggiunta quando si dimostrava di essere in grado di affrontare le difficoltà della vita e di adempiere agli obblighi militari[53]. Come sottolineava lo stesso Bertolini[54], dietro a queste norme penali pur favorevoli ai minorenni, vi era sempre una concezione repressiva e retributiva dell’intervento giudiziario.

Inoltre dal Tardo Medioevo, fino al secolo XVIII, le norme speciali a favore dei minorenni furono sempre di più accantonate a vantaggio della regola “malitia supplet aetatem” grazie alla quale furono applicate ai minori delle pene severissime fino alla tortura e persino alla morte[55].

Nelle diverse nazioni, il limite sotto cui si ammetteva l’inesistenza assoluta o relativa del reato (nel senso che si dovevano fare degli accertamenti per verificare se l’atto era stato compiuto con discernimento), variava da nazione a nazione.

Il codice penale italiano datato 30 giugno 1889 e diventato esecutivo il 1 gennaio 1890 recitava:

«il fanciullo che non ha compiuto l’età di anni 9 sarà esente da pena. Nondimeno, ove il fatto sia preveduto dalla legge come un delitto che importi l’ergastolo o la reclusione, ovvero la detenzione non inferiore ad un anno, il presidente del Tribunale civile, sulla richiesta del Pubblico Ministero, può ordinare, con provvedimento revocabile, che il minore sia rinchiuso in un istituto di educazione e di correzione, per un tempo che non oltrepassi la maggiore età; ovvero può ingiungere ai genitori, od a coloro che abbiano l’obbligo di provvedere all’educazione del minore, di vigilare sulla condotta di lui, sotto pena, in caso d’inosservanza, ed ove il minore commetta un delitto qualsiasi, di un’ammenda sino a lire duemila (art. 53). »

Oltre all’esenzione da ogni responsabilità entro i 9 anni di età veniva anche stabilito che dai 9 ai 14 anni l’imputabilità dovesse essere subordinata all’indagine per appurare se l’atto criminoso fosse stato compiuto con discernimento. Nel caso fosse di un reato per il quale era previsto l’ergastolo, la reclusione o la detenzione non inferire ad un anno il giudice poteva dare o l’uno o l’altro dei provvedimenti previsti per i fanciulli di età inferiore ai 9 anni. Nel caso in cui abbia agito con discernimento all’ergastolo era sostituita la reclusione dai 6 a 15 anni. Se la pena temporanea era più di 12 anni si applicava dai 3 ai 10 anni, se da 6 a 12 anni si applicava da 1 a 5 anni, negli altri casi meno della metà. La pena pecuniaria si riduceva a metà. Nel caso in cui la pena fosse restrittiva della libertà personale, ancorché sostituita ad una pena pecuniaria, se il colpevole non aveva ancora compiuto i diciotto anni la doveva scontare in una casa di correzione. Veniva in oltre parificata l’età maggiore penale e quella civile a 21 anni compiuti e prima di questa età era sempre prevista una diminuzione della pena secondo i due periodi: dai 14 ai 18 e dai 18 ai 21. Se il reo aveva un’età compresa tra i 14 e i 18 all’ergastolo veniva sostituita la reclusione dai 12 ai 20 anni, se la pena temporanea oltrepassa i 12 anni si applicava dai 6 ai 12 anni, se oltrepassa i 6 ma non i 12 si doveva applicare da 3 a 6 anni. Negli altri casi la pena veniva ridotta della metà. La pena pecuniaria era diminuita di un terzo. Se il reo non aveva ancora compiuto i 18 anni il giudice poteva deliberare che la pena restrittiva della libertà fosse scontata in una casa di correzione. Per quanto concerneva la fascia di età compresa tra i 18 e i 21 l’ergastolo veniva ridotto alla reclusione per un periodo che poteva variare dai 25 ai 30 anni. Tutte le altre pene venivano scontate per un sesto di quelle stabilite[56].

Contro questi provvedimenti numerose critiche si levarono da più parti, in Italia, nei primi anni del ‘900. Con il diffondersi delle idee sostenute dalla Scuola penale positiva, venivano messi in discussione i concetti astratti e metafisici nella considerazione del reato che stavano alla base dell’allora codice vigenti.

Fondata da Lombroso la scuola, aveva mosso i primi passi, seguendo le orme della appena nata antropologia criminale. Accogliendo la teoria del “delinquente nato”, la massa criminale veniva considerata sia strutturalmente sia psicologicamente diversa da quella degli onesti. Come nota Delia Frigessi[57], se le conclusioni del Lombroso sul “delinquente nato” fossero state accettate in toto, il diritto penale non avrebbe avuto più ragione di esistere, in quanto non sarebbe rimasto altro da fare che registrare il reato e segregare il reo.

Fu grazie alle nuove categorie di criminali introdotte da Enrico Ferri tra queste soprattutto quella del criminale d’occasione, che la Scuola Positiva, per la prima volta, riconobbe l’influenza dell’ambiente sociale come causa del reato. In questo modo la lotta al delitto diventava un’opera di redenzione e di recupero, in cui l’azione preventiva giocava un ruolo di grande importanza; la pena perdeva così sia il valore di emenda sia quello di intimidazione e al suo posto venivano introdotti una serie di sostitutivi penali[58].

Alla Scuola penale positiva, a cui ai già citati Lombroso e Ferri andava aggiunto Garofalo, va dunque riconosciuto il grande merito di avere messo al centro degli studi il delinquente e le sue relazioni con la società evidenziando la necessità di investire nella profilassi, di sostituire i carceri con gli ospedali e il giudice con lo psichiatra[59].

Alla scuola penale positiva si opponevano le idee espresse dalla scuola classica secondo la quale la pena doveva essere una conseguenza necessaria del delitto. La pena non doveva essere emendativa, ma doveva adempiere ad un duplice scopo: assicurare alla società che  la violazione del diritto sarebbe stata riparata ed essere un deterrente per coloro che erano predisposti a compiere violazioni. Al fine del giudizio e della assegnazione della pena non era, quindi, importante lo studio del singolo individuo e dell’ambiente nel quale agiva ma occorreva, soprattutto, assicurarsi che la punizione producesse un giusto dolore come conseguenza dell’ingiusto godimento, pertanto doveva essere esemplare e irredimibile. Tra i seguaci italiani di questa scuola spiccavano, tra gli altri, i nomi di Carrara, Mamiani, Carmignani e Romagnosi[60].

Alle due scuole sopra citate, se ne aggiungeva una terza che sulla questione della pena proponeva una posizione intermedia: se da un lato era d’accordo con i classici nel riconoscere alle punizioni un valore profilattico propugnando per lo più pene pecuniarie e morali, dall’altro voleva aggiungere a queste i sostitutivi penali proposti dalla scuola positiva[61].

La discussione tra le varie scuole era molto viva ed accesa, soprattutto tra la scuola positiva e la cosiddetta scuola classica, in quanto dietro ai temi dell’imputabilità e del diritto a punire, la questione penale nascondeva una posta in palio molto alta: i principi ideali che avrebbero dato vita alla nuova società civile. Infatti, era proprio in quei decenni che la società civile italiana palesava evidenti esigenze di rinnovamento e la questione penale, avendo le sue radice sia nel diritto sia nella sociologia, giocava un ruolo molto importante nella scelta delle riforme che avrebbero dato vita alla nuova società[62].

Al Codice vigente veniva,inoltre, contestato di non considerare i giovanetti come dei bambini, seguendo la strada indicata dalla Pedagogia, ma bensì come degli adulti in miniatura[63]. Ad essi, infatti, venivano inflitte meccanicamente delle riduzioni di pena in base all’età del reo. Il modello veniva considerato doppiamente fallace. Da un lato, usando l’età come criterio per sancire i tre periodi entro i quali la pena veniva ridotta non teneva in considerazione le innovazioni che l’opera di Binet aveva portato: non vi era sempre corrispondenza tra l’età mentale e quella cronologica, il criterio dell’età aveva perso così ogni valore scientifico. Dall’altro le pene venivano sì ridotte, ma erano sempre pene ideate e studiate per criminali adulti. Non solo, m anche nei casi in cui i minorenni venivano condannati ad una pena restrittiva della libertà personale, non essendoci un adeguato numero di istituti di correzione, la maggior parte finiva per scontare la pena insieme ai detenuti adulti. Nei primi del Novecento, in Italia, si contavano, all’incirca, 5000 minori al di sotto dei 14 anni che dovevano scontare la pena restrittiva della libertà personale presso una casa di correzione, a fronte di ciò ve ne era una sola ad Urbino dotata di 130 posti[64].

Il totale dei minorenni condannati si aggirava attorno ai 40000; a questi andavano aggiunti i ricoverati per vagabondaggio e correzione paterna per un totale di circa 50000 minorenni l’anno. Inevitabilmente la quasi totalità veniva rinchiusa insieme ai detenuti adulti[65]. La situazione era in effetti a tal punto disastrosa che la maggior parte dei  magistrati deliberava che i minorenni dovessero scontare la pena direttamente nei carceri. Lo stesso Ministero degli interni, per disciplinare la distribuzione dei minorenni negli istituti di correzione, data l’esiguità dei posti disponibili, si trova costretto a graduarne l’ammissione concedendola per ordine. La maggior parte dei minorenni condannati non poteva così fruire del trattamento previsto per legge[66].

Se Lucchini affermava «che non occorreva fare della rettorica sugli effetti esiziali, disastrosi di siffatta promiscuità»[67] chi non lesinava di certo parole di condanna per sottolineare i nefandi effetti della situazione sopra descritta, era Ferrari. Il quale sottolineava come il fare vivere dei ragazzi, molto spesso dei bambini di 8-10 anni, a contatto per settimane o mesi con dei delinquenti abituali, professionisti del furto, della truffa e di reati contro il buon costume, significava fornire ai minori una vera e propria scuola di perfezionamento al crimine. Inoltre, sempre secondo le sue opinioni, nasceva nel ragazzo, una volta vinto il pudore istintivo nei confronti della prigione, un senso di orgoglio per essere stato in carcere. Era un po’ la stessa sensazione che il giovinetto provava a  fumare la prima sigaretta che lo costringeva a rigettare ma nello stesso tempo lo faceva sentire orgoglioso per averlo fatto.

Occorre aggiungere che per la maggior parte dei ragazzi inquisiti, in realtà, il carcere non rappresentava né un sacrificio reale né una limitazione perché le condizioni dell’alloggio non erano di certo peggiori di quelle in cui erano abituati a vivere e il vitto era garantito. La promiscuità, pericolosa anche nei casi in cui si verificasse tra ragazzi in quanto era opinione diffusa che fosse sufficiente la presenza di un solo vizioso perché tutti gli altri lo divenissero in pochi giorni, diventava veramente fatale quando si verificava tra adulti e ragazzi. Questi ultimi, sotto la guida e il protettorato degli adulti, si trasformavano in traviati difficilmente redimibili.

Le accuse mosse da Ferrari al sistema carcerario e alla legge che lo favoriva avevano le loro radici nella convinzione espressa dallo psichiatra emiliano della inutilità della pena per la redenzione e il recupero dell’infanzia traviata.

 

La pena inflitta ad un bambino è un non-senso; perché, se anche il ragazzo deve e sa apprendere che cosa possa e che cosa non debba fare, pure egli non può elevarsi al concetto etico della Giustizia; e, ammesso anche (cosa non sempre certa!) che il ragazzo sia colpevole di qualche fatto, se egli non è riuscito prima a concepire che non avrebbe dovuto compiere quell’atto, deve ritenere il castigo che gli viene inflitto un sopruso, per parte di un “quid” semplicemente più forte di lui. Di qui una maggior confusione delle sue idee sul lecito, l’illecito, e la superiorità della forza e dell’astuzia[68].

 

Così si esprimeva Ferrari, a distanza di anni, in un articolo pubblicato sulla «Rivista di Psicologia», in cui, non senza vena polemica e rammarico, sottolineava come, nonostante fossero passati ormai più di trenta anni da quando si era iniziato a discutere dei possibili rimedi per la questione della criminalità minorile, poco in realtà era stato fatto sia a livello legislativo sia a livello assistenziale ed educativo. Il poco diventava niente se paragonato ai provvedimenti assunti in quelli che all’epoca venivano definiti i paesi più avanzati tra i quali spiccavano l’Inghilterra, il Belgio e gli Stati Uniti.

 

 

L’assistenza dei minorenni traviati e delinquenti in Italia

 

Lo sdoppiamento del Codice belga, inglese e nord americano prevedeva una procedura per i minorenni diversa dagli adulti. I minorenni, inoltre, venivano giudicati da Tribunali appositi e, quando possibile, veniva applicata la sospensione della pena. Nei casi in cui i fanciulli avessero dovuto scontare una pena che in qualche modo fosse restrittiva della libertà, venivano trasferiti in istituti appositamente concepiti, in cui venivano sorvegliati e seguiti da personale specializzato. L’Inghilterra poteva, infatti, fregiarsi del fatto di essere stata la prima nazione ad emanare una legge specifica per l’infanzia traviata. Il Children Act, questo era il nome della legge entrata in vigore il primo aprile del 1909, da un lato regolamentava  l’andamento dei tre diversi tipi di istituti previsti dal codice inglese: i riformatori, le scuole industriali con internato e quelle diurne senza internato, dall’altro istituiva speciali magistrati e Tribunali per i giovinetti criminali. Per l’istituzione del magistrato per la gioventù (Children’s Court) l’Inghilterra, in realtà, seguiva le orme degli Stati Uniti dove la suddetta istituzione, in cui deliberava un giudice unico e già da diversi anni giudicava i minori di 16 anni che non fossero accusati insieme ad adulti e nel caso in cui il reato di cui si erano macchiati non fosse un omicidio premeditato. Negli Stati Uniti era in vigore, fin dal primo luglio del 1899, il Tribunale speciale per minorenni fondato sul probation sistem o sistema di prova. Tale sistema era nato per la prima volta nel 1878 nel Massachusset dove erano stato istituiti i Probation sistem for adult in cui la libertà vigilata poteva essere applicata ai delinquenti di ogni età e indipendentemente dal reato da loro commesso fatto salvo per il solo omicidio[69]. Per quanto riguardava i minorenni il principio che animava tale sistema consisteva nel fatto che il giudice, speciale sia per la forma del procedimento che per la sostanza, quando le circostanze lo consigliavano poteva non condannarlo ma rilasciarlo in libertà sorvegliata. L’ufficiale probatorio (probation officer) era colui a cui veniva affidato il compito di seguire e ricondurre ad una vita di onesta operosità il minore. L’ufficiale doveva riferire periodicamente al giudice la condotta del ragazzo in modo tale che, dopo un certo periodo, il giudice avesse gli elementi necessari per prendere un provvedimento definitivo: o dispensare il fanciullo da ogni sorveglianza o prendere le opportune misure correttive[70].

In Italia il probation sistem fu introdotto grazie alla legge del 26 giugno 1904 emanata dal Ministro di Grazia e Giustizia Ronchetti. In quella legge, veniva prevista l’applicazione della condanna condizionale per coloro che non ancora diciottenni erano stati condannati a scontare una pena restrittiva della libertà personale per un periodo non superiore ad un anno. Per dare un valido supporto a questi giovani durante il periodo di prova Miss Lucy C. Barlett fondò nel 1906, a Roma, il primo Patronato italiano per la tutela dei minorenni condannati “condizionalmente”. La tutela dei condannati veniva affidata a soci volontari reclutati tra i privati cittadini[71].

A questo primo patronato fecero seguito quelli di Milano, Firenze, Genova, Venezia e Bologna. Nonostante i successi iniziali ottenuti queste fondazioni private, mancando dell’appoggio dello Stato che mai emanò una legge atta a promuovere, riconoscere e tutelare tali iniziative come invece fece l’Inghilterra con il Children Act, con il passare degli anni non riscossero molto fortuna e non riuscirono ad ottenere i risultati sperati. Sintomatico il caso di Milano dove Augusto Mortara ricoprendo la carica di Presidente sia del Patronato sia della Sezione della Corte d’Appello fu in grado, solo grazie al sua posizione autorevole di convogliare in quell’esperienza l’autorità dello Stato e l’iniziativa privata[72].

La situazione sopra descritta creatasi tra l’iniziativa privata e lo Stato per l’attuazione del probation sistem rispecchiava pienamente la condizione in cui si trovava la questione della criminalità minorile negli ultimi dieci anni dell’800 e i primi trenta del ‘900. L’iniziativa privata, oltre a cercare di stare al passo con i tempi, dava anche vita a esperienze innovative, non trovando però il supporto adeguato dello Stato sia a livello legislativo sia economico. Infatti nonostante le pressioni esercitate dagli addetti ai lavori: avvocati, psicologi, sociologi, magistrati e pedagogisti, l’Italia solo nel 1934 varerà una nuova legge in materia minorile paragonabile al Children Act. Tale legge era il frutto di un processo lento e lungo costellato di modifiche, riforme e convocazioni di commissioni che solo in rari casi avevano avuto un’applicazione pratica.

Sante De Sanctis dovendo scrivere un articolo nel 1935 sulle date memorabili dell’assistenza dei minorenni traviati per la rivista ‹‹L’igiene Mentale››[73] decise, dopo aver riletto tutto il materiale a sua disposizione, di prendere come data di partenza del cammino che aveva portato all’entrata in vigore del Decreto-legge del 20 luglio 1934, il 9 novembre del 1909, giorno in cui l’On. Orlando, con decreto ministeriale, aveva nominato una Commissione Reale cui affidava l’incarico di studiare le cause del progressivo aumento della delinquenza minorile e di proporre le riforme legislative atte a porvi rimedio. L’On. Orlando nella relazione destinata al Re per ottenerne la di lui approvazione per l’istituzione della suddetta Commissione dimostrava una profonda ed ampia competenza dei problemi legati alla criminalità minorile che proprio in quegli anni faceva registrare un ulteriore aumento. Metteva sul banco degli imputati soprattutto la legislazione italiana che non facendo altro che applicare meccaniche riduzioni della pena, la maggior parte delle quali scontate in carceri insieme a criminali adulti, non determinava che un peggioramento della già non facile situazione dei giovani criminali. Primo dovere dello Stato era dunque quello di elaborare le necessarie riforme legislative alle quali si aggiungeva quello di coordinare, dirigere e dare unità di intenti e di metodi all’iniziativa privata la cui attività aveva già dato notevoli frutti[74].

Per cercare di migliorare tale situazione, l’On. Orlando, l’11 maggio 1908, aveva diramato una circolare nella quale indicava ai magistrati l’opportunità che l’applicazione del codice penale si traducesse in un atto di paterna autorità più che nell’applicazione di norme inflessibili in modo tale che il giudizio assumesse più i toni della correzione. Si auspicava una specializzazione dei giudici destinati a giudicare i minorenni delinquenti. Si sanciva, inoltre, che le udienze destinate a loro avvenissero in giorni e ore di minor affollamento e che i minor non potessero prendere parte alle udienze in cui venissero giudicati criminali adulti[75].

La Commissione, che iniziò i lavori il 12 dicembre 1909, fu divisa in tre sottocommissioni. La prima si occupava delle questioni legali relative ai minorenni abbandonati o criminali, della loro assistenza giudiziaria e amministrativa. La seconda si occupava dei provvedimenti per la prevenzione sociale della delinquenza, della dissolutezza minorile e per la tutela dei minorenni nelle industrie tenendo in considerazione le condizioni giuridiche della famiglia, le anomalie fisio-psicologiche e le intossicazioni. Alla terza commissione era stato assegnato il compito di studiare i medesimi provvedimenti preventivi della seconda commissione ma in riguardo alla scuola, ai trattamenti pubblici, al giornalismo e agli istituti di assistenza e di patronato[76].

I membri delle suddette commissioni erano stati scelti tra coloro che in quegli anni vantavano una grande competenza ed esperienza nel mondo dell’infanzia criminale tra i loro nomi, infatti, figuravano quelli di avvocati e di membri dell’alta magistratura come Quarta, Vacca, Fiocca, Lucchini, Guarnieri-Ventimiglia, di pedagogisti come Credaro, il direttore generale dei Riformatori Doria, Enrico Ferri, Scipio Sighele e Stoppato che si erano dedicati in special modo alla sociologia criminale invece Miss Barlett, Majetti, Martinazzoli e la Majno[77] erano presenti in qualità di direttori o di propagandisti di istituzioni che si adoperavano per il recupero dei giovinetti criminali. A questi andava, aggiunto nella doppia veste di direttore – fondatore dell’Asilo-scuola di Roma uno dei maggiori studiosi della infanzia “anormale”: Sante De Sanctis[78]. Interessante notare come S. De Sanctis fosse anche l’unico psichiatra della Commissione nominata.

Nel 1912 la Commisione Reale terminò i lavori nel 1912 che portarono alla formulazione di un progetto di legge basato sulle relazioni elaborate nelle sotto commissioni. Se tale progetto, come lo definiva Ferrari, non era probabilmente perfetto andava però finalmente a colmare il vuoto legislativo presente nel l’allora codice penale in materia minorile. Veniva istituita una federazione tra tutte le opere private e pubbliche di assistenza per l’infanzia, la fanciullezza e l’adolescenza normale e anormale. I Comuni, le Provincie e lo Stato riconoscevano e coordinavano come propri enti ogni forma di assistenza e di profilassi sociale sia pubblica che privata. Tra i rimedi veniva riconosciuto il ruolo centrale della scuola. A questo scopo veniva assicurato l’obbligo all’istruzione elementare e severamente punita la trasgressione. Si auspicava una riforma della scuola popolare, delle istituzioni parascolastiche e dei dopo scuola ai quali andavano aggiunti gli esternati e il lavoro per i deboli e gli instabili[79].

Nonostante le energie spese e la sua validità, tanto è che sia l’Inghilterra e sia alcuni Stati dell’America del Nord vi si ispirarono, in Italia il progetto di legge rimase sempre tale senza tramutarsi in legge[80]. Se De Sanctis nel suo articolo su ‹‹L’Igiene Mentale››[81] soffermandosi a descrivere le innovazioni contenute in quel progetto di legge mancava di accennare ai motivi che avevano reso quel lavoro vano, Ferrari, a più riprese non mancò di sottolineare con rammarico l’assurdità di una tale avvenimento. Egli da un lato ironicamente riportava che la mancata pubblicazione del Codice sembrava dipendere dal fatto che l’Erario non avesse a disposizione le poche migliaia di lire necessarie[82], dall’altro sapeva bene che la mancata pubblicazione della legge dipendeva essenzialmente dallo Stato che alla ormai proverbiale incapacità di tradurre in atti le proprie idee univa una malcelata volontà di non assumersi le proprie responsabilità in materia minorile. Andando a toccare il problema dell’infanzia criminale, come già accennato, questioni di diritto, di sociologia, di psicologia e di pedagogia, intervenire in questo campo significava modificare i rapporti di forza e i principi sui quali era costruita la società così lo Stato non pubblicando il Codice aveva giudicato i concetti lì proposti troppo innovativi e aveva deciso di seguire l’allora imperante legge del quieto vivere[83].

Una seconda Commissione Reale per la riforma della legge penale veniva istituita dal guardasigilli Ludovico Mortara il 14 settembre del 1919. La nomina di Presidente di tale Commissione spettò ad Enrico Ferri e ne facevano parte illustri giuristi: Garofalo, Setti, Majetti, Florian, De Notaristefani, Alberici, De Nicola, Berenini e quattro biologi-psicologi Lusting, Ottolenghi, De Sanctis e G. C. Ferrari[84].

La riforma si basava sui fondamenti della Scuola Positiva Italiana: al centro, seguendo i dettami di tale scuola, veniva posto il delinquente e i suoi rapporti con la società[85]. Le vecchie distinzioni, dalle quali venivano desunte le pene, venivano così sostituite dalla considerazione psicologica del criminale e del suo atto. Alla società veniva sì riconosciuto il diritto di difendersi attraverso la segregazione del reo, ma questa a sua volta si impegnava ad aiutarlo a riconquistare la sua dignità di uomo. Se il codice apportava notevoli novità per i criminali adulti e per gli atti commessi da alienati, la segregazione ora avveniva nei modi e nelle forme indicate dal medico, non determinava, però, gran mutamenti nel campo della delinquenza minorile. Anche il «Codice Ferri,-come ebbe poi modo di scrivere Ferrari nella sua Autobiografia nacque morto in Italia[86]

Tra le date memorabile da ricordare dell’assistenza dei minorenni traviati, De Sanctis, non a caso, inseriva il 19 ottobre 1924 giorno in cui veniva costituita la Lega Italiana di Igiene e Profilassi mentale. La quale, a testimonianza di un profondo e proficuo legame che si era creato in Italia tra un nutrito gruppo di psichiatri, psicologi e pedagogisti, fin da quando mosse i suoi primi passi, aveva coordinato la propria azione a quella degli Enti pubblici e privati, preposti alla prevenzione della criminalità. Linea questa a cui la Lega italiana rimase sempre fedele promovendo l’istituzione di classi differenziali, di scuole autonome e di Colonie medico-pedagogiche tanto da inserire nel proprio definitivo statuto del 1930 tra i suoi scopi proprio quello di favorire la riforma degli istituti di correzione al fine di renderli adeguati alla rieducazione sociale dei soggetti[87].

Nel riepilogo delle date memorabili De Sanctis non inseriva però il 1928 anno in cui a Milano veniva istituito il primo tribunale per minorenni d’intesa con le autorità competenti, in via sperimentale, presso i locali dell’Associazione nazionale Cesare Beccaria. Questa associazione che si era riunita per la prima volta nel 1899, per l’impulso dell’avvocato Cavagnari[88], aveva dato vita ad un Comitato per la difesa giuridica dei minorenni traviati che dovevano essere condotti a giudizio. Veniva poi incaricato il prof. A. Martinazzoli di costituire una Commissione speciale di magistrati psichiatri ed educatori che nel corso degli anni lavorò continuamente per rendere l’iter legislativo e penale il più consono possibile alle esigenze dei minorenni[89]. A tal fine la suddetta Commissione condusse numerose battaglie da quelle per l’istituzione di un giudice istruttore speciale, a quelle per ottenere un trattamento migliore per il riscatto del fanciullo reo, fino alla richiesta di un vero e proprio Tribunale per minorenni che poi, come accennato sopra, realizzò all’interno delle proprie strutture addirittura ante-legem[90].

A questa attività la Commissione decise di affiancare quella di un Istituto Pedagogico Forense per minorenni rei che si collocava tra l’educazione famigliare e il riformatorio e che aveva come principio guida la rieducazione nella libertà.

De Sanctis, non mancava però, di inserire tra le tappe storiche la Legge Federzoni, madre dell’Opera Nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia. Ne evidenziava e ne elogiava l’opera di difesa, di protezione e di assistenza apportata al mondo dell’infanzia traviata[91]. Tale descrizione era senza ombra di dubbio lo specchio della situazione romana ma alla quale non corrispondeva un analoga situazione nel resto d’Italia tant’è che, in un articolo comparso sulla rivista di Psicologia nel 1932 Ferrari sottolineava ancora una volta come in Italia non ci si prendesse cura in modo adeguato dei giovinetti criminali e come l’operato dell’O. N. M. I. fosse per lo più limitato alla sola Roma[92]. Finiva, in realtà, l’articolo mitigando la sua critica, si professava ottimista per il futuro dell’istituzione in quanto il suo riassetto era stato affidato al valente Sileno Fabbri e chiamando in causa lo stesso Mussolini affinché gli concedesse l’autorità necessaria per svolgere in modo psicologicamente giustificato le funzioni sociali ed umane della Giustizia verso i fanciulli e i giovani[93].

Le opinioni di De Sanctis e Ferrari divergevano ancora una volta riguardo al valore apportato dall’istituzione dei Tribunali per minorenni a Roma e a Milano. De Sanctis sottolineava con enfasi la modernità e l’organicità della legge in rapporto a quella francese dimostrando di non tenere in considerazione né il Children Act, né la situazione degli Stati uniti d’America. Dall’altra Ferrari, da pragmatico quale era, evidenziava come a causa della legge che si trovavano ad applicare, ai mezzi di correzione non idonei che avevano a loro disposizione e all’avversità che alcuni Procuratori Generali manifestavano nei loro confronti perché contrari ai cambiamenti apportati, i Tribunali per minori finivano per non riuscire a svolgere le mansioni per le quali erano stati ideati[94].

Le opinioni espresse da Ferrari datate 1932, tre anni dopo l’istituzione del Codice penale Rocco, fanno pensare che anche questo Codice non aveva determinato dei cambiamenti a livello pratico, nonostante il valore delle innovazioni contenute: le prime disposizioni per la specializzazione del giudice minorile, il Codice penale di procedura e lo spostamento dell’età minima della capacità penale dai 9 ai 14 anni, il periodo intermedio dai 14 ai 18 e il riconoscimento a 18 anni della piena capacità penale[95].

Nella ricapitolazione delle tappe significative si arriva così al 29 ottobre 1934 quando entrò in vigore il decreto legge del 20 luglio 1934. I tratti salienti della nuova legge consistevano in una presa di coscienza da parte dello Stato della distinzione netta che separava i traviati dai delinquenti, nell’istituzione di una magistratura superiore e nel riconoscere la necessità di non trattare i minorenni rei, fino a quando non avessero compiuto il diciottesimo anno di età, come i criminali adulti ma dover applicare loro dei trattamenti aventi come fine la loro educazione e la costruzione o ricostruzione del loro carattere[96]. Affinché quelli elencati sopra non rimanessero altro che buoni propositi, la nuova legge proponeva la lotta unificata contro la criminalità il cui esito positivo, come sottolineava De Sanctis, dipendeva dal buon funzionamento dei Tribunali e dall’armonico procedere dei Centri di educazione e di rieducazione ai quali spettava lo studio della personalità e la messa a punto del piano di rieducazione di ogni minorenne incappato nelle maglie della giustizia. Le case di rieducazione per traviati, i Riformatori giudiziari e i centri di osservazioni insieme ai Carceri e ai tribunali per minorenni davano vita ai Centri di rieducazione. La Legge aveva così messo mano ad uno dei problemi che negli ultimi quaranta anni aveva acceso molti dibatti ma mai aveva trovato uno soluzione: gli istituti di reclusione e di educazione per minorenni traviati.

 

 

Gli istituti di correzione per minorenni. Dalle case di correzione a sistema repressivo alle case di educazione.

 

I germi della ventata innovativa registrata in campo legislativo, nella  maggior parte degli stati europei e nord americani, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento avevano, ovviamente, fatto sentire i loro effetti anche sull’insieme di norme e di procedimenti che limitavano e regolavano la vita all’interno degli istituti carcerari.

Il principio della protezione giuridica dei minori, riconosciuto ormai dalla maggior parte dei Codici Penali, aveva determinato una trasformazione dei sistemi e dei metodi di repressione in ordinamenti di educazione correzionale.

Le case di correzione, i riformatori e le scuole di beneficenza, la nomenclatura cambiava a seconda degli Stati, si differenziavano dagli stabilimenti repressivi per l’aspetto ma soprattutto per la loro funzione di educazione, di istruzione e di insegnamento professionale.

L’aver assunto come idea guida che la privazione della libertà fosse necessaria in quanto mezzo di educazione e non come mezzo di espiazione di un atto delittuoso aveva come conseguenza necessaria una maggiore attenzione all’individuo per quello che era e soprattutto per quello che sarebbe poi potuto diventare[97].

Al fine di evitare che il ragazzo, una volta uscito, ritornasse a compiere un reato, che avrebbe significato, per la maggior parte dei casi, la sua definitiva entrata nella schiera della criminalità, si pensò di attuare un piano di recupero basato sull’istruzione teorica primaria e su quella professionale sia agricola sia industriale. Il fine era di dare al ragazzo gli strumenti necessari per riuscire a condurre una vita retta. Per il raggiungimento di tale scopo, nella maggior parte degli Stati europei e negli Stati Uniti d’America era stata inserita all’interno dei riformatori l’istruzione teorica elementare e in alcuni anche quella superiore. Al lavoro degli insegnanti si affiancava quello dei maestri di mestieri che, quando era possibile, cercavano di assecondare la scelta lavorativa del ragazzo ma tenendo sempre presente la realtà sociale e la richiesta del mercato.  Al lavoro manuale veniva inoltre riconosciuta una funzione educativa e pedagogica che nel caso del lavoro nei campi, considerato una fucina di generazioni sane, robuste e forti per l’attività fisica richiesta e per l’aria libera e sana che vi si respirava, diventava anche profilattica sia per il fisico sia per la mente[98].

Il personale di custodia e di direzione rappresentava un altro spartiacque tra i due indirizzi: se erano improntati sul carattere penale o repressivo i riformatori e i carceri per adulti facevano uso dello stesso personale; se invece prevaleva l’indirizzo educativo e istruttivo si tendeva ad assumere nei riformatori personale specializzato.

A seconda che gli istituti fossero interamente mantenuti dal Governo, da privati, grazie all’aiuto della beneficenza di caritatevoli cittadini, o da privati ma riceventi anche sussidi dal Comune, dalla Provincia e dal Governo, si definivano: governativi, privati e misti. Il loro numero variava da nazione a nazione, dalla Svizzera in cui erano quasi tutti privati fondati dalla Società svizzera di pubblica sicurezza agli Stati Uniti d’America dove i 91 presenti, anche se godevano di ampia autonomia, erano praticamente tutti governativi. Si differenziavano dagli altri Stati, per una scelta orientata verso l’affidamento dei minori a famiglie o a strutture che non avevano un vero e proprio carattere di riformatori, la Svezia, la Norvegia e la Danimarca. Eccezione, ma per la mancanza di istituti speciali, facevano anche la Spagna e il Portogallo[99].

In Italia il decreto n. 260 del primo febbraio del 1891 sanciva tre diverse categorie di stabilimenti carcerari: i carceri giudiziari, gli stabilimenti di pena e i riformatori[100]. I minorenni condannati, quelli ricoverati per correzione paterna, gli oziosi e i vagabondi venivano inviati, a seconda del tipo di regole infrante, nei riformatori o governativi o privati. I riformatori governativi, che dipendevano direttamente dall’amministrazione carceraria, si distinguevano in: Case di correzione, Istituti di educazione e di correzione, Istituti di educazione correzionale e Istituti di correzione paterna[101]. Nei primi venivano inviati minorenni aventi un’età inferiore di 18 anni condannati per applicazione degli articoli 54 e 55 del codice penale. Nei secondi i minori di nove anni che avevano commesso un delitto punibile con la reclusione o la detenzione non inferiori ad un anno e i minorenni tra i 9 e i 14 anni che avevano commesso un reato senza discernimento. Nel terzo tipo di istituti, invece, venivano inviati i minorenni di 18 anni dediti al vagabondaggio, all’oziosità, alla mendicità e al meretricio. In fine nel quarto venivano ricoverati i minorenni  a norma dell’articolo 222 del codice civile[102].

Nei riformatori privati, che supplivano alle carenze dei riformatori governativi, venivano inviati i minorenni sotto i 18 anni o per correzione paterna o per vagabondaggio, ozio, meretricio e mendicità. In questi istituti non venivano mai accolti minorenni  condannati ma potevano ricevere i minorenni delinquenti assolti o perché aventi un’età inferiore ai 9 anni o perché avevano agito senza discernimento[103].

Gli istituti governativi presenti in Italia nel 1987 erano nove di cui 8 maschili 1 femminile[104]. Mentre gli istituti maschili erano suddivisi a seconda delle quattro categorie descritte sopra quello femminile accoglieva le minorenni di tutte e quattro le categorie.

Il numero dei privati era invece pari a 34, 12 per ragazzi e 22 per ragazze la maggior parte di questi ultimi erano gestiti da suore. Tant’è che tutti i servizi dell’unico istituto governativo femminile erano gestiti dalle Suore della Provvidenza, alle quali era stato pure affidato, in appalto generale, il mantenimento delle minorenni e delle condannate della Casa di pena esistenti nello stesso fabbricato[105].

Per quanto riguarda la parte economica, a parte, il caso appena citato, i riformatori governativi erano regolati col sistema di economia per conto dello Stato o col sistema misto dove al sistema ad economia veniva affiancato l’appalto dei generi inerenti al vitto e al combustibile. Ai riformatori privati veniva invece versata da parte dello Stato, per il mantenimento dei ricoverati, una diaria individuale giornaliera pari a cent. 80[106].

Anche se, leggendo i documenti relativi alle annate 1900-901 per quanto riguarda la recettività e il numero degli istituti, la situazione appariva lievemente migliorata, il numero degli stabilimenti governativi era passato da nove a 11, 10 per ragazzi e 1 per ragazze, in realtà la recettività era ancora molto al di sotto del fa bisogno.

Ad inizio secolo la situazione italiana nel campo della criminalità minorile non era delle più rosee. Alla già citata carenza strutturale lo Stato italiano univa una scarsa attenzione nella scelta del personale che nella quasi totalità dei casi finiva per essere formato da guardie carcerarie. Nel tentativo di migliorare la situazione dei carceri minorili e di portare l’Italia al passo con le nazioni più avanzate il Direttore generale delle carceri Alessandro Doria diede vita, attraverso l’approvazione dei regolamenti datati 22 dicembre 1904 e 14 luglio 1907, alla riforma dei riformatori[107]. Le maggiori innovazioni contenute nel testo riguardavano il personale, il lavoro e l’istruzione. La Riforma prevedeva la sostituzione del personale di custodia con o maestri elementari o educatori o persone affidabili che avessero compiuto gli studi ginnasiali o tecnici, e dall’istituzione di scuole industriali affidate ai capi d’arte. Al lavoro veniva riconosciuto un fine pedagogico ed educativo atto a rivelare le attitudini del ragazzo e ad avviarlo all’apprendimento di un’attività lavorativa. Nei riformatori dovevano essere attivate le scuole elementari dove insegnanti muniti da regolare diploma avevano il compito di svolgere gli stessi programmi delle pubbliche. A questi venivano affiancati un maestro di disegno, uno di educazione fisica, uno di musica e uno addetto alla formazione di pompieri[108] e all’insegnamento degli esercizi militari.

Al medico veniva affidato il compito di accertare la salute e l’idoneità fisica e di sottoporre ogni corrigendo ad un esame psicofisico al fine di compilare un carta biografica completa sulla base della quale poter poi stilare un sistema razionale di correzione individuale[109].

Al Direttore spettava il compito di studiare la storia precedente e le peculiarità del carattere di ogni ragazzo. L’assegnazione dei vari istituti avveniva sempre a seconda della categoria giuridica di appartenenza alla quale si affiancava un’ulteriore suddivisione secondo l’età, i precedenti,la condotta e i progressi. La condotta tenuta determinava l’assegnazione in classi speciali o di distinzione o di punizione differenti tra loro per i privilegi di cui potevano godere gli iscritti[110].

Le gratificazioni che venivano concesse erano: il vitto somministrato, la frequenza delle visite, la somma di spesa concessa e l’assegnamento del compito di capo squadra assegnato solo ai migliori. Veniva inoltre istituito un comitato d’onore al quale venivano iscritti coloro che eccellevano nella condotta. Ai membri veniva concesso di uscire con i parenti e di partecipare alle parate festive e a quelle speciali mensili oltre all’assegnazione di medaglie, libri e depositi di denaro in cassette di risparmio[111]. A queste facevano da contrappeso le punizioni assegnate a seconda della gravità del fatto commesso che andavano dalle ammonizioni private o pubbliche all’esclusione dalle passeggiate o dai momenti comuni, all’isolamento temporaneo, alla detenzione in cella semplice o di rigore fino all’invio al riformatorio speciale di rigore per un massimo di tre mesi. Coloro che stavano scontando tali punizioni erano, però, sempre messi in grado di frequentare le lezioni sia degli insegnanti sia dei maestri di mestieri[112].

Per ogni riformatorio veniva prevista la costituzione di una commissione di vigilanza formata dal sindaco, da uno dei principali magistrati del Comune, da due delegati del Ministero e dal direttore di un istituto di istruzione secondaria della regione. I prosciolti dovevano essere affidati ad una società d’assistenza per la protezione dell’infanzia abbandonata e la condotta dei rimessi alla vita libera doveva essere monitorata per tre anni. Le informazioni così acquisite erano un valido aiuto per la compilazione della carta biografica[113].

La riforma fu accolta da opinioni assai contrastanti che la disputa avvenuta a colpi di fioretto sulle pagine del quotidiano ‹‹La Vita›› nei primi di giugno del 1906 tra Maria Montessori e Rossana[114] ha avuto il merito di riassumere magistralmente. La pubblicazione del dibattito aveva anche un altro grande significato. Infatti, come sottolineava la stessa Montessori, sia per l’alto livello espresso sia per l’argomento trattato testimoniava e rendeva noto al grande pubblico il grande ruolo che la donna si apprestava a svolgere in campo scientifico soprattutto in ambito sociale.

L’acceso scambio di opinioni era scaturito da un articolo[115] che aveva pubblicato il sei giugno sulle innovazioni apportate dalla Riforma. In queste colonne Montessori, probabilmente poiché da sempre impegnata nella battaglia che insieme ad altri studiosi italiani stava combattendo sia per portare l’Italia al passo con le altre nazioni e sia per vedere affermata la pedagogia scientifica, sottolineava, con l’enfasi propria delle grandi comunicatrici, che «In Italia non abbiamo più carceri pel fanciulli: lo sappia lo straniero[116].» Il merito andava riconosciuto alla Riforma che sostituendo i carcerieri con maestri elementari e personale idoneo aveva finalmente iniziato una trasformazione dei carceri in istituti di educazione basati sui principi della pedagogia scientifica.

Le sue idee politiche e la sua esperienza la portavano a sottolineare come l’intervento dello Stato fosse necessario al fine di poter superrare il limite dell’estensione, nel senso del numero di fanciulli che si era in grado di aiutare, che la struttura privata si portava con sé inevitabilmente.

Sottolineando solo gli aspetti positivi e glissando sui numerosi problemi che invece la riforma lasciava irrisolti, la pedagogista italiana finiva per porgere il fianco alle critiche più che mai fondate che Rossana muoveva a lei ma soprattutto alla riforma sulle pagine della stesso giornale[117]. Citando i dati resi noti dallo stesso Doria quest’ultima sottolineava come il numero dei riformatori fosse ancora largamente insufficiente tant’è che la metà dei ragazzi risultavano essere ancora reclusi nei penitenziari insieme ai malfattori. Inoltre mantenendo la distinzione puramente burocratica in tre diverse categorie contemplata nella Beltrami–Scalia dimostrava di non tenere in considerazione la gravità del male di cui soffriva il minorenne delinquente e quindi di non seguire i principi della pedagogia scientifica.

Il Codice penale, inoltre, rimaneva immutato per cui rimanevano perfettamente in regola l’amministrazione della giustizia penale, l’espiazione della pena, gli ordinamenti correzionali preesistenti e soprattutto le gravissime pene. Non c’era dunque da rallegrarsi per la lieve riforma portata dal Doria:

 

più organica e completa che fosse in grado di creare intorno ad non basta la sostituzione di maestri elementari,..  occorreva una riforma essi una atmosfera famigliare e operosa ben lontana, dal tipo caserma e camerate; occorre che  lentamente e quotidianamente col sussidio delle scienze mediche, essi vengano emendati, con provvida sapienza, onde togliere quelle anormalità fiorite nell’abbandono, nel cattivo esempio, nella degenerazione[118].

 

Nell’articolo di risposta a Rossana e in quelli che lo seguirono Maria Montessori precisò e rese definitivamente chiare quali erano le motivazioni di tanto entusiasmo[119]. Percepiva nella riforma la possibilità di veder trasformati i riformatori in veri e propri istituti di educazione nei quali, attraverso lo studio scientifico e diretto dei soggetti, sarebbe stato possibile una separazione razionale dei giovinetti.

La vera innovazione stava proprio nella possibilità di studiare i giovinetti criminali, di cui si sapeva poco o nulla, grazie al lavoro dei maestri e dei medici che avrebbero lavorato all’interno dei riformatori. A loro spettava ricostruire la storia biologica e sociale da affiancare allo studio individuale del bambino. Si sarebbe così evidenziato come la questione dei giovinetti criminali oltre ad essere una questione giuridica fosse anche una questione psichiatrica e pedagogica in quanto si mescolava alla questione dei deficienti e degli epilettici. Questi erano tutti gli elementi da tener in considerazione se davvero si voleva costruire una vera profilassi sociale contro la criminalità minorile. La profilassi sociale era ciò che più stava a cuore alla pedagogista romana essendo fermamente convinta che se si voleva salvare veramente l’uomo occorreva farlo partendo dal fanciullo. La sua ricetta era chiara e semplice: risalire al bambino nei modi e nei tempi appena elencati e fondare scuole che grazie ai mezzi forniti dall’igiene, dalla medicina e dalla pedagogia scientifica fossero in grado di modificare la personalità anormale. Due erano i maggiori ostacoli che si frapponevano alla realizzazione di tale progetto: trovare il personale competente e i fondi necessari. A questo proposito la Montessori chiamava in causa lo Stato in quanto veniva considerato l’unico ad essere in grado di fornire i capitali  necessari a provvedere a tutti i minorenni bisognosi.

In realtà, i germi intravisti da Montessori tali rimasero e la giustezza dell’analisi espressa da Rossana e il poco ottimismo che la accompagnava trovarono conferma negli scarsi risultati raggiunti dalla riforma Doria. Infatti, a parte qualche raro caso dove grazie alle capacità e all’intraprendenza dei singoli direttori e di privati si riuscì a superare i limiti evidenziati da Rossana, nella stragrande maggioranza dei casi la situazione rimase quella disastrosa descritta prima della riforma.

Tra le iniziative che ottennero ottimi risultati  va menzionato, come il padre di tutti gli istituti fondato sui principi di una seria e razionale profilassi sociale contro la delinquenza giovanile, il primo Asilo-scuola inaugurato a Roma da Sante De Sanctis nel gennaio del 1896 nel quale oltre a venire privilegiata l’educazione morale vi erano presenti due sezioni: una per i deficienti e una per gli anormali del contegno, del carattere e della condotta.

All’Asilo scuola occorre aggiungere l’Istituto Pedagogico Forense, una costola dell’Associazione nazionale C. Beccaria, istituito a Milano e ancora oggi esistente che già all’epoca vantava al suo interno un gabinetto antropologico per l’osservazione dei minorenni ricoverati.

Affianco a questi due istituti occorre, a mio avviso, menzionare l’esperimento tutto italiano delle Navi-Asilo[120] che Ferrari, dati i risultati ottenuti considerava, insieme alle Colonie libere, la forma di assistenza ai giovanetti criminali che aveva prodotto i maggiori risultati. Queste navi-asilo risultavano particolarmente adatte per qui fanciulli che intelligenti e vivaci ma mobili di sentimento, desiderosi di tentare le vie della vita, avevano trovato le porte chiuse o inadatte ed erano, così, finiti ad ingrossare le vie della criminalità. La vita della nave dove i limiti imposti dalla superficie della barca stessa, la disciplina e l’ambiente salubre “parlano” direttamente al subcosciente dei fanciulli[121]. Al di là della teoria proposta dal Ferrari la validità di tale forma di assistenza viene testimoniata dal passaggio, nel 1924, di queste navi dalla dipendenze del Ministero del Lavoro a quelle della Marina[122].

 

 

Le prime classificazioni nel campo della delinquenza minorile.

 

Se tutti gli addetti ai lavori si trovavano d’accordo nel ritenere necessaria e urgente, ai fini di una rieducazione e di una profilassi mirata, una classificazione dei minorenni condannati, gli ostacoli da superare non erano di certo pochi. La diffusione delle teorie elaborate da Lombroso avevano determinato in campo penale la messa al centro della scena del reo. La ragione di fondo, condivisa sia dalla scuola positiva sia da quella classica, andava ricercata nel desiderio di riuscire ad attuare una vera profilassi che fosse in grado di proteggere la società da ogni pericolo. Il perseguimento di tale fine aveva portato l’antropologo piemontese e la sua scuola  ad affermare un uno stretto legame tra patologia e reato, e rieducazione. In questa ottica diventava importante indagare chi il reo fosse per poter poi modificarlo grazie alla rieducazione e renderlo innocuo per la società e possibilmente produttivo.

Se il legame tra patologia e reato si modificò e si arricchì di nuovi significati grazie agli studi successivi, la profilassi e la rieducazione rimasero invece una il fine e l’altra il mezzo attraverso il quale realizzarlo delle diverse teorie elaborate.

All’apporto dato da Lombroso allo studio dei giovani criminali si affiancava quello dell’appena nata psicologia degli anormali. Nonostante questa nuova ondata di interesse, essendo quella che oggi chiameremmo psicologia dell’età evolutiva, ancora una scienza giovane, come osservava Antonietta Martinazzoli, uno profonda conoscenza dei giovinetti criminali era ancora ben lontana da essere raggiunta[123]. Mancava anche un vero accordo scientifico per cui i pochi dati a disposizione erano, nella maggior parte dei casi, il frutto dell’osservazione di singoli studiosi ognuno dei quali faceva uso di metodi, criteri e denominazioni proprie. Dati tali precedente diventava praticamente impossibile riuscire a stilare un’unica classificazione.

Nonostante i numerosi punti di scontro la maggior parte di coloro che si occupavano della gioventù traviata erano propensi a far rientrare i minorenni delinquenti nella categoria dei così detti anormali e più precisamente negli anormali del contegno, del carattere e della condotta. Basandosi su un criterio empirico venivano chiamati delinquenti, giovinetti criminali, amorali, anormali i fanciulli che, come ben sintetizzava Montesano, avevano «un difetto, un’anomalia in genere più o meno grave della tendenza al rispetto delle leggi, dei costumi delle usanze, manca o è molto debole, o è pervertito il sentimento del dovere imposto dalla convivenza sociale, senza che sia necessariamente alterata in grado corrispondente la capacità intellettuale[124].» Leggendo tra le righe di questa definizione emergevano le grandi innovazioni teoriche grazie alle quali era diventato possibile pensare ad un nuovo approccio educativo. Infatti per la prima volta veniva sostenuto che non vi era un corrispondenza diretta tra l’alterazione del senso morale e la capacità intellettuale. Alcuni autori come Ferrari e De Sanctis si spingevano oltre e arrivavano a sostenere che l’anormalità morale fosse compatibile con un completo sviluppo intellettuale. Inoltre la delinquenza ora veniva considerata in rapporto sia alla legge morale che ogni società si dava sia alla natura del fanciullo.

Come sottolineava la Martinazzoli[125] era stato grazie agli studi della psicologia dell’infanzia che si era dimostrato che il bambino, fino all’incirca al raggiungimento del settimo anno di età, non possedeva ancora i poteri psichici atti alla formazione dei principi regolatori della condotta i quali si formavano progressivamente solo a partire dall’adolescenza e la cui evoluzione si considerava conclusa verso i 18 anni. Durante la prima fase il bambino veniva dunque considerato come un amorale mentre se dimostrava incapacità di seguire la condotta morale della società in cui viveva non trovando un equilibrio tra le tendenze egoistiche e altruistiche, nell’arco di tempo compreso tra i 7 e i 18 anni, veniva definito delinquente.

 

Concepito in tal modo, il fenomeno della delinquenza giovanile forma allora un capitolo della patologia generale del senso morale. Esso ha quindi carattere essenzialmente psicologico, fa parte della patologia della personalità umana, in quanto l’organismo psichico del fanciullo, che nella media ci presenta a quella data età quella data formazione di sentimenti e idee morali, nei soggetti delinquenti non ce la presenta del tutto o ce la presenta con alterazioni o deviazioni. Il delinquente è pertanto un anormale poiché ci presenta tale arresto o deviazione[…][126].

 

Attorno alla definizione di anormale si era generata non poca confusione dovuta principalmente ai diversi significati che le venivano attribuiti tanto è vero che De Sanctis, nella relazione per la commissione nominata da l’On. Orlando, sentiva l’esigenza di fare un po’ di chiarezza fissando il concetto pratico dell’anormale in uso in Italia[127]. Veniva considerato anormale il fanciullo perché o anormale dell’intelligenza (debole di mente, difettivo di intelligenza, tardivo, deficiente) o anormale del carattere(del contegno del senso morale e della condotta) o anormale sensoriale (sordastri, ipofasici, audimuti, balbuzienti ecc.).

In Italia, a differenza della Francia dove con il termine anormale si comprendevano i difettivi sensoriali, dell’intelligenza e del senso morale, veniva usato convenzionalmente in senso restrittivo solo per indicare gli anormali del carattere. Con il termine deficiente si intendevano solamente i deboli di mente. Secondo De Sanctis era proprio tra la moltitudine soprattutto degli anormali del contegno, del carattere e della condotta che si trovavano i futuri adolescenti e giovani criminali che nella classificazione di A. Martinazzoli rientravano nella categoria dei “pseudo-delinquenti” e dei delinquenti neuropatici.

La classificazione di Martinazzoli, come quella di De Sanctis e Ferrari, aveva come punto di inizio quella che lo stesso psichiatra reggiano definiva la prima e più essenziale divisione: distinguere nella massa  degli anormali del carattere con tendenze criminali coloro che soffrivano anche di malattie mentali da coloro che non presentavano nessun altra anormalità all’infuori della tendenza a vivere oltre i confini stabiliti dalla legge[128]. Nel primo gruppo venivano inseriti coloro che presentavano un traviamento morale collegato con forme di nevrosi tali che, ad un esame degli atti criminosi commessi, risultava evidente come fossero l’effetto dell’alterato funzionamento fisiologico e psichico causato dalla stessa malattia mentale. La cura di questi delinquenti frenastenici, psicopatici e neuropatici spettava agli istituti medico–pedagogici e ai manicomi criminali. Interessante da notare come l’epilessia, inserita tra le malattie legate alla nevrosi, fosse considerata, insieme all’alcolismo, una delle cause maggiori della delinquenza. Dalle case di educazione per giovinetti rei dovevano essere esclusi anche coloro che solo sporadicamente avevano violato la legge morale ma che non avevano le caratteristiche proprie dei veri ragazzi criminali i così detti pseudo-delinquenti o falsi anormali per evitare che venissero mescolati con i veri anormali moralmente e da loro contagiati.

L’ influenza esercitata da Lombroso e dal filone legato allo studio degli anormali nel campo dei giovani criminali lasciava la sua traccia anche nelle prime classificazioni. Chi si ispirava al modello proposto dall’antropologo piemontese e dalla sua scuola, come il Dr. Adolfo Lepri  ufficiale volontario del Patronato fondato da Miss. Barlett a Roma, proponeva una distinzione in quattro categorie dove il livello di delinquenza e la possibilità di una futura rieducazione venivano fatte risalire sia alle caratteristiche fisiologiche e psichiche dell’individuo sia all’influenza che l’ambiente esercitava sullo stesso individuo.

La prima categoria comprendeva i delinquenti nati fanciulli che presentavano una vera tendenza innata o acquisita a commettere un reato. La seconda i ”criminaloidi” ragazzi che più che una tendenza al delitto avevano una predisposizione al vagabondaggio e all’ozio. L’occasione era la molla determinante che li aveva spinti al delitto la prima volta la quale, però, molte volte non rimaneva un fatto isolato ma le poteva far seguito una seconda. La terza categoria era rappresentata da coloro che avevano come unica tendenza quella di essere facilmente suggestionabili dai compagni. Questa loro “passività” veniva testimoniata dalle condanne a loro inflitte per complicità o perché ricettatori. Questi, da delinquenti occasionali, molte volte finivano per diventare abituali e rientrare così nei delinquenti per abitudine acquisita. Nella quarta e ultima categoria rientravano coloro che caduti una volta in fallo a causa della suggestione di una cattiva passione o di cattive compagnie quasi certamente non sarebbero diventati recidivi. Il numero dei membri di ogni categoria e l’effetto che l’assistenza aveva su di loro cresceva progressivamente partendo dalla prima a cui apparteneva un numero esiguo di fanciulli e dove ogni tentativo di assistenza si dimostrò vano, passando per la seconda più numerosa e ancora difficile da educare, giungendo alla terza dove l’assistenza aveva degli effetti positivi sulla maggioranza dei bambini e a cui appartengono la maggior parte dei giovinetti criminali. Infine vi era la quarta categoria dove la rieducazione otteneva i migliori risultati[129].

A questo tipo di classificazione se ne affiancava una che, pur ritenendo di basilare importanza per lo studio della delinquenza minorile sia l’elemento individuale sia quello ambientale, non li considerava, però, sufficienti per la completa spiegazione del fenomeno dei giovinetti criminali. La posizione di questo gruppo di studiosi, molti dei quali o lavoravano nel campo degli anormali o ne avevano una profonda conoscenza, si riconoscevano nei criteri di classificazione esposti da Antonietta Martinazzoli sulla «Rivista italiana di sociologia[130].» La Martinazzoli, considerando la natura intrinseca del senso morale e l’insieme del processo psichico che è necessario per costituirlo il fenomeno più caratteristico nell’ambito della genesi della delinquenza minorile in quanto elemento autonomo e immediato, proponeva una classificazione che aveva come peculiarità quella di essere basata su diversi tipi psicologici[131]. Le ragioni di tale convinzione andavano ricercate, probabilmente,nelle nuove teorie nate dallo studio degli effetti che le emozioni e le rappresentazioni mentali avevano sui meccanismi fisiologici che, proprio in quegli anni, si andavano diffondendo. I risultati di queste ricerche facevano infatti supporre che, più spesso di quanto si fosse fino a quel momento supposto, fosse lo stato psichico ad influenzare quello fisiologico e che quindi le rappresentazioni ideali potessero produrre alterazioni funzionali. Attraverso la ripetizioni e l’automatismo tali alterazioni funzionali si fissavano negli organi fino ad assumere carattere di permanenza e quasi di nativismo[132].

Nella classificazione ideata da Martinazzoli la delinquenza, considerata come una deviazione dello sviluppo psichico in rapporto con la costituzione ereditaria del fanciullo e dell’ambiente, assumeva indirizzi diversi secondo quattro principali modi: la violenza, il furto, il pervertimento sessuale e il vagabondaggio[133]. Gli studi di antropologia e di psicologia criminale avevano infatti evidenziato come a forme di delinquenza diverse corrispondessero tipi psicologici diversi e quindi la necessità di trattamenti diversi. Tipi e tendenze particolarmente facili da evidenziare soprattutto nei fanciulli dove si presentano negli stadi primi e più semplici. La classificazione oltre ad avere un importanza prettamente teorica ne aveva una anche pratica fungendo da base per le regole di una corretta rieducazione. A tal fine Martinazzoli, tenendo in considerazione la grande influenza che la suggestione e l’età quando era soprattutto collegata con la pubertà avevano sul processo rieducativi, inseriva, a completamento della sua classificazione, delle sotto categorie. In ciascun gruppo occorreva così dividere i fanciulli secondo sia lo sviluppo psichico individuale raggiunto sia  tenendo in considerazione le alterazioni che tale sviluppo faceva registrare a causa  della  crisi organica pre-puberale e puberale. All’interno di ogni categoria, per evitare la contaminazione tra i diversi gradi della stessa forma di delinquenza, occorreva distinguere i tre gradi della deviazione morale raggiunta: il minimo, il medio e il superiore. Chi veniva considerato corrotto secondo tutte le forme del vizio e irrimediabilmente anti-sociale veniva inserito nei diversi gruppi misti[134].

 

 

Le cause della delinquenza dei minorenni

 

All’epoca come ora, lo studio delle cause che stavano alla base della criminalità minorile ricopriva un ruolo centrale data l’importanza che gli veniva riconosciuta, sia per la comprensione e la conoscenza del fenomeno stesso, sia per la progettazione di un’opera di profilassi e di rieducazione. Nato da un esigenza di tipo scientifica, la scienza, infatti, per sua natura è votata alla ricerca delle cause, è andato sempre di più acquistando una funzione di tipo giuridico e pedagogico a mano a mano che veniva riconosciuta dagli addetti ai lavori la necessità di conoscere il reo e la sua situazione esistenziale prima di impostare qualsiasi tipo di intervento. E’ dunque grazie al grande  sforzo dell’ indagine eziologica sostenuto dalle diverse scienze che il giovanetto passava ad essere considerato  una vera e propria vittima di condizioni bio-psico-sociali negative e non più un criminale nato o un fanciullo “cattivo” meritevole di essere punito in quanto unico responsabile dei suoi atti. Nell’ambito dello studio della criminalità minorile al discorso eziologico va dunque riconosciuto il grande merito di avere avuto una rilevanza  storica poiché non solo prettamente scientifica ma anche morale e sociale[135].

L’analisi dello studio delle cause, risentendo dell’influenza delle teorie di Lombroso si era, all’epoca, concentrata soprattutto su fattori che, a grandi linee, possono essere considerati appartenenti all’ordine biologico e sociale. A questi si aggiunse, grazie all’inserimento degli studi psicologici nel campo dei giovinetti criminali, quello psicologico.

 

Fattori biologici

 

L’elaborazione della teoria de l’ atavismo e del “criminale nato”, da parte della scuola positiva, aveva finito per dare un grande impulso allo studio dei  fattori  “interni” e soprattutto biologici. Studi che col passare degli anni, messo da parte l’atavismo, nel campo della criminologia, ma non solo, si erano concentrati soprattutto sul determinismo bio-patologico.

Quelle che venivano considerate dagli addetti ai lavori come  le principale cause biologiche venivano così sintetizzate da De Sanctis nella relazione esposta alla Commissione reale nel 1910[136]: una speciale fragilità organica ereditaria o semplicemente congenita, del fanciullo o dell’adolescente; una malattia fisica o mentale, ovvero una intossicazione che sorprenda il fanciullo dopo la nascita; il periodo puberale. Le indagini svolte sui giovinetti criminali avevano messo in evidenza come molti di loro presentassero segni di debilitazione e di dissolvenza della personalità fisica e psichica causati da ereditarietà neuropatica, psicopatica e tossica.

Interessante da notare come molti studiosi, tra i quali, oltre allo stesso De Sanctis, Lombroso, Ferri e Morselli stabilivano un rapporto diretto fra  l’abuso di alcool e l’incremento della criminalità. Infatti pensavano che l’alcolismo agisse come volano per la delinquenza in due modi: come agente degeneratore  della stirpe,( anche se non vi erano ancora prove concrete al riguardo) tra i giovinetti criminali si trovavano spesso figli di alcolizzati, e come intossicazione vera e propria avente una grande influenza sulla condotta dei giovani e degli adolescenti[137].

Agli effetti dell’alcool andavano aggiunti quelli causati dalle malattie che colpivano i fanciulli durante l’infanzia e l’adolescenza. A questa categoria appartenevano sia le malattie generali, che indebolendo l’organismo, incidevano direttamente o indirettamente sulle resistenze psicologiche o morali, sia quelle che colpivano direttamente il sistema nervoso. La demenza, le varie forme della frenastenia, l’epilessia e l’epilettoidismo erano considerate dagli studiosi le più frequenti[138].

Gli studiosi che si erano impegnati nello studio delle cause della criminalità minorile non avevano potuto non notare il cambiamento del carattere che l’avvento della pubertà determinava nel fanciullo. La crescita del corpo che determinava un indebolimento organico, la sviluppo della sessualità e la nascita de desiderio dell’uso di sostanze tossiche erano considerati dagli studiosi i mutamenti interiori dai quali nasceva la tendenza ad una condotta amorale del ragazzo. Tale mutamento, comune a tutti i ragazzi, portava a sviluppare delle attitudini delinquenziali soprattutto in coloro che soffrendo di malattie innate o acquisite non erano in grado di opporre le forze necessarie per contrastarlo[139].

 

Fattori sociali

 

La maggior parte degli studiosi che si erano applicati soprattutto all’approfondimento degli effetti dei fattori biologici riconosceva, però, l’importanza dell’influenza che l’ambiente sociale aveva per lo sviluppo della criminalità giovanile tanto da considerare necessario, per la piena comprensione del fenomeno della criminalità, uno studio che tenesse conto di entrambi i fattori.

Alla famiglia, nell’ambito del cause sociali della delinquenza minorile, veniva riconosciuto dai ricercatori un ruolo centrale sia per gli effetti negativi che genitori traviati o poco responsabili potevano direttamente esercitare sulla loro prole sia per le conseguenze nefande che la disgregazione dei nuclei famigliari, registratasi dagli inizi del ’900, aveva avuto sull’educazione dei figli. Se nei Congressi penitenziari internazionali di fine Ottocento l’analisi si era appuntata, principalmente, sul primo fattore citato, a partire dai primi del Novecento gli studiosi si erano concentrati maggiormente sulle cause e sugli effetti della disgregazione dei nuclei famigliari.

Le indagini avevano evidenziato come tale disgregazione fosse una conseguenza del processo di industrializzazione verificatosi in Italia agli inizi del secolo scorso[140]. Lo sviluppo di tale processo aveva avuto, come effetto immediato, l’entrata stabile nel mondo del lavoro di categorie che fino a quel momento erano state escluse quali le donne e i bambini e un incremento notevole dell’orario di lavoro costringendo sia gli uomini sia le donne a trascorrere la maggior parte della giornata, e a volte settimane o mesi, lontano dalle mura domestiche. Il bambino si trovava, così, a trascorrere quasi tutto il giorno in strada abbandonato a se stesso e privo della protezione e della guida morale dei genitori. Il fanciullo, senza più una guida in grado di indirizzarlo, quando commetteva degli atti delinquenziali non faceva altro che reagire seguendo le leggi di formazione proprie della sua età. Il lungo tempo trascorso in strada dai giovinetti, inoltre, non faceva altro che sottoporli maggiormente agli effetti rischiosi della suggestione e della associazione che erano tra le cause maggiori di corruzione.

Ferrari, a differenza della maggior parte di coloro che si occupavano di criminalità minorile che consideravano il binomio “industrializzazione-disgregazione nucleo famigliare” valida solo per le famiglie povere, pensava invece che i cambiamenti socio-economici di inizio secolo avessero fatto sentire il loro peso anche sulla criminalità giovanile nelle classi ricche[141]. La “modernità”, a suo parere, aveva determinato un aumento di impegni sociali sia per gli uomini, impegnati a svolgere cariche pubbliche e a fare sport, sia per le signore, occupate nelle opere di assistenza e di beneficenza. All’aumento di impegni da parte dei genitori si sommava  l’uso eccessivo di governanti così i fanciulli benestanti finivano per trascorrere la maggior parte del loro tempo lontani dai loro genitori come i giovinetti poveri. Questo nuovo stile di vita adottato dalle classi abbienti aveva determinato nell’ambito dei rapporti interfamigliari la perdita del rispetto e dell’autorità paterna. Molti si occupavano dei fanciulli ma nessuno si curava di comprenderli e di amarli in maniera intelligente finivano così per crescere come estranei nella loro stessa famiglia[142].

Se l’industrializzazione aveva determinato dei cambiamenti radicali nello stile di vita non di peso minore furono i numerosi mutamenti che la diffusione dei principi del positivismo causarono in quell’epoca in Italia. La diffusione di tali principi aveva finito, infatti, per mettere in discussione gli ideali e i valori sia etici, sia sociali, sui quali la società italiana si era basata fino ad allora. Chi si occupava di delinquenza minorile non esitava ad inserire, tra le cause che favorivano lo sviluppo della criminalità, proprio i mutamenti dovuti alla messa in discussione della scala dei valori sociali ed etico-religiosi. Nell’ordine dei valori sociali sembrava aver inciso su l’incremento della delinquenza soprattutto la diminuzione del principio di autorità e di disciplina e la mancanza di nuovi ideali sostitutivi. Per quanto riguardava, invece, il campo etico-religioso era la messa in discussione dei valori religiosi e soprattutto la loro negazione che faceva sì che i giovinetti andassero ad ingrossare le fila della criminalità. Tra i paladini di quest’ultima teoria si segnalavano soprattutto De Sanctis e Fouillé. Pur considerando entrambi valido il binomio caduta dei valori religiosi- aumento della criminalità i due  muovevano da punti di vista diversi: il primo, infatti sosteneva che la caduta del sentimento religioso, privando il sentimento etico puro dei suoi mezzi di penetrazione tradizionali, rendeva difficile l’organizzazione del sentimento etico stesso nella personalità in formazione dei giovanetti[143]. Il secondo, invece, sosteneva che venendo meno il sentimento religioso veniva a mancare la funzione di freno che la religione svolgeva fornendo conforto morale e considerando inutile la ricerca dei mezzi di godimento e di distrazione. Inoltre la fede in un migliore avvenire rendeva più facili da sopportare i disagi e le contrarietà[144].

De Sanctis e Fouillé erano tra coloro che sostenevano l’influenza negativa che la libertà di stampa poteva avere sui fanciulli e alla quale lo psichiatra romano aggiungeva la libertà di parola e  quella dell’arte e soprattutto dell’immagine.

A Ferrari va, invece, riconosciuto il merito di avere messo in evidenza l’influenza che il cinematografo aveva sui ragazzi e l’importanza enorme che poteva avere come agente di criminalità

 

sia per la speciale suggestione che esercitano le proiezioni date le condizioni fisiche e psichiche in cui si trova l’osservatore, sia per il pessimo repertorio di proiezioni che vengono presentate nei cinematografi popolari più a buon mercato sia infine perché la manualità necessarie per le proiezioni sono ormai così semplici che possono essere disimpegnate ottimamente da ragazzi[145].

 

Tra le cause da cui potevano scaturire degli atteggiamenti criminali venivano annoverate anche la povertà e la miseria. Una inadeguata alimentazione, il mancato soddisfacimento dei bisogni basilari e l’estrema ristrettezza degli alloggi finivano, infatti, per avere un’incidenza negativa sullo sviluppo organico, fisico e mentale e quindi anche sulla formazione del carattere e della personalità.

Pareri contrastanti venivano, invece, espressi dal ruolo attribuito all’istruzione nell’ambito della questione della criminalità giovanile. Come osservava Montesano non erano pochi coloro che indicavano l’istruzione come una delle cause dell’aumento della delinquenza verificatosi in quegli anni:

 

Fra costoro notiamo Fouillé, Ferrigni, Tallock, Lombroso, Richard, Grant Withc, Haussonville, Reece, Harding Davis, Schelorn, ecc. gli argomenti, che costoro adducono, si risolvono nell’affermazione che l’istruzione per sé non solo non modifica le tendenze preesistenti, ma crea bisogni nuovi, suscita appetiti che nella vita possono essere facilmente soddisfatti; si formano così degli spostati, i quali non potendo raggiungere coi mezzi ordinari i loro intenti, ricorrono ad atti delinquenziali. Quando poi un soggetto avesse già per sé tendenze antisociali, l’istruzione agirebbe perniciosamente anche per il fatto di rendere più facile la ricerca del mezzo più opportuno per soddisfarle. L’istruzione avrebbe perniciose conseguenze anche per l’aumento non lieve della produzione e della diffusione delle opere di stampa verificatosi da qualche tempo a questa parte: i fanciulli istruiti avendo continua occasione di leggere cattivi o libri, apprendere dai giornali fatti immorali, avrebbero una spinta al delitto che mancherebbe agli analfabeti[146].

 

Attraverso una critica all’istruzione i vari Lombroso, Ferriani e Fouille sollevavano uno dei problemi più discussi ancora oggi: gli effetti perniciosi, come li definiva De Sanctis, della libertà di stampa sui fanciulli.

 

Fattori psicologici

 

Il rapporto tra la debolezza intellettuale e la criminalità minorile è stato uno dei primi fattori appartenenti all’area psicologica ad essere studiato. La ragione di tale interessamento va probabilmente ricercata dal fatto di collocarsi in una posizione limite tra i fattori organici e quelli psicologici. Come notato in precedenza, la maggior parte di coloro che si occupava di criminalità minorile aveva escluso, dalla categoria della delinquenza minorile, coloro che erano affetti da forme molto gravi di chiara matrice costituzionale perché ritenuti di competenza di altre branche della scienza. A questa categoria veniva affiancata quella che comprendeva i fanciulli che presentavano una debolezza mentale che però non andava a pregiudicare in maniera “determinante” lo sviluppo psico-sociale del bambino. Numerose ricerche avevano evidenziato come la debolezza intellettuale, mancando le capacità indispensabili a regolare il comportamento individuale, predisponesse alla moralità e alla delinquenza giovanile. Chi aveva sondato accuratamente la sfera intellettiva dei giovinetti criminali era stata Martinazzoli. In linea con gli approfondimenti fatti in precedenza i suoi studi avevano rilevato come la maggior parte dei fanciulli evidenziassero un funzionamento parziale e insufficiente dell’intelligenza che, a livello pratico, si esplicava in un senso critico povero e in una riflessione poco acuta e approfondita. La studiosa non si limitava, però, ad attribuire la ragione di tale mediocrità, al solo all’elemento costitutivo, ma, prendendo spunto dalle statistiche pubblicate all’epoca, evidenziava la grande influenza che il basso livello culturale giocava nell’evoluzione intellettuale del fanciullo delinquente.

 

La concomitanza dei due fenomeni è troppo eloquente: il mancato esercizio regolare dell’intelletto per mezzo dell’istruzione genera anzitutto errori funesti di concetto delle cose, e diviene poi fattore di intorpidimento ed involuzione intellettuale; perciò concorre a tenere l’intelligenza nei gradi più inferiori del suo sviluppo[147].

 

[1] Tale articolo era già stato pubblicato nel 1876 sulla Rivista «Revue philosophique» con il titolo Sur l’acquisition du langage chez les enfants et dans l’espèce humaine.

[2] Cfr. A. Lucarelli ( a cura di), Psicologia dello sviluppo: le origini, Firenze, Giunti, 1993.

[3] Granville Stanley Hall (1844-1924) Al suo nome e al suo operato sono indissolubilmente legate le tappe che hanno portato al riconoscimento istituzionale della allora giovane psicologia americana. Fu il primo studente americano a recarsi in Germania a studiare nel laboratorio di Wundt. Al suo rientro negli Stati Uniti seguendo la scia degli studi fatti a Lipsia fondò nel 1884 a Baltimora presso la Johns Hopkins University il primo laboratorio di psicologia. Nel 1887 diede vita a l’American Journal of Psycology la prima rivista del suo genere. Nel 1892 fu il primo presidente de l’American Psychological Association.

[4] James Mark Baldwin (1861-1934) Non molto conosciuto tra gli psicologi europei divenne misconosciuto anche negli Stati Uniti dopo che nel 1909 fu costretto a lasciare l’incarico di professore alla John Hopkins University a causa di uno scandalo legato alla sua vita privata. Ciò nonostante, alla luce delle ricerche storiche recenti, si può affermare che la sua opera influenzò Janet, Piaget e Vygotskij Recatosi anche egli a studiare in Germania prima a Berlino da Friederich Paulsen e poi a Lipsia da Wundt  tra il 1884 e il1885 al suo rientro nel 1889 conseguì il dottorato di filosofia all’università di Princetown. Nel 1893 ottenne la cattedra di metafisica e logica a Toronto e qui fondò il primo laboratorio di psicologia canadese. Le sue opere maggiori furono quelle che videro la luce negli ultimi anni dell’Ottocento. Nel 1895 usci il libro Mental development in the child and the race al quale nel 1896 fece seguito l’articolo A new factor in evolution. Nel 1898 pubblicò in due volumi Dictionary of philosophy and psychology.

[5] Cfr. L. Mecacci, Storia della Psicologia …, op. cit. pp. 258-253.

[6]Cfr. R.Luccio, Le origini della psicologia, in Storia della psicologia,( a cura di) Paolo Legrenzi, Il Mulino, Bologna, p. 68.

[7]Cfr. V.P. Babini, La questione dei frenastenici, op. cit. pp. 38-39.

[8] L. Ferri, Osservazioni e considerazioni sopra una bambina, Filosofia delle scuole italiane, 1879-1881; C. Ricci, L’arte nei bambini, Bologna, Zanichelli, 1887.

[9] Cfr. V. P. Babini, La questione…, op. cit., pp. 40-48.

[10] Ibidem,pp. 40-48.

[11] Cfr. V. P. Babini, La questione…., op. cit., pp. 49-57.

[12] Cfr. G. Sergi, Di un gabinetto antropologico per le applicazioni pedagogiche,in ‹‹ Rivista di Pedagogia italiana››, anno I, N.2, 1886.

Giuseppe Sergi fu il primo in Italia a sostenere e a cercare di introdurre la psicologia nelle scuole e corsi di formazione per il corpo degli insegnanti. Era un grande sostenitore della necessità di impartire un’educazione che avesse un orientamento antropologico e per divulgare questo suo pensiero si impegnò costantemente durante tutto l’arco della sua vita.

[13] Cfr. G. Sergi, Educazione ed istruzione , Milano, Trevisini, 1892.

[14] Cfr. V. P. Babini, La questione…., op.cit., p.29.

[15] Cfr. D. Frigessi, La scienza della devianza. Introduzione., in C. Lombroso, Delitto, Genio, follia, Torino, Bollati Borringhieri, 1995, pp. 333-373.

[16] Cfr. V. P. Babini e L. Lama , Una ‹‹Donna nuova››, Milano, FrancoAngeli, 2000, p. 56.

[17] Cfr. G. C. Ferrari, L’assistenza dei fanciulli deficienti in Italia, in ‹‹ Rivista sperimentale di Freniatria››, ora in Scritti di Pedagogia, op. cit., pp. 299-300.

[18] Cfr. V. P. Babini, La questione ..,.op.cit, p. 76.

[19] Ibidem, pp. 59-60.

[20] G. C. Ferrari L’assistenza dei fanciulli deficienti in Italia, in «Rivista di Freniatria», Reggio Emilia, 1903, ora in Scritti di pedagogia ..cit. pp. 299-306.

[21] Ibidem, p. 301.

[22] V. P. Babini, La questione…, op.cit., pp. 82-84.

[23] Ibidem, p.83.

[24] Ibidem, p.83.

[25] Cfr. V. P. Babini e L. Lama, ‹‹Donna nuova››, op. cit., pp. 60-64.

[26] Cfr, G. C. Ferrari, Finalità e limiti dell’assistenza ai deficienti, Comunicazione al II Congresso medico-pedagogico, in ‹‹Infanzia Anormale››, Milano, 1930, ora in Scritti di pedagogia…, op.cit. p. 341.

[27] Cfr. ibidem, Presentazione, p. XIII.

[28] Cfr. V.P. Babini La questione dei frenastenici, op.cit. ,pp.87- 90 e G. C. Ferrari, L’assistenza dei fanciulli…, op. cit., pp. 299-306.

[29]Ibidem, pp. 299-306.

[30] Cfr.V. P. Babini, La questione …, op. cit., pp. 91-95.

[31] Ibidem, pp. 91-95.

[32] Cfr. S. De Sanctis, Educazione dei deficienti, Vallardi, Milano, 1915, p. 99.

[33] Ibidem, 99.

[34] Cfr. S. De Sanctis, Educazione dei deficienti, op. cit. p. 4.

[35] Cfr. G. C. Ferrari, L’assistenza dei fanciulli…, op. cit., pp. 302-310.

[36] Ibidem, pp. 302-310.

[37] Ibidem, p. 302.

[38] Cfr. G. Mucciarelli, Presentazione, in Scritti di…, op. cit., p. XII.

[39] Cfr. Sante De Sanctis, Educazione dei deficienti, op cit. pp. 5- 7.

[40] Cfr. V. P. Babini, La questione…, op. cit., p. 112.

[41] Ibidem, p. 113.

[42] Ibidem, pp. 113-114.

[43] Ibidem, pp. 120-125.

[44] Cfr. G. C. Ferrari, L’assistenza dei deficienti…, op. cit., p. 304.

[45] Ibidem, p. 304.

[46] Ibidem, p. 305.

[47]Ibidem, pp. 304 –306.

[48]  I dati riportati nelle pagine seguenti sono quelli riportati da Guarnirei- Ventimiglia in La delinquenza e la correzione dei minorenni, Roma-Torino, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, 1906, pp. 43-127.

[49]Ibidem, p. 114.

[50] Gabriel Tarde nacque a Sarlat nel 1843 e morì a Parigi nel 1904. Sociologo francese è considerato il fondatore della psicologia sociale della folla. Si interessò di criminologia comparata. A tale riguardo scrisse, nel 1890, La filosofia penale al cui centro vi era il tentativo di dimostrare l’erroneità della teoria di C. Lombroso sulla ereditarietà dei fattori criminogeni.

[51] Cfr. A. Guarnieri-Ventimiglia, La delinquenza e la correzione dei minorenni, op.cit., pp. 1-15, 165-166.

[52] Cfr. P. Bertolini, Il problema della gioventù socialmente disadattata, in Problemi sociologici, Vallardi, Appiano Gentile Como, 1972, p.403.

[53] Ibidem, p. 403.

[54] Ibidem, p. 404.

[55] Ibidem, p. 404.

[56] Il Codice penale italiano riportato è cfr., Guarnieri-Ventimiglia, La delinquenza.., op. cit., pp. 29-31.

[57] Cfr. La scienza della devianza a cura di Delia Frigessi, in Delitto, Genio, Follia, op. cit., pp. 357-361.

[58] I sostitutivi penali indicati da Ferri furono pubblicati per la prima volta nel 1880 in Dei sostitutivi penali. L’elenco, poi ripreso nell’edizioni successive, comprende tra gli altri: il libero scambio, le opere pubbliche, gli stipendi proporzionati ai bisogni, il divorzio e l’educazione dell’infanzia.

[59] Cfr. G. Montesano, pp.133-134.

[60] Ibidem, pp.134-135.

[61] Ibidem, p.135.

[62] Cfr. D Fregessi, Delitto,…, op.cit., pp. 357.

[63] Cfr. G. C. Ferari, Osservazione di minori inquisiti o di condotta irregolare, in ‹‹Rivista di Psicologia, 1932, p. 103.

[64] Cfr. Guarnirei-Ventimiglia, La delinquenza…, op.cit., pp. 33-34.

[65] Cfr. Guarnire-Ventimiglia, La delinquenza…, op cit. pp. 33-34.

[66] Cfr. Relazione di S.E. il ministro Gurdasigilli Orlando a S.M. il Re.

[67] Cfr. Guarnirei-Ventimiglia, La delinquenza…, op. cit., p. 34.

[68] Cfr. G. C. Ferrari, L’O. N. M. I. e i fanciulli cosidetti criminali, in ‹‹Rivista di Psicologia››, Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti, 1932, p. 241.

[69] Cfr E. Majno, Il” sistema di prova” nel trattamento della delinquenza giovanile (L’esperimento in Italia), in ‹‹Rivista di Psicologia ››, Bologna,VI, 1910, p. 141.

[70] Ibidem, p. 140.

[71] Ibidem, pp. 141-142.

[72] Ibidem, pp. 148-150.

[73] S. De Sanctis, Date memorabili nell’assistenza dei minorenni traviati e delinquenti in Italia, in ‹‹L’Igiene Mentale››, Firenze, fasc.1, 1935.

[74] Cfr.Orlando, Relazione di S. E…, op.cit., pp. 8-13.

[75] Cfr. G. Montesano, Amorali.., op.cit, p. 157.

[76] Cfr. Notizie:Per l’infanzia criminale, in ‹‹Rivista di Psicologia››, 1910, p. 199.

[77] Ersilia Bronzini in Majno (1859-1933). Nata a Milano fu costretta ad interrompere gli studi appena terminate le scuole primarie a causa delle precarie condizioni economiche del padre che consentivano la laurea ai soli figli maschi. Nel 1883 sposò l’avvocato Luigi Majno, difensore degli operaisti al processo del 1887 e deputato socialista dal 1900 al 1904. Fin dalla fine dell’Ottocento Ersilia Bronzini si dedicò all’organizzazione e alla sensibilizzazione del proletariato femminile a Milano, iniziando così a ricoprire un ruolo di primaria importanza nell’ambito dell’attività assistenziale e sociale milanese. L’assidua frequentazione della guardia ostetrica di Milano si rivelò determinante nell’accelerare in lei un processo interiore che la portò a decidere di lavorare socialmente al fianco del proletariato femminile, senza perdere mai di vista la specificità della questione femminile all’interno della più generale questione operaia. Nel 1984 s’iscrisse all’Associazione generale di mutuo soccorso, fondata da Laura Solera Mantegazza. Fu in quegli anni la fondatrice della Lega per la tutela degli interessi femminili. A seguito dei sanguinosi scioperi verificatisi a Milano nel maggio del 1898, fondò il Comitato pro reclusi del maggio insieme ad A. Ravizza, E. vonwiller Gessner, A. Negri e altre.

Nel 1899, sotto suo impulso, fu costituita l’Unione Femminile e inaugurata nel 1900. Nel 1901 Ersilia Bronzini assunse la presidenza della sezione milanese del Comitato italiano contro la Tratta delle bianche. Nel 1908 ne assunse la presidenza nazionale.

Nel 1902 era nato dietro la spinta della Majno l’Asilo Mariuccia, in memoria di sua figlia Maria morta di difterite. L’Asilo Mariuccia era sorto per il recupero delle giovani vittime di condizioni disagiate e di violenze familiari, già avviate alla prostituzione o pericolanti.Per ulteriori approfondimenti sull’Asilo delle Mariuccine consultare:A. Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica. L’Asilo Mariuccia, Milano, FrancoAngeli, 1998. Nel 1902 si adoperò anche per la fondazione del ricreatorio La Fraterna ideato dopo lo sciopero delle piscinine. Fino allo scoppio della prima guerra mondiale fu una presenza attiva in numerosi congressi e convegni nazionali e internazionali per la difesa dei diritti delle donne e dei fanciulli, considerati dalla Majno “i deboli, i paria, le vittime dell’egoismo e dell’ingiustizia sociale.” Negli anni successivi alla guerra si dedicò principalmente all’attività del Comitato contro la Tratta delle bianche e all’Asilo Mariuccia. Nel 1923 iniziò a ritirarsi gradatamente dall’attività pubblica anche per non appoggiare indirettamente il regime fascista. Cfr. Farina, Dizionario delle donne lombarde 1568-1968, Milano, Baldini e Castaldi, 1995.

[78] Cfr. G.C. Montesano, Amorali…, op.cit., p. 157.

[79] Ibidem, pp. 158-159.

[80] Cfr. G. C Ferrari, Per lottare contro la criminalità giovanile,in ‹‹Rivista di Psicologia››, 1921, p. 89.

[81] De Sanctis, Date memorabili…, op. cit.

[82] Cfr. G. C. Ferrari, Per lottare…, op. cit., p. 89.

[83] Cfr. G. C. Ferrari, L’O.N.M.I e i fanciulli cosiddetti criminali, in ‹‹Rivista di psicologia››, 1932, p. 241.

[84] Cfr. S. De Sanctis, Date memorabili…,op.cit., pp. 4.

[85] Ibidem, p. 4.

[86] Cfr, G. C. Ferrari, Autobiografia, op.cit., pp.27. In realtà si trattava del progetto di quello che sarebbe poi dovuto diventare il nuovo codice penale elaborato da una seconda commissione reale. Tale progetto venne battezzato codice Ferri dal nome del presidente della commissione reale Enrico Ferri.

[87] Cfr. S. De Sanctis, Date memorabili…, op.cit., pp. 4.

[88] Avvocato Camillo Cavagnari citato in Ciò che l’Italia può insegnare. L’Istituto Pedagogico Forense di Milano. G.C. Ferrari, in ‹‹Rivista di Psicologia››, 1907, pp.280, ora in Scritti di Pedagogia…, op. cit. pp. 519.

[89] Cfr. A. Martinazzoli, Per la prevenzione della criminalità giovanile, in ‹‹Rivista italiana di sociologia››, settembre-dicembre, pp. 647-649.

[90] Ibidem, pp. 647-649.

[91] Cfr. S. De Sanctis, Date memorabili…, op.cit., p. 4.

[92] Cfr. G. C. Ferrari, O. N. M. I. e i fanciulli…, op. cit., pp. 239-240.

[93] Ibidem, pp. 241-242.

[94] Ibidem, p. 241.

[95] Cfr. S. De Sanctis, Date memorabili…, op.cit., pp. 5.

[96] Ibidem, pp. 5-7.

[97] Cfr. Guarnirei-Ventimiglia, La delinquenza…,op.cit., p. 189.

[98] Cfr. G. Monteseano, Amorali…, op. cit., p. 189.

[99] Ibidem, p. 189.

[100] Cfr. Guarnirei-Ventimiglia, La delinquenza…, op. cit., p. 211.

[101] Ibidem, p. 212.

[102] Ibidem, p.212.

[103] Ibidem, p. 212.

[104] Gli otto maschili erano a: Bologna ( 130 posti), Boscomarengo (320), Napoli (250), Pisa (232), Santa Maria Capua Vetere (175), Tivoli (260), Torino (230), Urbino (136). Il totale dei posti corrispondeva così a 1733. Quello femminile era invece ubicato a Perugia e aveva a disposizione 140 posti.

[105] Ibidem, p. 216.

[106] Ibidem, p. 215.

[107]Cfr. G. Montesano, Amorali…, op. cit., p.154.

[108]La ragione per la quale era prevista la formazione di pompieri veniva enunciata da G. C. Ferrari in La Riforma dei Riformatori governativi in Italia, articolo comparso nella ‹‹Rivista di psicologia Applicata alla Psicologia e alla Pedagogia›› nel 1908 «[…]e all’istruzione di pompieri (idea quest’ultima, luminosa, poiché utilizza simbioticamente, secondo l’insegnamento del Lombroso, gli istinti del rischio, della vanità, del lavoro accessualmente intenso e così via, proprii di questi giovani) […]».

[109]Cfr. G. Montesano, Gli amorali, op. cit., p.155.

[110] Ibidem, p. 155.

[111] Ibidem, p. 155.

[112] Ibidem, p.156.

[113] Ibidem, p. 156.

[114] Rossana è lo pseudonimo con cui si firmava Zina Tartaini. Cfr. L. Lama in Una ‹‹Donna Nuova››, op. cit., nota 252, p. 186.

[115] Cfr. M. Montessori, A proposito dei minorenni corrigendi in ‹‹La Vita››, Roma, 3 giugno 1906.

[116] Ibidem.

[117] Rossana, A proposito delle case di correzione, in ‹‹La Vita››, Roma, 12 giugno 1906.

[118] Ibidem.

[119] M. Montessori, Sulla questione dei minorenni corrigendi. Risposta a Rossana, in ‹‹La Vita››, 16 giugno 1906; Ancora sui minorenni delinquenti, in ‹‹La Vita››, 6 agosto 1906; Lottiamo contro la criminalità, in ‹‹La Vita››, 8 settembre 1906.

[120] Gli unici dati inerenti alle Navi-Asilo che sono stata in grado di reperire sono quelli presenti negli articoli Comunicazioni minori, op. cit. e Psicologia applicata. Contro la criminalità minorile., ‹‹Rivista di Psicologia››, Bologna, 1922, pp. 118-125., pubblicati da Ferrari. Dai quali non mi è stato possibile evincere la data in cui furono istituite. Nel 1922 ve ne erano tre operanti: ‹‹Carracciolo›› a Napoli diretto dalla signora Levi Civita, ‹‹Scilla›› a Venezia e ‹‹Redenzione›› a Genova sotto la guida di Garaventa.

[121] G. C. Ferrari, Comunicazioni minori. La funzione sociale delle Navi-Asilo in Italia., in ‹‹Rivista.››, op. cit. , pp. 513-514.

[122] Ibidem, p. 513.

[123] Cfr. A Martinazzoli, Per la prevenzione della criminalità minorile, in ‹‹Rivista italiana di sociologia››, settembre-dicembre 1909.

[124] Cfr. Montesano, Amorali…, op. cit.

[125] Cfr. A. Martinazzoli, Per la prevenzione della criminalità minorile, in ‹‹Rivista italiana di sociologia››, settembre-dicembre 1909.

[126] Cfr. A. Martinazzoli, op.cit., p. 658.

[127] Cfr. De Sanctis, Relazione intorno alla profilassi della Delinquenza dei minorenni, nota 44, pp. 270-271, presentata da S. De Sanctis alla Commissione reale per i provvedimenti per i minorenni il 15 febbraio 1910, in Patologia e profilassi mentale, 1912.

[128] Cfr. Antonietta Martinazzoli, Per la prevenzione…, op. cit. , pp.657 e G. C. Ferrari, La psicologia dei giovanetti criminali, in ‹‹Rivista di Psicologia››, 1914, pp. 337-338.

[129] Mi riferisco ai dati esposti dal Dr. Lepri nella relazione presentata al Consiglio direttivo del Patronato di Roma ora in I delinquenti in rapporto all’età, al sesso, ecc., S. Ottolenghi e S. De Sanctis, in Trattato pratico di Psicopatologia Forense, Milano, Società Edizioni Libraria, 1920.

[130] A. Martinazzoli, Per la prevenzione…, op. cit.

[131] Ibidem, pp. 659-663.

[132] Ibidem, p. 663.

[133] Ibidem, p.678.

[134] Ibidem, p.678-680.

[135] Cfr. P. Bertolini, I fattori motivanti. Il disadattamento sociale giovanile, op. cit., p. 485.

[136] Cfr. S. De Sanctis, Relazione intorno…op. cit., pp. 239-248.

[137] Ibidem, p. 241.

[138] Ibidem, pp. 242-246.

[139] Ibidem, p.248.

[140] Cfr. G. Montesano, Assistenza…, op. cit., pp. 149-150 e G. C. Ferrari, La psicologia…, op. cit., pp. 333.

[141] Cfr. G. C. Ferrari, La psicologia…, op. cit., pp. 335.

[142] Ibidem, p. 335.

[143] Cfr. S. De Sanctis, La relazione…, op. cit., pp. 238 e G. Montesano, Assistenza…, op.cit., p. 148.

[144] Cfr. S. De Sanctis, La relazione…, op.cit., p. 238.

[145] Cfr. G.C.Ferrari, La psicologia dei giovanetti criminali, in «Rivista di Psicologia», 1914, p.334.

[146] Cfr. G. Montesano, Relazione…, op. cit., pp. 147-148.

[147] Cfr. A.

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Martinazzoli, op. cit., p. 667.